domenica 19 maggio 2013

[Ciò che non vi hanno detto] Lo smarrimento di David: rabbinato, antisemitismo e storia ebraica (con qualche riferimento cinematografico)

Uscito Venerdì 17 maggio 2013 sul quotidiano Rinascita, ripreso da AndreaCarancini.blogspot.it e Losai.eu:

Lo smarrimento di David:

rabbinato, antisemitismo e storia ebraica (con qualche riferimento cinematografico)

di Andrea Giacobazzi
 
“Si deve pertanto dedurre che le cause generali dell’antisemitismo siano sempre state insite nello stesso Israele e non nei popoli che lo combatterono. […] Con questo non vogliamo affatto affermare che i persecutori degli Israeliti ebbero sempre il diritto dalla loro parte, né che non si abbandonarono agli eccessi propri dell’odio violento, semplicemente vogliamo dire che in linea di massima e almeno in parte, gli Ebrei stessi furono la causa dei loro mali”[1].
Questa dichiarazione del 1894 appartiene al celebre scrittore “ebreo nazionalista, libertario internazionalista, pro-sionista” Bernard Lazare[2]. Risulta difficile non farsi interrogare circa i risvolti teologici, politici e storici che queste frasi implicano. Quale fondamento riconoscere alla “minaccia antisemitismo” che si sente spesso lanciare anche ai giorni nostri? Come si è declinato nella storia il carattere problematico del rapporto tra israeliti e non-israeliti? Quale ruolo ha avuto il rabbinato nella progressiva “chiusura” che ha portato gli ebrei, da popolo orientato al proselitismo a diventare ciò che conosciamo oggi?
 
1. “La pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata d’angolo”
 
“Ma quei vignaioli, visto il figlio, dissero tra sé: Costui è l’erede; venite, uccidiamolo, e avremo noi l’eredità. E, presolo, lo cacciarono fuori della vigna e l’uccisero”[3]. Con queste parole, Gesù stesso, parlò ai sommi sacerdoti e agli anziani del popolo; non mancò d’aggiungere: “Perciò io vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare”[4].
Nel tentativo di dare una risposta, almeno parziale, alle domande appena poste è necessario comprendere uno dei passaggi fondamentali della storia ebraica, ovvero il mancato riconoscimento del Messia, messo in croce sotto Ponzio Pilato. Le cause della non accoglienza di Cristo, in parte, ne hanno preceduto la venuta: già nell’Antico Testamento il popolo d’Israele, sebbene eletto, viene chiamato da Dio stesso “popolo di dura cervice”[5].
Questo irrigidimento presente in nuce, ebbe modo di svilupparsi durante i secoli successivi. Eventi traumatici come la schiavitù babilonese (586 a. C. circa) provocarono, nel seno d’Israele, un’immensa perturbazione e la tradizione cabalistica ortodossa finì col cadere nell’oblio[6]. Più tardi, quando i tempi si compirono, la colpevolezza dei dottori della sinagoga consistette nel nascondere al popolo la chiave della scienza per la quale Israele avrebbe riconosciuto il Messia[7]. Bernard Lazare aggiunge che prima della nascita di Cristo, “quando la nazionalità ebraica si trovò in pericolo, sotto Giovanni Ircano, si videro i farisei dichiarare impuro il suolo dei popoli stranieri, impure le relazioni tra ebrei e greci”[8].
La mutazione della Tradizione che offuscò la capacità di incontrare pienamente il Messia venne denunciata in modo inequivocabile da Santi dottori e Padri della Chiesa. Sant’Epifanio parla di “tradizioni falsificate dai farisei”, San Beda di una “tradizione tutta umana e superstiziosa”, Sant’Ilario di Poitiers attacca la “tradizione umana, in nome della quale scribi e farisei hanno trasgredito i precetti della Legge Mosaica”[9]. Lo stesso Gesù discutendo con i farisei non mancò di chiedere: “Perché voi trasgredite il comandamento di Dio in nome della vostra tradizione?”[10].
Dopo le Resurrezione di Cristo ebbe luogo un’ulteriore radicalizzazione: la presa di Gerusalemme da parte dei Romani nel 70 d. C. – e con essa la distruzione del Tempio, luogo per eccellenza in cui venivano praticati i sacrifici – portò alcuni ebrei alla sfiducia e persino alla rivolta contro il “silenzio di JHWH [Dio]” che, a loro avviso, non aveva salvato il suo popolo[11]. Verso gli ultimi tempi della città, il culto fu invaso dal fariseismo e si rese chiaro quanto “l’impuro miscuglio”[12] qui esposto stesse contaminando la retta Tradizione.
 
 
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Il Sommo Sacerdote Caifa e Gesù
 
2. La strutturazione dell’isolamento
Va chiarito: nonostante le deformazioni descritte, in tempi ormai lontani, la discendenza di sangue non ebbe per gli ebrei lo stesso peso che ha avuto in seguito. Il popolo israelitico non mancò di dar luogo ad un consistente proselitismo i cui esempi storici sono molteplici: si pensi che nel VI secolo d.C. lo Yemen era quasi interamente ebraico[13] e non pochi furono i conflitti, nell’area mediterranea, tra la l’opera di propagazione della Fede cristiana e la controparte ebraica.
Shlomo Sand, sintetizzando lo stato del proselitismo giudaico prima del consolidamento definitivo del cristianesimo, ci dice che gli ebrei portarono avanti la loro azione anche in zone ancora non coinvolte dal “dilagare del monoteismo”: “Dalla penisola arabica fino alle terre slave, dai monti del Caucaso alle pianure tra il Volga e il Don, dalle zone attorno all’antica Cartagine distrutta e ricostruita, fino alla penisola iberica premusulmana, la religione ebraica non cessò di fare proseliti, garantendosi una sorprendente continuità storica”[14].
Risulta curioso notare, a fianco di queste riflessioni storiche, come ai giorni nostri non manchino casi di popoli per i quali si sospetta una lontana origine ebraica, magari attribuibile alle dieci tribù disperse. Il caso più discusso è quello dei pashtun (distribuiti principalmente tra Afghanistan e Pakistan), che paiono aver ereditato non pochi elementi della tradizione ebraica[15] e che, pur essendo islamici sunniti, si compiacciono di far risalire le loro origini all’Israele veterotestamentario. Vi sono narrazioni locali che rivelano la consapevolezza dell’esistenza del Tempio di Salomone, così come la sua distruzione e l’esilio babilonese che seguì[16]. Sarebbe quantomeno singolare notare una maggiore presenza di discendenti dell’antico Israele tra certi gruppi di talebani che non in determinate comunità ebraiche ortodosse. Analogamente, è difficile non fare cenno delle convinzioni di Ben Gurion sull’origine dei palestinesi: “Non c’è dubbio che nelle loro vene scorra molto sangue ebraico, sangue di quegli ebrei che, in tempi difficili, preferirono ricusare la propria fede, pur di conservare la loro terra”[17].
Come accennato, la chiusura del giudaismo in se stesso, fu progressiva. Sand individua un passaggio cruciale nella cristianizzazione dell’Impero Romano: “Il trionfo definitivo del cristianesimo all’inizio del quarto secolo segnò la fine del fervore missionario nei principali centri culturali facendo nascere probabilmente il desiderio di rimuovere completamente le tracce della storia ebraica”[18].
Se non vi fosse stato chi tra gli israeliti tratteneva “la massa degli ebrei nei lacci delle strette osservanze e delle rigide pratiche rituali” – sostiene Lazare -  “il vero mosaismo, purificato e reso più grande da Isaia, Geremia e Ezechiele, diffuso ovunque universalmente ancora dai giudeo-ellenisti, avrebbe portato Israele al Cristianesimo”[19]. Per custodire il popolo i dottori “esaltarono la loro legge al di sopra di ogni cosa, dichiararono che l’israelita doveva amare soltanto lo studio della legge [...] e proibirono lo studio delle scienze profane e delle lingue straniere”[20].
Già nella stesura del Talmud (esistono due versioni: Babilonese, III-V sec.; Gerosolimitano, IV-V sec.) il tema del proselitismo è trattato in modo non lineare e con affermazioni controverse, ma il percorso dell’autoisolamento ebraico pare raggiungere il vero punto di svolta con il XIV secolo, dopo che l’assemblea dei rabbini di Barcellona[21] scomunicò chi si fosse occupato di scienza profana[22]: dopo che R. Schalem di Montpellier ebbe denunciato il More Nebuchim[23], i rabbini trionfarono e così facendo – volendo citare ancora le parole di Lazare – avevano “tagliato Israele fuori dalla comunità dei popoli, ne avevano fatto un solitario scontroso, ribelle a qualsiasi legge, ostile a qualsiasi sentimento di fratellanza, chiuso a qualsiasi idea bella, nobile e generosa; ne avevano fatto una nazione miserabile e meschina, inacidita dall’isolamento e corrotta da un ingiustificabile orgoglio”[24].
Parlando del cuore del giudaismo aschenazita, il filosofo tedesco di origine ebraica Solomon Maimon sembra confermare, con parole certamente ruvide, il pensiero dello scrittore francese: “Conobbi bene il dispotismo rabbinico che, grazie al potere della superstizione, aveva stabilito da molti secoli il suo trono in Polonia e che per propria sicurezza aveva cercato in tutti i modi di prevenire la diffusione della luce e della verità. E come la teocrazia ebraica fosse strettamente collegata all’esistenza nazionale, l’abolizione della prima avrebbe portato all’annichilimento della seconda”[25].
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Shulchan Aruch, testo sapienziale rabbinico
3. Prime conferme cinematografiche: A Serious Man
Facile immaginare in questo contesto l’impatto esplosivo dell’emancipazione moderna e dell’apertura dei ghetti. Il decreto francese del 1791, “poteva dar loro la libertà, abolire in un sol giorno l’opera legislativa di secoli” ma “non poteva disfarne l’azione morale ed era soprattutto impotente a spezzare le catene che gli ebrei stessi si erano forgiate”[26]. Se da un lato non mancarono i refrattari, il progressivo dilagare dell’assimilazione pose un problema imprescindibile all’identità ebraica. Il sionismo fu, per certi aspetti, un tentativo di risposta, una reazione estrema alla dispersione degli ebrei, una riedizione – moderna, secolare e talvolta con accenti völkisch – dell’isolamento di cui abbiamo parlato: si pensi, ad esempio, alle parole del dirigente Max Nordau sul valore del ghetto[27] o all’atteggiamento generale del movimento riguardo la naturalezza dell’antisemitismo[28].
Della “prevenzione della diffusione della luce” appena descritta – e più in generale di una certa autoreferenzialità teologica – si trova una descrizione curiosa e attuale nella pellicola A Serious Man (2009) dei fratelli Coen. Nel film, come nota Eugene Michael Jones, si espone la radicale inerzia rabbinica e la conseguente incapacità di dare spiegazione alla sofferenza, alla presenza del male e agli eventi più importanti della vita di un uomo[29]. Larry Gopnik, il protagonista, passerà buona parte del tempo a vagare tra un rabbino e l’altro in cerca di risposte che non arrivano. Nonostante sia diretto dalla celebre coppia di fratelli ebrei, Jones definisce A Serious Man come il più antiebraico dei film che Hollywood abbia mai prodotto. Al suo confronto “Jud Suess (pellicola di propaganda nazionalsocialista) sembra Fiddler on the Roof”[30]. Il film forse inizia con un rabbinicidio. “Forse” perché ciò che è narrato nelle prime scene pare totalmente decontestualizzato in termini di tempo e di spazio: è una storiella yiddish creata dai registi e ambientata in uno shtetl[31] dell’Europa orientale. Un uomo con le sembianze di un famoso rabbino viene portato a casa da un uomo, comunicata la gradita presenza dell’ospite alla moglie, questa – in linea con la superstizione – dice che il rabbino è morto e fuori dalla porta non può che esservi un dybbuk[32]. Dopo averlo fatto accomodare, i tre discutono insieme della cosa, il marito dice all’anziano “ovviamente non credo a queste cose, sono una persona razionale” ma la donna trafigge il cuore dell’ospite con un rompighiaccio: questi ride istericamente e, capendo di non essere gradito, si trascina sanguinante fuori dalla porta. Il marito esclama disperato: “Siamo rovinati, domani scopriranno il corpo“.
3Larry Gopnik, protagonista di “A Serious Man”
 
Se da un lato questa inerzia (e superstizione) tradizionale pareva condizionare pesantemente la vita ebraica, dall’altro – come accennato – l’apertura al mondo non era di minore complessità. Con il “rischio” dell’assimilazione una valanga di dubbi si riversò sul dibattito riguardante ciò che l’ebreo “sciolto” in una società cristiana avrebbe potuto o voluto essere. Pensiamo all’interpretazione che ne diede Woody Allen nel suo Zelig (in yiddish: “benedetto”), in cui il protagonista assume immediatamente e patologicamente le sembianze tipiche del gruppo umano in cui è inserito. Un camaleontismo estremo che porterà Leonard Zelig a comparire addirittura alle spalle di Hitler durante un’adunata nazionalsocialista. Maurizio Cabona la inquadra come descrizione della condizione ebraica tra “assimilazione fino all’estinzione e contrapposizione fino alla persecuzione”[33].
 
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La locandina di “Zelig”
 
4. Antisemitismo immaginario e anti-antisemitismo
Spiegate alcune delle ragioni (contaminazione della Tradizione, diffusione del Fariseismo et cetera) per cui l’ebraismo ha “sbagliato strada” non seguendo il Messia che gli era stato inviato, chiarito che questo errore avrebbe portato, oltre a “perdere il Regno di Dio”, a proseguire nell’inevitabile cammino dell’autoisolamento, risulta necessario comprendere come questi elementi – sommati ad una certa avversione rispetto ai gentili – avrebbero prodotto una polarizzazione tale da generare, in epoca contemporanea, una sorta di ossessione per l’antisemitismo. Questo fatto è in parte leggibile come proiezione sui non-ebrei di un’ostilità verso l’esterno propria dello stesso giudaismo e, di conseguenza, come un collante interno – sociale ed ideologico – utilizzabile a fini politici. Un collante che, come vedremo, finirà per essere non solo un espediente momentaneo ma, paradossalmente, un “ingrediente” dell’identità ebraica dei nostri tempi, in particolare tra gli israeliti non praticanti e in campo sionista.
Gli ebrei religiosi della diaspora, pur restando fedeli allo spirito talmudico, paiono avere una percezione sociale dell’antisemitismo meno ansiosa, le loro caratteristiche identitarie non sembrano aver così tanto bisogno (a differenza dei non religiosi) di un nemico visibile che cementi continuamente la coesione interna. In alcune interviste filmate questo dato emerge in modo chiaro. Una coppia di esponenti dell’Anti Defamation League (potente organizzazione pro-sionista che “combatte l’antisemitismo”) ha sostenuto: “L’ADL aiuta a rinforzare la nostra identità ebraica, perché non siamo ortodossi e non abbiamo una vita religiosa ebraica, l’ADL ci dà uno spazio per essere ebrei, intendo ebrei al 99,9%”. Dal canto suo, Rabbi Hecht di Brooklyn è arrivato ad affermare: “Ragazzi, lasciate che ve lo dica, sono diffidente quando una persona si guadagna da vivere con situazioni particolari. Quindi se c’è un particolare cast cinematografico che si guadagna da vivere col sangue, mi insospettisco ogni volta che questi mi mostrano del sangue. […]”. Pur non volendo attaccare direttamente l’organizzazione, ha aggiunto in seguito: “L’ADL sotto alcuni aspetti è decisamente responsabile di aver creato problemi più che averli risolti”[34].
Sul rapporto sionismo-antisemitismo, Vincenzo Pinto ci presenta una riflessione di sicura importanza, in particolare se si considera che proviene da ambienti non solo privi di caratterizzazioni antisioniste ma anche prossimi al cosiddetto establishment:
            [...] Nel 1995 Anita Shapira, uno dei più noti studiosi israeliani appartenenti alla cosiddetta “storiografia dell’establishment”, ha posto lucidamente la vessata questione: in che misura il sionismo ha saputo puntellare la sua costruzione identitaria su di un principio negativo (come   l’antisemitismo) rispetto a uno positivo (come la rinascita nazionale ebraica)? Paragonato ad altri responsi ebraici all’antisemitismo (l’umanesimo liberale, il bundismo, l’ebraismo riformato), «l’unicità del sionismo sta nell’aver accettato l’assunto basilare antisemita che gli ebrei    costituissero un “corpo estraneo” nella fabbrica nazionale dei popoli europei – un corpo che non poteva mai assimilarsi. [...] Un velo è sollevato dai loro occhi, ed essi [i sionisti] possono parlare onestamente e apertamente dei difetti e delle debolezze ebraici. Questo era un candore che gli ebrei non avevano potuto permettersi finché essi credevano ancora che il problema ebraico avrebbe potuto un giorno essere risolto entro la struttura delle nazioni europee»[35].
Non solo una semplice accettazione. Alcuni esempi lampanti dell’assunzione e della conseguente manifestazione di elementi tipici della critica antiebraica da parte della cultura sionista sono stati evidenziati magistralmente nel documentario Defamation del regista israeliano Yoav Shamir, la pellicola fu Best Documentary Feature Film nell’edizione 2009 dell’Asia Pacific Screen Awards. Shamir, intervistando sua nonna (un’ebrea russa la cui famiglia, di forti convinzioni sioniste, si stabilì in Palestina nel XIX secolo), dipinge un quadro in cui una determinata weltanshauung emerge nella sua più pura genunità:
“Dicono che è pieno di antisemiti lì fuori”, risposta dell’anziana signora: “Dove? All’estero? Allora perché non vengono qui [in Israele]? [...] Stanno aspettando di essere uccisi?”. Domanda del regista: “Perché non vengono?”, risposta: “Beh loro amano i soldi, gli ebrei amano i soldi, gli ebrei sono mascalzoni (crooks) [...]. Perché dovrebbero venire qui e lavorare per guadagnare soldi, se possono fare i soldi senza lavorare?”. Nuova domanda: “Non lavorano lì?”, risposta: “Non lavorano, è ciò che sto dicendo”. Yoav Shamir: “Come fanno ad avere soldi se non lavorano?”, “Con gli interessi, prestano soldi con interessi alti.. vendono liquori..vino, gli ebrei conoscono questo lavoro discutibile (monkey business)[...]. Credimi io sono una vera ebrea, il denaro non mi acceca [...]“. “Ma tu parli come un’antisemita, dicendo che gli ebrei non lavorano, ecc..”. Risposta: “No, niente affatto, se vogliono stare all’estero, stanno forse aspettando l’arrivo di un altro Hitler che li stermini”.
L’inizio del documentario è forse ancora più eloquente: scorrono le immagini di diversi quotidiani israeliani e la voce di Shamir afferma: “Tre parole sembrano apparire in continuazione: olocausto, nazista, antisemitismo. Vivendo in un paese che fu fondato per dare agli ebrei un posto sicuro in cui stare, ho trovato tutto questo sconvolgente”. Questa ossessione dell’antisemitismo viene riproposta in tutto il film, con particolare riferimento ai viaggi della memoria in cui i giovani israeliani sono catechizzati alla diffidenza verso i non-ebrei e al culto del passato.
5Yoav Shamir, regista di “Defamation”, in una delle scene del documentario
 
5. The Believer: “Agli ebrei piace separare le cose”
Se il cinema ebraico può essere utile per spiegare o completare determinati passaggi di questo testo, c’è una pellicola – sebbene complessivamente caratterizzata da un sentimento tutt’altro che religioso – che, in alcune sue parti, pare compendiare molti aspetti analizzati: The Believer di Henry Bean[36]. Il film è la storia di Daniel Balint, un giovane skinhead neonazista che già nelle prime scene mostra la sua rabbia scendendo da un bus insieme a un ebreo colpito con calci e pugni pochi minuti dopo. Il ragazzo si farà strada nell’ambito dell’estremismo politico propugnando concetti razzisti e predicando la necessità di compiere omicidi e violenze contro gli israeliti. Daniel però viene da una famiglia ebraica e ha studiato in scuole ebraiche: sulla conflittualità derivante da questo dualismo si fonda lo sviluppo della narrazione: il protagonista non è affatto uno stupido e conosce in modo approfondito il giudaismo per il quale nutre sentimenti controversi, al punto da far sospettare un suo tormentato “riavvicinamento” alla cultura (più che alla religione) d’origine.
 
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Locandina di “The Believer”
Focalizziamo ora l’attenzione su alcune scene che toccano i temi affrontati, ad esempio la deformazione della Tradizione, l’autoisolamento e il tema dell’antisemitismo. Ad un certo punto il protagonista e il suo gruppo skinhead vanno provocatoriamente a mangiare in un ristorante ebraico per irridere certa precettistica rabbinica, di fronte all’insistenza dei ragazzi per avere un piatto che unisca carne e formaggio (incompatibile con i precetti della cucina kasher), il cameriere risponde: “Siamo un ristorante kasher, non serviamo carne insieme al formaggio”. Allora domandano: “E insieme al pollo?”. Il cameriere: “E’ carne anche il pollo”. Interviene Daniel: “La Bibbia veramente dice di non cuocere un capretto nel latte della madre ma una gallina non dà latte”. Il cameriere li invita ad andare alla pizzeria di fronte per soddisfare la loro voglia di formaggio ma Daniel con tono arrogante risponde: “Ok, ma vorrai ammettere che è stupido. Hai mai munto una gallina?”, “No, non voglio ammettere che è stupido”. Ancora Daniel: “Puoi mangiare il pollo con le uova ma non con il latte, per quale motivo?”. Viene chiamato l’altro cameriere che si presenta con un bastone e scoppia una rissa.
Daniel inizia una relazione con Carla – una giovane argentina – che a sua volta si incuriosisce sempre di più dell’ebraismo. Insieme in camera, di fronte ai rotoli della Torah che aveva rubato in una incursione in sinagoga, Daniel la esorta, per rispetto, a non stare nuda “lì davanti” e le lancia un vestito: lei non capisce. I due iniziano a parlare e il protagonista spiega: “Agli ebrei piace separare le cose: il sacro dal profano, la carne dal latte, la lana dal lino, lo shabbat dagli altri giorni, l’ebreo dal gentile, è come se un pezzo dell’uno potesse contaminare irrimediabilmente l’altro”. “Chi è il contaminato? L’ebreo oppure il gentile?” chiede Carla, “Bella domanda” risponde Daniel.
Un ulteriore dialogo con Carla pare ancora più interessante. Lei, continuando la sua esplorazione, arriva a sostenere che “nell’ebraismo non c’è niente” e Daniel va oltre: “Il nulla senza fine, l’ebraismo non si fonda sul credere ma sul fare delle cose, osservare lo shabbat, accendere le candele, visitare gli ammalati”. Chiede Carla: “E ne deriva il credere?”. Daniel: “Non ne deriva niente […]”. La discussione continua con la ragazza che dice: “L’ebraismo non ha bisogno di un dio, la Torah, è quello il vostro dio, il libro è chiuso”.
Altra scena: Daniel si reca in sinagoga invitato da una coppia di amici ebrei, appena arriva inizia a litigare col suo vecchio compagno di scuola Avi. Parlano di sionismo e nazismo, politica del Vicino Oriente, Sabra e Shatila. Avi ad un certo punto sbotta: “Perché per gli ebrei i metri di giudizio sono sempre più rigorosi?”, interviene una donna con la kippah: “Perché siamo il popolo eletto, non è vero Daniel?”, la discussione si infiamma ulteriormente e Daniel afferma: “Leggete i primi sionisti ed ebrei europei, vi assicuro che sembrano Goebbels”, poi aggiunge stizzito: “I nazisti facevano quello che diceva Hitler e voi fate quello che dice la Torah o il rabbino!”
 
7L’aleph che, nel diario di Daniel Balint, diventa una svastica
 
L’intervento di Daniel che probabilmente è più significativo arriva verso la fine del film quando, ad una riunione politica, parla del rapporto da tenere con gli ebrei. Sebbene esagerato in diversi passaggi, è utile riportare alcuni estratti: “Sapete che cosa dobbiamo fare? Dobbiamo amarli! Che cosa? Ha detto di amare gli ebrei? È molto strano, lo so, ma con quella gente niente è semplice. L’ebreo dice solo che vuole essere lasciato in pace a studiare la sua Torah, fare qualche affaruccio […] ma non è vero, lui vuole essere odiato, desidera ardentemente il nostro odio, ne ha un gran bisogno come se ciò fosse insito nella propria natura, se Hitler non fosse esistito gli ebrei l’avrebbero inventato […]”. Certo, lo abbiamo detto: la forma, i toni e il contesto – essendo determinati da esigenze cinematografiche – sono a volte stridenti col messaggio lanciato ma un dato emerge in modo netto: l’antisemitismo è spesso utilizzato come collante e “l’amore” può essere un “pericolo” per la comunità. Daniel arriverà ad invitare non solo ad amare ma ad “amare sinceramente”. Seppur rapidamente, sfiorerà un altro tema cruciale: il rapporto tra persecuzione degli ebrei e la loro “deificazione”.
Su quest’ultimo aspetto, e in particolare sulla trasformazione dei patimenti ebraici durante il secondo conflitto mondiale in qualcosa di non molto dissimile da una “religione misterica”[37] scrisse – oltre un decennio fa – Peter Novik, parlando di una sostanziale “sacralizzazione”. Gli ex deportati israeliti assumono così “il privilegio all’autorità (sacerdotale) di interpretare il mistero”[38].  Del resto, in campo rabbinico, non sono mancati parallelismi improbabili, si pensi a Rabbi Ignaz Maybaum e ai paragoni che fece con la crocifissione di Cristo[39].
6. Il profeta Natan e Re David: conclusioni
Torniamo all’amore (caritas) di cui parla Daniel Balint. Abbiamo visto, fin dalle prime le righe, che lo sbaglio decisivo di questo popolo fu non riconoscere il Messia e con esso l’Amore (Deus Caritas Est). Anche Re David per un certo tempo perse la giusta strada, desiderò Betsabea (moglie di Uria l’Ittita), la ingravidò, fece morire il guerriero per sposare la donna. Compì tutto questo ma, dopo essere stato ammonito dal profeta Natan, si pentì ed espiò, poco dopo il figlio avuto con Betsabea morì. A differenza di ciò che farà il suo popolo, David non permise che il suo smarrimento lo portasse a ripiegarsi sui suoi errori ma decise di risollevarsi, migliore di prima, tornando sulla retta via.
Comprendere lo smarrimento di David significa comprendere una metafora fondamentale della storia ebraica.  
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Davide, Re e Santo

[1] Bernard Lazare, L’Antisemitismo, Storia e Cause, CLS, 2000, p. 14 (edizione originale: Léon Chaillet éditeur, Paris, 1894).
[2] Michael Löwy, Jewish nationalism and libertarian internationalism in the writings of Bernard Lazare, in: M. Berkowitz, Nationalism, Zionism and ethnic mobilization of the Jews in 1900 and beyond, BRILL, 2004, p.  179. Bernard Lazare fu polemista, critico letterario, giornalista. La definizione introduttiva che Michael Löwy diede di Lazare nel saggio citato è: “a paradoxical figure: Jewish nationalist and libertarian internationalist, pro-Zionist and anti-Theodor Herzl, an anarchist opponent of the bourgeois Republic and a defender of captain Dreyfus, a ferocious critic of the Catholic Church whose greatest admirer was the Catholic socialist Charles Peguy. He is what is called in Frech “inclassable” […]”
[3] Matteo 21, 38-39.
[4] Matteo 21, 43.
[5] Esodo 32.
[6] Julio Meinvielle, Influsso ebraico in ambiente cristiano, Roma, 1988, pp- 21.22; in: Curzio Nitoglia, Gnosi, Gnosticismo, Paganesimo e Giudaismo, Cavinato Editore, 2006, p. 33.
[7] Ibidem.
[8] Bernard Lazare, L’Antisemitismo, Storia e Cause, CLS, 2000, p. 19.
[9] Le citazioni riportate sono tratte da: Curzio Nitoglia, Gnosi, Gnosticismo, Paganesimo e Giudaismo, Cavinato Editore, 2006, p. 32.
[10] Matteo 15, 3
[11] R. M. Grant, La Gnose et les origines chrétiennes, Seuil, Paris, 1964; in: Curzio Nitoglia, Gnosi, Gnosticismo, Paganesimo e Giudaismo, Cavinato Editore, 2006, p. 16.
[12] Ibidem.
[13] Bernard Lazare, L’Antisemitismo, Storia e Cause, CLS, 2000, p.  77.
[14] Shlomo Sand, L’invenzione del popolo ebraico, Rizzoli, 2010, p. 288. 
[15] Raffaele Picciotto, Ebrei afghani: sulle tracce delle 10 tribù scomparse, Mosaico, 7 giugno 2012. ( http://www.mosaico-cem.it/articoli/ebrei-afghani-sulle-tracce-delle-10-tribu-scomparse )
[16] Avrum M. Ehrlich, Encyclopedia of the Jewish Diaspora: Origins, Experiences, and Culture, Volume 1, p. 85.
[17] Leonid Mlecin, Perché Stalin creò Israele, Teti Editore, 2009, p. 54.
[18] Shlomo Sand, L’invenzione del popolo ebraico, Rizzoli, 2010, p. 262.
[19]  Bernard Lazare, L’Antisemitismo, Storia e Cause, CLS, 2000, p. 21.
[20] Ibidem.
[21] La Jewish Encyclopedia riferisce del decreto “signed by thirty-three rabbis of Barcelona, excommunicating those who should, within the next fifty years, study physics or metaphysics before their thirtieth year of age” [Isidore Singer, Cyrus Adler, The Jewish encyclopedia: a descriptive record of the history, religion, literature and customs of the Jewish people from the earliest times to the present day, Funk and Wagnalls, 1925, p. 33.]
[22] Bernard Lazare, L’Antisemitismo, Storia e Cause, CLS, 2000, p. 22.
[23] Il More Nebuchim è “La guida dei perplessi” di Maimonide, 1190.
[24] Ivi, p. 22.
[25] Solomon Maimon, The Autobiography of Solomon Maimon (London: East and West Library, 1954), p. 135. Lazare sull’ebraismo polacco del XVII secolo arriva ad affermare: “Dominati dai Talmudisti, non seppero produrre null’altro che dei commentatori del Talmud”.
[26] Bernard Lazare, L’Antisemitismo, Storia e Cause, CLS, 2000, p. 163.
[27] Max Nordau ebbe modo di affermare: “Dove le autorità non lo confinavano in un ghetto, là egli si erigeva da sé il suo ghetto. Voleva stare con i suoi e non avere cogli abitanti cristiani altri rapporti che quelli del traffico. Nella parola “ghetto” risuonano alcune lievi sfumature di vergogna e di umiliazione. Ma l’etnologo e lo storico dei costumi riconoscono che il ghetto, qualunque fosse l’intenzione dei popoli che lo istituirono, non era sentito dagli ebrei del passato come una prigione ma come un luogo di rifugio. […] Nel ghetto l’ebreo aveva il suo mondo, la sua casa sicura che aveva per lui il significato spirituale e morale d’una patria.  [...]  Tutti i costumi e le abitudini ebraiche perseguivano inconsciamente una meta sola, quella di conservare l’ebraismo, mediante la separazione dai popoli, di curare la comunità ebraica, di tenere sempre presente al singolo ebreo ch’egli si sarebbe perduto e sarebbe stato sommerso se avesse rinunciato al suo carattere particolare”. (cfr.: Andrea Giacobazzi, L’asse Roma-Berlino-Tel Aviv, Il Cerchio, 2010).
[28] Su questa insistenza il decano degli storici sionisti, Walter Laqueur, arrivò a chiedersi se non si trattasse addirittura di ‘grist to the mill of Nazi propaganda’ (cfr.: Walter Laqueur, A History of Zionism, p. 500).
[29] Eugene Michael Jones, Rabbinical Despotism, Culture Wars, June 2010.
[30] Ibidem.
[31] Insediamento con un’elevata percentuale di popolazione di religione ebraica.
[32] Un’anima in grado di possedere gli esseri viventi:lo spirito di una persona defunta al quale è stato vietato l’ingresso al mondo dei morti.
[33] Maurizio Cabona, Provaci ancora Woody, Il Giornale, 13 novembre, 2010.
[34] Tutte queste citazioni provengono dal documentario Defamation di Yoav Shamir. Questo film – la cui visione è consigliabilissima – lo nomineremo anche in seguito. Le traduzioni sono di Laura Caselli.
[35] Anita Shapira, Anti-Semitism and Zionism, «Modern Judaism», XV, 3, 1995, p. 218, in: Vincenzo Pinto, La dialettica fra antisemitismo e sionismo nel pensiero e nell’opera di Vladimir Ze’ev Jabotinsky, FreeEbrei (http://www.freeebrei.com/interventi/sionismo-e-antisemitismo-una-concordia-discors)
[36] The Believer di Henry Bean, 2001. Il film ha vinto il Gran Premio della Giuria al Sundance Film Festival del 2001 e il Gran Premio al Moscow International Film Festival sempre nel 2001.
[37] Peter Novick, The Holocaust in American Life, Houghton Mifflin Harcourt, 2000, p. 201.
[38] Ibidem.
[39] Marc A. Krell, Intersecting Pathways : Modern Jewish Theologians in Conversation with Christianity: Modern Jewish Theologians in Conversation with Christianity, Oxford University Press, 2003, p. 176.
 
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