La risposta alla domanda nel titolo sarebbe ben più complessa e vasta di quella che provo a dare in questo articolo; in questa sede, mi focalizzo su una evoluzione – anzi, involuzione – del nostro ordinamento in materia di tutela della vita nascente: ennesima, direi, ma passata sotto silenzio nei media.
Trattasi, come spesso accade in questi casi, di un precedente giudiziario, ossia di una sentenza su un caso particolare e, come tale, destinata a regolare solo quello specifico caso ma anche ad influenzare eventuali successive pronunce perché emanata dal giudice di vertice delle nostre curie giudiziali, ossia dalla Suprema Corte di Cassazione. L’impatto, è da rilevare, potrebbe essere più limitato che in altri casi perché, come già ho scritto, non si tratta di una sentenza finita su giornali, tv ed internet, ma è estremamente indicativa dell’aria che tira e di come il Diritto e la Giustizia subiscano la prassi anziché esserne limite e guida.
Fine premessa, entriamo nel merito. Parliamo di aborto “terapeutico”, ossia di quell’interruzione volontaria di gravidanza che viene praticata oltre il terzo mese di gestazione nel caso in cui la madre rischi al vita o la salute fisica o psichica nel proseguire la gravidanza a causa di processi patologici propri o del feto.
Insomma, parliamo dell’aborto degli esseri umani malformati, dal Down al focomelico, dal labbro leporino alla spina bifida fino a coprire tutta la gamma di quegli esseri umani che evidentemente non meritano di nascere e che, spesso “per il loro bene”, vengono soppressi prima della nascita con modalità che non meritano neppure d’essere approfondite, modalità che sono il degno corollario di un fenomeno – l’aborto legale – del quale sicuramente tra qualche secolo la nostra civiltà giuridica si vergognerà almeno al pari dei codici che disciplinavano e regolamentavano la tortura.
A tacer dei casi in cui la diagnosi prenatale è errata e viene ucciso un essere umano sano.
La fattispecie è disciplinata dall’art. 6 e dell’art. 7 della Legge 194/78, quella sull’aborto legale. Piccolissime premesse tecniche, solo due.
Prima premessa tecnica: comunemente si intende che la legge consenta l’aborto “terapeutico” fino al sesto mese di gravidanza, ma questo nella 194 non c’è scritto. C’è scritto anzi che “Quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui alla lettera a) dell’articolo 6 e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto” (art. 7, comma 3). L’ipotesi “di cui alla lettera a) dell’articolo 6” è il caso di grave pericolo di vita per la donna, ossia l’ipotesi in cui davvero si versi nella situazione “vita contro vita”: o vive il bimbo o vive la madre, o magari muoiono tutti e due. Fatta slava questa ipotesi, la legge dispone che l’aborto del bimbo malformato è possibile solo ove non sussista la possibilità di vita autonoma del feto. Ora, nel 1978 il limite al di sotto del quale tale possibilità di vita autonoma non sussisteva era collocato al sesto mese, ma dal 1978 ad oggi la terapia intensiva neonatale ha fatto passi da gigante onde non può più parlarsi di sesto mese, ma, semmai di ventunesima settimana (ossia poco più di cinque mesi), con la conseguenza logica e giuridica che l’aborto al sesto mese, o alla ventiduesima o ventitreesima settimana, è illegale. In tale stadioo di gestazione è al contrario è sancito l’obbligo del medico di adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto: viene da chiedersi se chi pratica questo genere di aborti su un Down o un focomelico abbia presente, in quel momento, che se il feto è di cinque mesi e mezzo con una terapia intensiva neonatale potrebbe sopravvivere e che egli ha l’obbligo giuridico di tentare di farlo sopravvivere.
Seconda premessa tecnica: l’iter per arrivare all’aborto “terapeutico” è differente rispetto a quello per l’aborto “normale”. Nell’aborto ordinario, una donna che chieda la distruzione del feto dovrebbe avere un colloquio con finalità informativo–dissuasive con il personale medico (art. 4 della 194/78). In altri termini, quell’incontro tra gestante e personale sanitario non attiene solo alla semplice acquisizione del consenso informato all’intervento (e già qua, se penso a come vanno davvero le cose…), ma il medico o il personale del Consultorio devono avere un ruolo attivo nell’esaminare la cause che inducono la donne ad abortire e nel superarle. Questo dice l’art. 5 della 194, che resta una legge omicida ma che evidentemente viene elogiata alla cieca dai suoi supporter. Andiamo avanti. Dunque, nel caso dell’aborto fino al terzo mese c’è questo colloquio informativo–dissuasivo: ebbene, nel caso dell’aborto oltre il terzo mese (l’aborto “terapeutico”, appunto) questo colloquio non c’è. In altri termini, se il feto è malato al legislatore non interessa che si tenti di scoraggiare la donna dalla scelta di abortire, perché la patologia è una condizione che si giustifica da sé e che giustifica da sé la richiesta.
Fino ad un certo punto, e qui entriamo nel merito di quel che voglio segnalare (lo so, è lunghetta, ma ci dobbiamo arrivare per bene). Fino ad un certo punto perché la Corte di Cassazione è (o era, vedremo perché) sempre stata granitica nell’affermare che l’aborto ex articoli 6 e 7 della 194 non può definirsi eugenetico perché oltre alla condizione patologica del nascituro deve essere accertato lo stato di gravissimo pericolo per la salute fisica o psichica della gestante. Cioè: non basta che il feto sia malato, deve esiste una documentazione medica che comprovi che tu donna avresti gravi problemi per la tua salute mentale se il bimbo nasce con quella deformità. In sostanza, dice la Cassazione, non si tratta di una scelta rimessa esclusivamente all’autodeterminazione della donna (come molti vanno credendo e dicendo), ma devono sussistere ed essere certificati quei processi patologici non solo nel nascituro, ma anche nella psiche della gestante perché la vita del concepito possa essere terminata.
Per esser più chiari: aborto del bimbo Down e assimilati = malattia del feto + pericolo per la salute fisica o psichica.
Bene. Anzi, bene per niente ma questo è. Ora, nessuno o quasi nessuno si è accorto di quel che ha statuito sempre la Corte di Cassazione nella sentenza Cass. civ. Sez. III, 10/11/2010, n. 22837[1]. In questa raffinata pronuncia la Corte lavora di fino e che fa? Fermo restando il divieto di aborto eugenetico, quindi ribadendo che alla malformazione del feto deve affiancarsi il rischio concreto di una grave patologia psichica della madre, la Corte sostiene però che il rischio di tale patologia non deve essere dimostrato dalla donna, perché è assodato che ciò si verificherà. In altri termini: cara mamma che vuole abortire, non devi più dimostrare che la nascita di un figlio – ad esempio – focomelico potrebbe gettarti in uno stato di prostrazione, perché questo è ovvio (brr…); spetta al medico dimostrare (come?) che tu non saresti gravemente colpita da questo fatto. Morale: l’aborto è, secondo la Cassazione, ciò che di regola avviene o dovrebbe avvenire alla notizia della malattia del figlio. Spero d’esser stato chiaro. Era qui che volevo arrivare. Si tratta di una decisione assolutamente inedita, posto che la stessa Corte di Cassazione, fino a pochi mesi prima[2], era rimasta ferma sul fatto che spettasse alla gestante dare prova della patologia del nascituro e della sua eventuale prostrazione, prostrazione che quindi non era considerata conseguenza automatica della notizia della patologia del nascituro.
La Cassazione dà così prova che quelle belle parole scritte agli articoli 2 e 3 della nostra Costituzione (doveri di solidarietà sociale, uguaglianza in senso formale e sostanziale tra i cittadini etc. etc.) non esistono, sono chiacchiere per i feti malformati, a meno che il medico non dimostri che la madre avvenne retto psicologicamente al parto di un figlio malato.
Ora, a parte la già sollevata perplessità su come possa il medico dar prova che la madre non abbia (o non avrebbe) riportato alcuna conseguenza psichica dalla nascita di un bimbo malato, è chiaro che tale stato di cose indurrà sempre più i ginecologi a proporre (speriamo non ad imporre) alle madri di effettuare tutta la diagnostica ben nota (amniocentesi, tritest et similia) e che i dottori non esiteranno a consigliare l’aborto in caso di patologie, perché è ora molto più agevole per una donna dimostrare che, in caso di omessa o errata diagnosi dalla quale sia esitata la nascita di un figlio malato, il medico è in colpa e quindi di essere risarcita da lui o dalla sua assicurazione.
Su queste basi, sull’equazione malformazione = gravissima patologia psichica = aborto, l’anno scorso, la Suprema Corte ci ha poi deliziati con la tristemente famosa sentenza della bimba Down che deve essere risarcita perché non abortita. In questa ultima sentenza[3], come molti ricorderanno, la Cassazione ha sancito che una bambina nata Down (non i suoi genitori, proprio lei) ha diritto ad un risarcimento perché la malattia non era stata a suo tempo diagnosticata e la madre non aveva potuto abortirla. Attenzione: il risarcimento, secondo la Corte, spetta non solo a lei, ma anche ai suoi fratelli (anche questo, fatto del tutto nuovo) perché la presenza della piccola Down pregiudicherebbe il rapporto tra loro ed i genitori. In altri termini, la presenza di un malato è per la Corte un disvalore che di regola può (nel caso avrebbe potuto) trovare rimedio con la soppressione del nascituro. Non andiamo oltre, perché non è di questa sentenza che volevo parlare, ma della precedente e l’ho già fatto.
Un’ultima cosa, anzi, una chiosa. La china ormai è chiara: questo non è un mondo per bimbi malati e l’Italia non fa eccezione. La direzione è quella dell’autogiustificazione dell’aborto del malformato, in un’ottica per cui, di fatto, è normale che si agisca per la soppressione del nascituro, e non per la sua tutela. Se l’aborto fino al terzo mese sconta dei paletti (evanescenti, ma tali comunque da poter escludere che si tratti di una mera scelta di autodeterminazione della donna[4]), tali paletti divengono sempre più labili nel caso della soppressione del nascituro oltre le dodici settimane di gestazione. Non c’è spazio per questi esseri umani nella nostra cultura che fugge a gambe levate dalla sofferenza, non c’è speranza nel cuore di chi li rifiuta. Non sto dicendo che non ci sia sofferenza in chi fa una scelta del genere, dico piuttosto che è preoccupante che questi nascituri non siano più in alcun modo difesi – anzi, lo spauracchio della responsabilità del medico concorre a determinare una vera e propria caccia al malformato, già del resto praticata in diversi Stati dell’Unione Europea – e che questo comporta che chi voglia accoglierli è sempre più solo. Non è solo un problema di strutture sanitarie, quanto piuttosto di strutture interiori ed affettive, che cedono troppo facilmente dinanzi alla prospettiva di accogliere un figlio speciale.
La società scristianizzata (anzi, anticristianizzata) va in questa direzione e certi Giudici la seguono o la precedono: averne consapevolezza è forse il primo passo per cercare di frenare questa deriva eugenetica.
MASSIMO MICALETTI
[1] Riporto la massima “In tema di responsabilità del medico da nascita indesiderata, ai fini dell’accertamento del nesso di causalità tra l’omessa rilevazione e comunicazione della malformazione del feto e il mancato esercizio, da parte della madre, della facoltà di ricorrere all’interruzione volontaria della gravidanza, è sufficiente che la donna alleghi che si sarebbe avvalsa di quella facoltà se fosse stata informata della grave malformazione del feto, essendo in ciò implicita la ricorrenza delle condizioni di legge per farvi ricorso, tra le quali (dopo il novantesimo giorno di gestazione) v’è il pericolo per la salute fisica o psichica derivante dal trauma connesso all’acquisizione della notizia, a norma dell’art. 6, lett. b), della legge n. 194 del 1978; l’esigenza di prova al riguardo sorge solo quando il fatto sia contestato dalla contraparte, nel qual caso si deve stabilire – in base al criterio (integrabile da dati di comune esperienza evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali) del “più probabile che non” e con valutazione correlata all’epoca della gravidanza – se, a seguito dell’informazione che il medico omise di dare per fatto ad esso imputabile, sarebbe insorto uno stato depressivo suscettibile di essere qualificato come grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”.
[2] Cass. civ. Sez. III, 02/02/2010, n. 2354.
[3] Cass. civ. Sez. III, 02/10/2012, n. 16754; se qualcuno vuol leggersela, noterà necessariamente la motivazione lunghissima e… notevolmente complessa.
[4] Sentenze Corte Costituzionale 10-02-1997 n. 35; Corte Costituzionale 28–1–2005 n. 48.
Fonte: http://radiospada.org/ |