lunedì 27 maggio 2013

Marcel De Corte: L'idealismo filosofico e le sue conseguenze (I parte).

Marcel De Corte

Brano estratto da: L’intelligence en péril de mort, cap. I: Gli intellettuali e l'utopia.

[L'idealismo filosofico e le sue conseguenze (I parte) [*]]

L'idealismo, con le sue false arie di sublimità, il suo farisaismo, la sua beata elevazione di pensiero e di cuore, la sua impostura, la cui profondità è tale da esser sconosciuta a se stessa; l'idealismo, che dà la morte all'intelligenza moderna, è senza dubbio il più grande peccato dello spirito.
La sua gravità è tanto più nociva quanto più contagiosa. Non si è ancora sottolineato abbastanza che l'idealismo — colle sue conseguenze — s'impara, mentre il realismo e la sua attiva ricettività nei confronti di tutte le voci del reale non s'impara. L'idealismo s'impara perché è un meccanismo di idee fabbricate dallo spirito, ed è sempre possibile l'insegnamento di una tale arte manifatturiera, una siffatta raccolta di procedure e di ricette; l'idealismo è una tecnica che tende ad imprigionare la realtà in forme preconcette, ed il proprio di ogni tecnica è di essere comunicabile; le idee, le rappresentazioni, le conoscenze si trasmettono agevolmente di spirito in spirito quando la loro struttura ed il loro progetto sono messi a nudo. Ma l'atto stesso del conoscere, la sintesi tra intelligenza e reale non passa da un individuo all'altro perché è un atto vissuto: ciascuno deve compierlo per conto proprio, ciascuno deve far esperienza personale della presenza della realtà e del suo contenuto intelligibile, ciascuno deve concepire da sé.
L'intelligenza non ha licenza di ripararsi dietro il mito della Ragione universale che suggerisce, provoca ed intronizza quella facilità, introdotta dall'idealismo in tutti gli ambiti dell'insegnamento, con cui le idee si sversano da una ragione in un'altra. È la convergenza degli atti personali del conoscere e dei concetti vissuti verso la stessa realtà conosciuta a sostenere la comunicazione tra gli uomini: taluni vanno più in profondità e più lontano di altri, ma tutti avanzano nella stessa direzione, ed è il reale che mette insieme la diversità delle intelligenze, non un sistema comune di conoscenze tecnicamente elaborate. In altri termini è la finalità delle intelligenze, protese verso la medesima realtà da conoscersi, ad essere fonte d'armonica intesa, e non l'identità dei meccanismi intellettuali o dei metodi, né l'uso straripante del «dialogo». Tutte le strade portano a Roma: non vi è un'unica strada, non vi sono pensieri o coscienze collettive, ma vi sono intelligenze — al plurale! — che, seguendo vie proprie, sono condotte dall'intelligenza più vigorosa verso il loro fine comune.
Ecco perché — bisogna ripeterlo senza sosta — non vi è tradizione spirituale, intellettuale e morale dell'umanità senza i santi, i genî, gli eroi, senza il loro esempio, senza la loro forza d'attrazione, essi che suscitano di generazione in generazione uno slancio simile al loro verso il Vero, il Bello, il Bene, verso la realtà da conoscere, da far risplendere in un'opera, da amare. La loro intelligenza ha obbedito, con perfetta rettitudine, alla legge che la regge e la costringe a sottomettersi all'ordine — nel duplice senso del termine — della realtà e del principio di realtà; ha rispettato, senza mai tradirlo, il patto originale che l'unisce all'universo ed alla sua Causa; così essa traccia dietro di sé una lunga scia di luce che orienta gli sforzi brancolanti di tutti coloro che, a loro volta, al loro livello, secondo le capacità che hanno ricevuto, ottemperano alla legge ordinando all'intelligenza di conformarsi al reale.
Se la conoscenza è il risultato della fecondazione dell'intelligenza da parte del reale, ciò è perché l'essere stesso dell'uomo, di cui l'intelligenza è la caratteristica specifica, è in relazione costitutiva e, per così dire, in connivenza previa con l'essere di ogni realtà; l'intelligenza non potrebbe mai aprirsi alla presenza degli esseri e delle cose se l'essere umano, che ne è la sede, fosse separato dalla totalità dell'essere; il nostro essere è fondamentalmente in relazione con l'essere universale, ed in certo qual modo la conoscenza non è altro che la scoperta di tale rapporto. L'intelligenza può divenire ogni cosa, secondo l'affermazione prodigiosa di Aristotele, perché l'essere dell'uomo, dal momento in cui viene all'esistenza, è articolato all'essere totale, ivi compreso il suo Principio. In tutte le sue operazioni l'intelligenza raggiunge l'essere, suo oggetto adeguato, perché l'intero universo e la sua fonte trascendente sono compresenti all'essere umano. All'essere dell'uomo come ad ogni altro essere, salvo a Colui che basta a se stesso, è essenziale essere con tutti gli altri. L'intelligenza si esercita su ciò che è più profondo ovvero, più precisamente, sull'asse della compresenza della realtà universale; se così non fosse, essa afferrerebbe l'essere solo dall'esterno e giammai in se stesso, afferrerebbe solo l'apparenza o il fenomeno e non l'essenza, solo ciò che appare e non ciò che è.
Tale rapporto, fondamentale ed anteriore alla conoscenza, è in qualche modo sigillato in noi:  è, ma non è conosciuto come causa, e la funzione capitale dell'intelligenza è quella di svelarlo, di conformarvisi, di conoscerlo e per ciò stesso di situare adeguatamente l'uomo nell'universo. Ecco perché il concetto di cosmo, ovvero l'atto col quale l'intelligenza si sottomette all'ordine universale e lo comprende, è d'importanza inestimabile; senza di esso la vita non è altro che «una storia raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore». Un mondo in cui non regni un concetto del mondo adeguato alla sua realtà è preda di tutti i disordini.
Ma è proprio questa la nostra situazione attuale: noi andiamo errando in un «mondo a pezzi» o, più esattamente, siamo espulsi dal mondo reale, remando a caso in un mondo di apparenze che si fa e si disfa senza posa, perché l'uomo moderno ha rifiutato il posto attribuitogli nell'insieme della natura, e perché la sua intelligenza non ha accettato di funzionare secondo la propria natura di intelligenza e, invece di sottomettersi alle cose, ha preteso di sottomettere a sé l'universo. L'uomo allora non è più un essere-nel-mondo, ma un essere-fuori dal-mondo, che ha perduto la propria sostanza e la propria caratteristica di animale intelligente e che cerca disperatamente ciò che egli sia, perchè ha scelto di non essere più un essere-col-mondo-e-col-suo-Principio. Ne consegue come conseguenza ineluttabile che l'uomo moderno è tutto ciò che si vuole ma non intelligente, è abbandonato senza remissione ad una intelligenza formale che lavora sempre meno sul reale e sempre più su segni; la sua intelligenza si bizantinizza all'estremo e, per dissimulare il proprio disastro, si dissimula sotto i pretesi imperativi di una «ragione» o di una «coscienza universale», punto d'incontro di tutte le soggettività impazzite. L'uomo non è più da nessuna parte; è in piena utopia; ecco perchè egli non è più se stesso; non è più uomo; vuole essere «uomo nuovo» e vuole un «mondo nuovo».
Abbiamo detto che la rottura della relazione dell'intelligenza col reale e dell'uomo coll'universo s'è consumata nel XVIII secolo: tutti gli storici sono d'accordo su ciò. Ma perché essa si è verificata proprio in quest'epoca? Perché il concetto tradizionale e realista del mondo che, da Atene a Roma e ancora da Gerusalemme a Roma, era stato quello dell'Europa pensante ed agente, crolla nel XVIII secolo? Il motivo è semplice: una concezione del mondo non va planando come disincarnata nell'etere inaccessibile, ma prende corpo nella vita degli uomini e, in quanto tale concezione è comune a tutti loro, prende corpo nelle istituzioni delle comunità umane. Per poco che le élites, portatrici di una tale concezione del mondo e la cui influenza sulla vita quotidiana degli altri uomini è immensa, se ne discostino, rinuncino a viverla, la rimpiazzino con un'altra, meno austera, più brillante ed adulatrice, ed ecco che la concezione del mondo accreditata comincia a vacillare; così basta qualche crepa nei punti critici perché l'edificio crolli, corpo ed anima. Quando l'alto clero si diverte a rinnegare Dio e ad esaltare l'uomo nelle Logge [massoniche, N.d.T.], quando l'aristocrazia si mette alla scuola dei retori e degl'imbrattacarte, per quanto talento costoro possano avere, si può affermare brutalmente che tutto va alla malora. Piccole cause, grandi effetti, dice il proverbio; e, come afferma Auguste Comte con ammirevole arguzia, «in questo caso vale la regola generale che non vi è mai proporzione tra l'effetto e la causa: l'effetto è sempre immenso in proporzione alla causa.» Una donna entra nella vita di un imprenditore, ed ecco una fabbrica che va a rotoli; è l'eterno naso di Cleopatra.
È superfluo ripercorrere qui le analisi di Tocqueville, di Taine, di Augustin Cochin ricordando il fascino esercitato dai letterati sull'aristocrazia e sul clero del XVIII secolo, la loro critica della civiltà tradizionale, la loro deificazione della ragione, la volontà di distruggere  una società che non concede loro il posto che ritengono sia loro dovuto, i loro pruriti d'eguaglianza, la loro denuncia dei privilegi, e soprattutto la prodigiosa abilità nel trasformare le passioni da loro stessi provate in principi immutabili del diritto, e nel risolvere tutti i problemi umani con i discorsi, gli scritti, la discussione, la conversazione mondana, i colloqui da salotto, da parrocchia, da circolo, da cenacolo, i dibattiti assembleari, le chiacchiere in società, «il dialogo» universale, come diremmo oggi.
Ma questa ascesa inopinata e spettacolare degli specialisti della parola, della penna, della manipolazione delle idee, delle rappresentazioni mentali e delle parole che le esprimono non è altro che l'aspetto sociologico di un cambiamento ben più profondo: assistiamo nel XVIII secolo — e l'avventura ancora non è conclusa — ad una mutazione dello spirito umano che possiamo descrivere con precisione, ora che essa è giunta al proprio culmine, se non addirittura al proprio termine.
In effetti fino al XVIII secolo tutti gli avvenimenti che hanno segnato la storia umana: guerre, invenzioni tecniche, scoperte geografiche, migrazioni, fondazioni di città, di regni, d'imperi, comparsa di santi, di genî, di eroi, trasformazione di idee religiose ecc., hanno toccato l'essere umano nella sua vita stessa; nessuno di questi avvenimenti in origine è stato puramente intellettuale, neppure l'invenzione della logica da parte di Aristotele (e di cui il minimo che si possa dire è che ha conferito allo spirito umano il suo statuto definitivo), dato che l'arte di ragionare non è opera della ragione, ma dell'uomo stesso in carne ed ossa che adopera la propria ragione, e dato che, secondo il profondo detto  dello Stagirita, non è il pensiero che pensa, ma l'uomo per mezzo del suo pensiero. Nessuno di tali avvenimenti ha mai colpito l'intelligenza in sè e, quali che fossero i risultati che essi hanno provocato, positivi o negativi, dopo di loro l'intelligenza dell'uomo non ha cessato d'essere la facoltà che conosce il reale in quanto vi si  conforma; in nessun caso il primato dell'attività propria dell'intelligenza, cioè la contemplazione del vero, è mai stata posta in questione. La principale funzione dello spirito umano è sempre stata la funzione del conoscere, la teoria; ed il tipo di vita più elevato, la vita contemplativa, il cui segreto ci è stato trasmesso da Virgilio:

Felix qui potuit rerum cognoscere causas,
 
è sempre stato considerato il culmine della saggezza e della felicità. Tale priorità assoluta dell'intelligenza sottomessa all'oggetto non è mai stata contestata, checché se ne dica, dal Cristianesimo; l'amore non ha preso il posto dell'intelligenza, perché se pure è vero che Dio è Amore, è stato anche necessario che Egli si facesse conoscere come tale dagli uomini ed insegnasse loro la Buona Novella.
Ecco allora che riconoscere la propria dipendenza dalla realtà e dal suo principio trascendente, confessare il legame nuziale che unisce l'essere dell'uomo all'essere universale ed alla sua causa, almeno implicitamente, è la condizione essenziale necessaria all'intelligenza perché possa essere esercitata, condizione che l'intelligenza ha sempre rispettato quali che fossero gli avvenimenti. Se l'intelligenza, nel suo atto primo, non si volge alla realtà extramentale, se essa si rivolge verso se stessa proiettando su di sé uno sguardo notturno di compiacenza, in altre parole e secondo l'antica formula: se l'intelligenza rifiuta d'esser misurata dalle cose per proclamarsi la loro misura, allora essa ripudia la sua funzione propria rigettando la legge. Prima del XVIII secolo la conoscenza era vincolata al suo potere di comunione — e dunque di assenso, d'accettazione e di docilità — coll'universo e colla sua causa; dopo il XVIII secolo questo patto originale è distrutto: l'intelligenza si considera come una sovrana che governa, comanda, domina e tirannizza la realtà, che proietta dall'alto della sua trascendenza i suoi soli lumi sul mondo e l'ordina secondo i propri imperativi; la ragione si considera come forza creatrice che si dispiega, si sviluppa, progredisce attraverso tutta l'umanità e tutto l'universo per farne un'umanità vera, un universo vero. L'intelligenza non riceve più dal reale la sua legge: essa è la legislatrice suprema che impone le proprie norme alla realtà.
I filosofi del XVIII secolo si sono resi conto assai bene di un tale rovesciamento di direzione dell'attività intellettuale che andavano operando, e l'Enciclopedia fu creata, lo hanno ammesso loro stessi, «per cambiare la maniera comune di pensare». In effetti si tratta di un'inversione, se non addirittura di una sovversione completa dell'atto del conoscere; l'intelligenza non è più fatta per contemplare l'ordine dell'universo e per comprenderlo, ma per costituirlo a partire da regole che essa ha scoperto conoscendosi dapprima essa stessa e che poi impone alla realtà. Ormai comprendere è dominare; Cartesio ha formulato, una volta per tutte a modo suo, la nuova carta costituzionale della ragione: la conoscenza che la ragione ha di se stessa e del suo metodo di conoscere rende l'uomo «padrone e possessore della natura».
Quest'impero della ragione e dei suoi lumi si esercita in due modi entrambi ugualmente autoritari, denominati anodinamente analisi e sintesi; il primo di essi scompone il reale in elementi semplici, il secondo lo ricostruisce a partire da questi stessi elementi e secondo l'ordine stesso della ragione. Durante queste due fasi la ragione manifesta la propria onnipotenza col suo lavoro di dissoluzione e di ricostruzione effettuato secondo le norme da sé dettate; essa conosce allora il reale non perché ne abbia ricevuto l'impronta, ma al contrario perché gli imprime il suo marchio di fabbrica. Per conoscere veramente è dunque necessario, secondo lo spirito del XVIII secolo, rifare l'oggetto, produrlo nel comporlo, e per così dire costruirlo; allora, ed allora solamente, la conoscenza è priva di mistero: una realtà che non può essere ricreata interamente dallo spirito resta oscura allo spirito, mentre un essere costruito dallo spirito gli è interamente trasparente, luminoso da parte a parte. Ciò che si fa, si sa; sapere è fare; ogni attività conoscitiva è un'attività costruttiva; l'attività poetica dello spirito sostituisce completamente l'attività speculativa, ed oggi l'ha radicalmente eliminata.
 Questa nuova attitudine del pensiero umano è stata sistematizzata dal kantismo, che si può ricondurre a tre capisaldi: 1. l'intelligenza è incapace di afferrare l'intelligibile, presente nel sensibile, e l'ordine «noumenale» gli sfugge interamente; 2. la funzione dell'intelligenza è quella di organizzare in un tutto coerente la molteplicità delle sensazioni e delle immagini che le appaiono e, invece d'essere fecondata dal mondo reale, è lei che feconda il mondo dei fenomeni e gli conferisce un senso; 3. l'uomo dunque non è più un essere in relazione fondamentale con la pienezza dell'essere, ma è una Ragione identicamente presente in tutti gli esseri umani che fabbrica da se stessa un sistema di relazioni di cui proietta la trama nella varietà del mondo sensibile da essa interconnessa.
Adriano Tilgher, storico del lavoro nella civiltà occidentale, ha egregiamente formulato quest'inversione dell'attività intellettuale dell'uomo moderno. «Kant fu il primo a concepire la conoscenza... come una forza sintetica ed unificante che, a partire dal caos dei dati sensibili, estrae, procedendo secondo le leggi immutabili dello spirito, il cosmo, il mondo ordinato della natura. Lo spirito appare allora come un'attività che crea dal suo proprio fondo l'ordine e l'armonia. L'idea di azione produttiva è impiantata nel cuore della speculazione filosofica e non l'abbandona più. Tutta la storia della filosofia moderna nelle sue correnti significative, dal criticismo di Kant alle ultime forme del pragmatismo, è storia dell'approfondimento di tale idea dello spirito in quanto attività sintetica, facoltà produttrice, creazione demiurgica... Si conosce realmente solo ciò che si fa. Ma cosa fa l'uomo veramente? Non certo i dati ultimi delle sensazioni; esse gli sono imposte dall'esterno; esse sono in lui, ma non sono di lui. Però l'uomo può, grazie al proprio lavoro, combinare in modi diversi tali dati ultimi in maniera da renderli obbedienti ai suoi bisogni, alla sua volontà, al suo capriccio; egli sostituisce così a poco a poco alla natura reale, alla natura naturata, una natura da laboratorio e da officina, che egli conosce perché l'ha fatta, che gli è chiara perché è opera sua. Il problema della conoscenza riceve una soluzione pratica. La tecnica risolve nella pratica il problema della conoscenza.»
Non v'è alcun dubbio che si tratti di una vera e propria mutazione dell'intelligenza umana e proprio per questo dell'uomo. Kant d'altronde ne era perfettamente conscio; era convinto di aver attuato in filosofia una rivoluzione copernicana: invece dello spirito che gravita attorno alle cose, sono ormai le cose che gravitano attorno allo spirito, come i pianeti attorno al sole. Marx non dovrà far altro che precisare le conseguenze di un tale rovesciamento: «La critica della ragione disinganna l'uomo, affinché pensi, agisca, plasmi la sua realtà come un uomo disingannato, giunto alla Ragione, affinché egli si muova attorno a se stesso, attorno al suo vero sole. La religione non è che il sole illusorio che si muove attorno all'uomo, finché questi non si muova attorno a se stesso.» In questo modo l'uomo non deve più conoscere la Creazione quale il Creatore l'ha stabilita, egli rifiuta ormai di alienarsi nell'illusione d'un mondo indipendente da lui e sospeso ad un Principio trascendente, sa ormai, continua Marx, che «la coscienza umana è la più alta divinità» e che essa ha il compito di creare un «uomo nuovo» ed un «mondo nuovo» che saranno l'uomo ed il mondo «reali».
Già Feuerbach prima di Marx aveva definito questa mutazione e questa sovversione dell'intelligenza che echeggiano nell'animo degli uomini d'oggi: «L'oggetto al quale un soggetto si rapporta essenzialmente e necessariamente non è altro che l'essere proprio del soggetto», in altre parole l'oggetto dell'intelligenza umana è l'intelligenza in sé che si comprende nel suo slancio creatore in cui essa si riunisce come principio e di se stessa e del mondo. L'intelligenza è Narciso, non un Narciso irrigidito nella contemplazione di se stesso, ma un Narciso che, di fronte al suo proprio specchio, si crea da sé creando il mondo e progredisce ininterrottamente verso la propria apoteosi. «L'essere assoluto, il Dio dell'uomo, prosegue Feuerbach, è l'essere proprio dell'uomo.»
Tale è l'infallibile conseguenza della mutazione dell'intelligenza: essa è costretta necessariamente ad una tale deificazione. E di fatto, se lo spirito è una facoltà produttiva, se la conoscenza è un lavoro produttivo, allora conoscere non è più, secondo il famoso detto, «divenire l'altro in quanto altro», conoscere è invece agire sugli esseri e le cose al fine di renderli intelligibili sostituendo ad essi l'idea che se ne ha e trasformandoli in conformità a questa rappresentazione. Il mondo è mondo solo in quanto è costruito dall'intelligenza dell'uomo; ormai si conosce solo ciò che si fa. Certo l'uomo non crea le proprie sensazioni, le riceve ancora dall'esterno, ma tale mondo esterno di cui sembra tributario non è propriamente parlando conosciuto, è invece non altro che una specie di materia plastica a cui l'intelligenza umana imprime la sua forma. Grazie a questo lavoro dell'intelligenza sui dati sensibili, l'uomo può dunque trasformare il mondo esteriore in modo da renderlo obbediente ai suoi desideri, a ciò che egli ritiene utile o necessario, ad ogni esigenza della sua vita individuale e sociale. Il mondo esteriore non resiste più all'uomo: con la fusione dell'atomo, la sua ultima ridotta è stata espugnata; il mondo è ora trasformabile a volontà; non vi è più nulla di misterioso, di sacro. Caeli et terra NON enarrant gloriam Dei.  Non vi sono più fatti estranei all'uomo ed ai quali l'uomo deve sottomettersi; non vi sono più avvenimenti estranei alla volontà umana e che l'uomo deve subire; tutto è fatto dall'uomo e per l'uomo; non resta che la storia dell'uomo attuata dall'uomo. Il mondo diviene ciò che l'uomo vuol farlo diventare; l'uomo regna su di lui come un dio o come un demiurgo, e più egli accentua la propria influenza sul mondo, più si erige ad assoluto, più si sostituisce al Creatore, più si pone come essere che non ha alcun bisogno di Dio, che basta a se stesso e che si fa da se stesso in completa indipendenza e libertà.
Una tale immensa aspirazione all'aseità ed alla deità, una tale prodigiosa autosufficienza ed idolatria di se stesso, inaugurata dal Cogito cartesiano, intronizzata  dalla Ragione kantiana, portata al sommo dallo Spirito hegeliano, magnificata nell'uomo da Feuerbach ed incarnata da Marx nel comunismo in cui l'uomo fa completamente ritorno a sè e si riconosce «la più somma divinità» che «non tollera rivali», non è solo appannaggio dei filosofi; essa si è diffusa con rapidità folgorante nell'umanità tutta intera con la diffusione dei «Lumi», in altre parole con l'espansione universale dell'insegnamento e con la proliferazione della classe degli intellettuali. E si capisce.
Nulla è più difficile che penetrare la realtà degli esseri e delle cose in tutta la loro profondità: di fronte al più piccolo granello di sabbia, l'intelligenza è rinviata alla totalità dell'universo ed a Dio; il reale resiste allo spirito, e comprendere la natura intima è opera di lungo respiro in cui l'esperienza ha un ruolo immenso che occorre continuamente ravvivare. Ma non è lo stesso per ciò che riguarda le idee e le rappresentazioni mentali; esse sono figlie del pensiero, ne sono le docili serve, si sottomettono ai suoi propositi, ai suoi desideri, ai suoi progetti senza ribellarsi; l'intellettuale regna come dominatore sul proprio mondo interiore, e nulla è più inebriante di questo gioco di idee ove il giocatore trionfa immancabilmente, purchè l'idea allenti o rompa il suo rapporto col reale e che dentro il cervello o nel linguaggio sia abolita la dura legge del confronto con l'esperienza, che sottomette le nostre rappresentazioni ad un implacabile controllo! Quest'imbroglio si verifica con frequenza inaudita tra gli intellettuali; il contatto severo e rude con gli esseri e le cose che la verità del senso esige, la relazione vissuta con la realtà totale e col suo Principio che l'esercizio dello spirito presuppone, si indeboliscono quasi sempre nell'intellettuale nella misura in cui egli, chiuso nel proprio «pensatoio», si applica a raffinare le sue idee e la loro espressione. Quasi sempre quei segni del reale che sono i concetti e le parole che li traducono sostituiscono per lui la realtà e rimpiazzano per lui il mondo quale si rivela all'osservazione ed all'intelligenza oggettiva. L'abitudine di lunga data che egli ha di manipolare con la massima disinvoltura tali segni ideali o verbali gli comunica l'impressione e presto la convinzione che per mezzo di determinate formule egli possieda la realtà stessa. Di più ancora, egli si persuade che la soluzione dei problemi a cui perviene nello strutturare le idee tra loro sia quella stessa reclamata dalla realtà, ma di cui qualche genio maligno, diffondendo secolari aberrazioni, soffoca la voce: ed allora la bava e l'inchiostro eliminano subito gli ostacoli. Come allora stupirsi che la nuova concezione dell'uomo e del mondo che abbiamo chiamato idealismo abbia riportato un sì vile, un sì pronto successo particolarmente tra gli insegnanti ove mantiene, sotto nomi differenti che vanno dall'esistenzialismo al marxismo allo strutturalismo, posizioni solide e, date le regole di reclutamento del corpo dei professori, inespugnabili. L'idealismo attira tutti gli spiriti recalcitranti di fronte allo sforzo che occorre impiegare per sposare il reale e che pretendono, malgrado la loro abdicazione o proprio a causa della loro abdicazione, di dare una soluzione a tutti i problemi umani, foss'anche a prezzo della soppressione di tutti i problemi e della loro caratteristica umana. L'idealismo va a pennello a tutti coloro che sacrificano le lezioni dell'esperienza e della tradizione alle loro proprie lezioni; esso segue la china dell'agevolezza: occorre forse organizzare il pulviscolo delle sensazioni, e la moltitudine delle immagini che ci assalgono, secondo schemi superficiali suggeriti dalla loro apparenza e che l'intelligenza elabora dentro di sé in virtù di un preteso potere creatore o di un sedicente diritto di conquista? Oppure sperimentare la presenza delle più umili realtà della vita quotidiana in una esperienza profonda, in cui collaborano la sensibilità, l'immaginazione, lo spirito, e sollevarla al livello del pensiero che la concepisce? Dove è mai la vera creatività: negli artifizi del discorso e dello scritto oppure nell'atto d'intelligenza laborioso ove il seme intelligibile che è contenuto nel sensibile dà il suo fiore ed il suo frutto? Cosa è più scomodo: scoprire l'ordine naturale dell'universo oppure serrare gli esseri e le cose in una cornice di formule, fossero pure matematiche?
L'idealismo favoreggia, con tutta la sua impotenza, la sostituzione dell'intelligenza utopica all'intelligenza reale; una concezione del mondo e dell'uomo che volge le spalle alle severe esigenze d'umiltà imposte all'intelligenza in materia di verità, e che disconosce che lo spirito umano si situa al livello inferiore nella gerarchia degli spiriti, ma che permette a coloro che la professano di ostentare il loro virtuosismo, ha buone possibilità di ottenere l'attenzione ed i favori del pubblico. Quando si pensa alle generazioni che sono state formate — o meglio deformate — da quasi due secoli a questa parte, a tutti i livelli d'insegnamento, in un'atmosfera soprasatura di nubi e di fumi idealisti, ci si meraviglia di constatare che esista ancora qualche residuo di buon senso nell'umanità.
Il proprio di una intelligenza che si ripiega su se stessa ed afferma il proprio potere demiurgico è di distruggere quel mondo che il senso comune considera reale sostituendolo con un mondo artificiale, costruito nel cervello dei filosofi, dei sapienti, dei giuristi, degli uomini di Stato, nei Parlamenti, nelle amministrazioni, nei thinking departments, nei laboratori ecc., se non addirittura nelle celle dei conventi o nei palazzi episcopali. Nessuno può vivere senza mondo intorno a sè; se il mondo che l'uomo non ha fatto scompare, l'uomo sarà costretto ad inventarne e fabbricarne un altro. Questo tipo d'intelligenza può dunque figliare solamente una civiltà di tipo tecnico come la nostra, in cui la saggezza è stata eliminata, tanto in senso metafisico quanto in senso morale, a beneficio di metodi operativi che rendono tutte le attività umane razionalmente capaci di costruire un'umanità ed un mondo nuovo in cui l'uomo sarà perfettamente adattato. Le tecniche dell'intelligenza utopica consentono di adattare sempre più le attività psicologiche, economiche e sociali, se non addirittura la coscienza personale, al mondo esterno tecnicizzato, più o meno come una macchina si adatta ad un'altra macchina. In questa concezione del mondo e dell'uomo i saggi, che conoscono la natura ed il fine del mondo e dell'uomo e li rapportano a Dio, e che realizzano nella loro vita in modo preminente il tipo morale ideale di colui che possiede su di ciò un giudizio sicuro, i saggi dunque sono sostituiti dagli esperti, dai tecnici dei meccanismi individuali o sociali, da sapienti competenti e che possono dare una soluzione pratica al groviglio dei problemi complessi che vanno affrontando: dagli ingegneri dell'anima, come diceva Stalin, che procedono davanti al mondo ed all'uomo esattamente come l'ingegnere tout court si comporta di fronte alla materia, alla quale il suo genio industrioso comunica una forma artificiale; tutto è determinato in funzione delle decisioni ispirate da «gli specialisti».
Occorre dirlo e ripeterlo, tanto il fatto, pure d'una evidenza solare, è misconosciuto: dei tre generi di attività dell'intelligenza umana, cioè contemplare, agire e fare (theorein, prattein e poiein), solo il terzo sussiste. La vita contemplativa ha ceduto il passo alla vita attiva. Tonto chi distingue, con tutta la tradizione filosofica dell'Occidente e con il linguaggio stesso, tra il dominio dell'agire, che è quello della vita morale, e il dominio del fare, ovvero dell'attività fabbricatrice dello spirito la cui ampiezza si estende dai mestieri più disparati alle belle arti e ad ogni modificazione del mondo esterno da parte del genio umano: bisogna constatare, se non si è accecati, che le sfere fin qui riservate all'attività teoretica ed all'attività pratica sono ora invase dalla sola attività poetica dello spirito: nulla sfugge alla trasformazione universale cominciata a partire dal XVIII secolo, nemmeno l'uomo. (Traduzione: C.S.A.B.)

[*]«Sia che si tratti di filosofi pagani, come Platone e Aristotele, o i pensatori cristiani, come per esempio sant'Agostino e san Tommaso d'Aquino, tra loro c'è accordo nel concepire la felicità dell'uomo nella realizzazione piena delle sue facoltà specificamente umane: l'intelligenza e la volontà, concepite come incarnate in un corpo che fa parte anch'esso della essenza dell'uomo. Siccome l'intelligenza è superiore alla volontà, che non si può esercitare senza di essa, e siccome entrambe, a loro volta, sono superiori alla materia, essi classificano le attività umane in tre gruppi gerarchizzati: le attività contemplative, attraverso le quali l'intelligenza dell'uomo si nutre della verità e tenta di conoscere la realtà fino al suo Principio ultimo; le attività cosiddette pratiche, attraverso le quali la volontà, illuminata dalla ragione, si orienta verso il Bene che la soddisfa; le attività dette "poetiche" (dal verbo greco poiein, che significa fare), attraverso le quali l'uomo trasforma il mondo esteriore della materia in modo da trarne le cose necessarie al suo sostentamento. La filosofia (o la teologia), la morale e la tecnica sono le attività più specifiche dell'essere umano, e la terza è subordinata alle prime due, e la seconda a quella che la precede. Queste attività vengono esercitate nella misura in cui i rispettivi oggetti si sottraggono loro, e gli uomini pervengono, per quanto possibile, alla felicità, nella misura in cui il loro esercizio si equilibra gerarchicamente. Rispetto all'uomo, le prime due attività gli sono immanenti: esse restano in lui per perfezionarlo, mentre la terza è una attività transitiva e passa in una materia, che è a essa esterna, per portarla a perfezione. Rispetto al loro oggetto, le prime due sono teocentriche, mentre la terza è antropocentrica.»
Marcel de Corte, Per una filosofia dell'economia.


[CONTINUA]