venerdì 1 novembre 2013

Giacinto De Sivo: La Storia occulta e la fine dei Borbone




Giacinto De Sivo.

Giacinto De Sivo nacque a Maddaloni, in Terra di Lavoro, il 29 novembre 1814. Di nobile famiglia, dopo una giovinezza trascorsa nei possedimenti aviti, il giovane Giacinto compì i suoi studi a Napoli, dove, alla scuola di Basilio Puoti, iniziò la sua attività di scrittore. Poeta e tragediografo, divenne storiografo dallo stile ricercato. Fu anche uomo d'azione: per due volte assunse il comando della Guardia Nazionale del suo paese.
Legittimista e difensore " del Trono e dell'Altare ", dopo la caduta dei Barbone fu arrestato e conobbe la prigione. Svolse attività di storiografo e pubblicista anche durante il suo esilio romano, e a Roma lo colse la morte, il 19 novembre 1867.
I brani che seguono, raccolti sotto il titolo La Storia occulta e la fine dei Borbone - sono tratti dalla Storia del Regno delle Due Sicilie dal 1847 al 1861
.
Biografie e opere di Giacinto de Sivo nel Web:
1.
http://www.vocedimegaride.it/e-book/napolitanicospettoNazionicivili.htm
2.
http://www.kattoliko.it/leggendanera/personaggi/de_sivo.htm
3.
http://www.editorialeilgiglio.it/articles.php?lng=xx&pg=51
4.
http://members.tripod.com/~Corneliu/c227_a07.htm Amor del popolo al trono.

La consuetudine al principato, otto secoli di colleganza fra re e popolo, la gratitudine e la simpatia, fan qui (nel Regno delle Due Sicilie. ndr) della monarchia un sentimento, che s'afforza negli affetti, nelle tradizioni, negl'interessi e nel bisogno del paese. Essa è lo stato nostro conveniente. Le menti napolitane sì n'eran convinte, che nel comunal pensiero re significa giustizia, repubblica subbuglio; perocché sebbene altri di fuori speculasse con sette e cabale a porre in questo paese qualche radice, avvizzì, per mal concio terreno. A' tempi ultimi la nobiltà, paga di entrare a corte, e d'aver giuste ricchezze e moderate leggi, fu quasi tutta pel trono; e la bassa gente era sì al trono devota che poco più l'era alla religione. Fidava nel re come pregava Dio; ne sapea più. Nella mezzana classe serpeggiava meglio il veleno di subite salite, e pigliar nome e uffizi onde smesso il freno religioso, vagheggiava forme di governo dove di leggieri potesse entrare. Costoro in ogni paese aspirano a novità, e insorgono, potendo. Ma qui potean poco, non essendo gente d'armatura.
Guatando il passato luccica meglio questo vero: che in tutte commozioni popolari trovi la devozione al re. Sicilia nel dugento ammazza a suon di vespro i Francesi dominatori violenti, e grida re lo Aragonese, erede della dinastia legittima. Napoli al cinquecento si leva contro il viceré Toledo, che volea l'inquisizione, ma co' viva a Carlo V. Nel seicento insorge con Masaniello contro i balzelli e la baronia, e pur grida i viva al re. A tempo de' genitori nostri, al sentir Francesi, i popolani nudi e senz'arme, combattonli co' sassi tre dì; e poco stante al veder repubblica vengon da tutte provincie in massa con un prete in testa a schiacciarla con quella rabbia che ne fe' sì tristo e famoso l'anno 1799. Quando poi Napoleone frustava mezza Europa, solo Calabria dice no sdegnosa, e sforzata ma non doma da il sangue pel suo re lontano. Nel 1820 il popolo lasciò i settarii soli ad Antrodoco. Nel 1848 la rivoluzione mandata e attizzata dallo straniero fu spenta con arme patrie. E nel 1860 la nazione, conquisa da oro e ferro estero, a lungo riluttò; e inerme e in ceppi ancora rilutta. Ne' Napolitani la monarchia patria è religione.

Le sette.

Queste verità son dure a' novatori del paese; ma sorretti da quei di fuori non hanno scrupolo di porre in fuoco la patria, e darla a mangiare a' forestieri. Oggidì le rivoluzioni suscitate in tutti regni hanno una, anzi unica cagione, la setta. Ancor v'ha chi crede i rivolgimenti seguiti da ottant'anni in Europa fosser per circostanze di ciascuno stato, non per trame generali premeditate da un concetto. Danvi cagione il mal governo, la oppressione, i balzelli, la poca libertà, e altro; credono il governar bene, le buone leggi, e la piena libertà abolirebbero le rivolture. Dicono chimere le società segrete; Massoni, Filosofi, Illuminati, Giacobini, Carbonari, Mazziniani, Unitarii nomi da spauracchio; le sette, anche che fossero, non aver forza da sollevar nazioni; e addebitano piuttosto al caso che alla settaria possa le ruine rivoluzionarie. Altri sono che non negano un po' di premeditazione ma sputan sentenze: le intenzioni esser buone, le idee volere trionfo di virtù, e la società rigenerata; i mali essere insiti alle mutazioni, dopo la tempesta venire il cielo netto e bello. Però guerra civile, saccheggi, arsioni di città, uccisioni d'innocenti non li spaventano, che tai disordini dicono menare ad ordine duraturo.
I settarii poi, se in disgrazia, negan la setta; se in fortuna ne menan vanto. Ricaduti rineganla sempre. Ma v'han di essa documenti innumerevoli: confessioni, rivelazioni, catechismi stampati, riconoscimenti in legali giudizi!, libelli proprii, e celebrazioni. Si riuniscono in segreto ove stan sotto, in palese ove stan sopra; si riconoscono in capo al mondo, si sorreggono, s'aiutano, si spingono alla preda concordi; ma abbrancatala se la stracciano, si insidiano, si sbugiardano, si accusano e si pugnalano a vicenda. Vediam tai sette cambiar nome e forme; ferite risanare, percosse reagire, schiacciate rinascere, e sempre con uno intento: colpire chiesa e trono, pigliare la potestà e la roba, e surrogare alla legge del diritto quella della passione. Dicono voler libertà ed uguglianza, ma le voglion per sé; voglion sugli altri l'arbitrio e la dittatura. Fatti a un modo in tutte parti, con un programma, divampan contemporanei a spartirsi la terra.
Il volgo s'annoia a pensare, e volentieri s'acconcia alle idee altrui; così pochi scaltri fanno 1'opinione che si dice pubblica, e partorisce ruine. Molti negatori delle sette son come settarii, che ne riescono stupidi strumenti; e imboccati ne ripetono i motti in piazza; plebe essi, persuadon la plebe, che n'è tanta al mondo; e con vaghe parole seminan ree dottrine. Voglion parer saputi, e son zimbello di furbi. Servonli a bocca come eco, a dar novelle false, a infamare la potestà, e a denunziare i fatti, a farla parere esosa e insopportabile. Dichiarato malo il governo, suscitato il desio del nuovo, e l'ansia del ribellare, la setta domanda prima giustizia, poi riforme, franchigie, costituzioni, costituenti, armi, castelli, e tutto; ma fa fare a quei suoi gridatori; e se plaudisce a parziali mutazioni il fa salendo un altro piuolo di quella scala, che mette al pieno mutamento della società. Questo vuole. Essa oggi è forte, vincitrice, ha in Italia il dominio, ma non riposa; si abbevera di vendette, ma non si sazia; va dritto sempre innanzi.
Informate e mosse le ultime rivolture dalle segrete società, non potrei di quelle far limpida storia, se di queste non notassi i nomi, gli autori, i dogmi, le leggi, l'opere, gl'incrementi ed i trionfi. Però brevemente dirò di ciascuna, e '1 loro confederarsi, e succedersi, e il divampar di tutte insieme, lo sforzato rintenebrarsi, e l'improvviso risfavillare. Gli uomini operano per le idee che hanno, un'idea moltiplicata si chiama opinione, e si fa potentissima; ond'è degli onesti ed avveduti raddrizzarla sul giusto. Che se l'opinione sinistra prevalga, e cresca, e corra come sinora, allora le trame e le menzogne settarie indorate di parole brille appellanti alle passioni comprimeranno la ragione, il dovere, ed il bello; cadrà allora ogni religione, quale che sia, e ogni presente ordine di stato; sacerdozio, scettro, milizia, magistratura, ricchezza, nobiltà, tutto. Sparirà anche la proprietà: non campi chiusi, non termini, non palagi, non capanne; tutto è di tutti e di niuno, non pur mogli e figli saran nostri, si perderà la nozione di Dio. Queste verità sovente qualche animoso predisse, non creduto abbastanza, malgrado le insidie svelate dagli esecrandi fatti visti con gli occhi, e più volte rinnovati. Or se dopo l'ultime sperienze le nazioni non s'adergono a difesa, i nati o i nipoti nostri piangeranno, e indarno.

Acciecamento de' re.

In pochi lustri la congiura fe' larga rete, e seguaci innumerevoli, all'esca d'onori accademici, di celebrazioni letterarie, di cariche lucrose, e pur di carezze principesche. Con mansuetudini di sorrisi, e baciamani, ed astuzie eran riusciti a entrare in ogni parte. Nelle reggie, nelle case grandi, negli eserciti, ne' governi sedean settarii. Precettori, ai, cattedratici, balii, duci imperevano in magistratura, in amministrazione nei consigli dei re. I re anzi andavan primi. Tutto era novazione, tutto parve intento a far della terra Eliso. I Luigi XV e XVI di Francia, Giuseppe imperatore, Leopoldo di Toscana, e Ferdinando IV di Napoli ciecamente correano innanzi, e si fecero iniziatori di quei mutamenti civili e religiosi, cotanto allora celebrati, che detter poi sui cardini della società, che tanti secoli avea riposato in pace. L'ira cominciò contro i religiosi, e più contro loro robe; che, temuti pel pio insegnamento pubblico, e per possa di scienza e ricchezza, s'avevano a scacciare e a spogliare. Prima i Gesuiti, siccome soldati di Roma; poi gli altri. Delitto il sapere, la possidenza, la virtù; massimo delitto il vestir clericale.
Nel nostro regno l'opere del Giannone, precedute alle volteriane teorie, a queste avean dato facile passata. Lo avversar le cose di chiesa fu andazzo e vanto; ogni passo contro Roma parve una vittoria. Cotesta guerra iniziò e proseguì il filosofo Tanucci, toscano, surto a un botto ministro e capo della reggenza al minore Ferdinando IV, dopo che in ottobre 1759 il genitore Carlo III, reduce a Spagna, il lasciava rè indipendente. Il Tanucci iniziò la guerra al sacerdozio; lanciò lo stato sulla via sdruscevole da metter capo al 1799; e dall'altra trascurò la educazione del giovanetto principe, sì da tenerlo indietro al secolo, che tanto camminava baldanzoso. Ferdinando a 12 gennaio 1767 era richiarato maggiorenne, ma trovava già conficcate le basi dell'avvenire, e sé ed altri incapace a mutarle al dritto. Diceva il Tanucci: Principini, ville e casini, cioè i principini non ad arme né a governo avere a pensare, ma a darsi bel tempo; e i moderni che dicono i re dover regnare, non governare, han mutato le parole, non il senso.

Acciecamento de' nobili e de' popoli.

Non è tanta maraviglia che i monarchi volonterosi d'accontentare i popoli, circondati e consigliati da stolti o traditori, cadessero nelle reti; ma l'è più veder la nobiltà, così numerosa e balda nell'Europa feudale, entrar nell'insigne stoltezza di reputar buone e belle le idee novatrici, che niente meno accennavano che a struggerla, spogliarla e darla ai boia. Potenti, ricchi, rispettati, i nobili potevan rintuzzar la congiura, e invece per vezzo o imitazione, o voglia di parer saputa congiurarono anch'essi. Addottrinati dall'Enciclopedia, educati da dottoricchi forniti dal d'Alembert, sputanti sentenze contro la religione ed i re, non s'accorsero che dopo i privilegi reali cadrebbero i privilegi di casta; posero il pondo de' loro gradi riveriti a prò del nemico sociale, e con l'esempio concorsero ad abbacinare i re, e a storcere le popolazioni.
I bassi eran più facili a corrompere; che l'uomo bisognoso e ignaro, se ode non esister Dio né inferno, la roba esser comunale, esso uguale al ricco e al signore, non dover ubbidire, esser anzi sovrano, potere aver capriccio d'ogni vietata cosa, ei si cala presto a persuadersi. Nondimeno la religione e i sacerdoti mantennerli in gran parte. Nel Napolitano poco furon guasti; molto in Francia, massime a Parigi, dove la setta avea le braccia nella plebe. La borghesia da per tutto fu la peggio infatuata. I Francesi sempre solleciti dell'onor nazionale, allora ciechi, incaponiti alle assemblee del Rousseau, vollero quello stesso che già i nemici di Francia volevano. Perocché quando Germania, Inghilterra, Spagna, e Olanda, confederate per la guerra di successione al trono di Spagna, tementi della potenza francese, stipularono il trattato dell'Haya a 16 gennaio 1691, pattuirono non posar l'arme se non fossero ristabiliti gli Stati Generali in Francia, con l'antica libertà e privilegi che infrenavano i suoi re. Cotale libertà volevano in Francia i nemici di Francia per finir di temerla; ma Luigi XIV trionfò di quei patti, e morendo lasciò forte lo scettro e potente la nazione. I filosofi che sottomettono lo scibile a' sistemi celebrarono le assemblee come sociale perfezione, e ne invogliavan tutti: l'Inghilterra soffiò in quei spiriti, e die a' novatori aiuto, appunto per abbattere la prosperità della sua rivale, e vendicarsi dell'America aiutata da' Borboni. Il nemico appaga le passioni dell'avversario per rovinarlo. E i liberali trionfati bruttaron di patiboli la Francia; e con quella libertà resero impossibile la libertà. Frutti delle lezioni de Montesquieu e Rousseau.

Cagione l'egoismo di ciascuno.

Ogni ordine di persone, strascinato come da torrente, lavorò alla macchina abbattitrice di tutti; che la cupidigia pigliò gl'intelletti, e fe' vedere utilità dov'era danno. Utile solo è il giusto; seguendo giustizia s'ha utilità; ma sovente visiera di giustizia maschera sconvenevoli brame. S'acciecarono governanti e governati. I sovrani si credettero quel rumorio riescir contro i preti e i baroni; pensavano che affievolito il braccio baronale e clericale, guadagnerebbero forza, e indipendenza da Roma; però lasciavan fare, e proseguivan con leggi i cupi disegni delle sette. Così rè e regine di corona stipendiare filosofi d'empietà, tenerli a corte, onorarli, averli maestri e consiglieri; re e regine entrare in logge massoniche, parteciparne gl'infimi gradi sottomettersi a' ciarlatani riti. Dall'altra i nobili per ignavia e lascivia obbliata l'avita virtù, vaghi sol di tresche amorose, plaudivano a quel filosofar facile, che dicea la religione ostacolo a' piaceri; né sospettavan che le sette accennanti a' troni s'avessero a rovesciar su di loro; speravano anzi che franti gli scettri raccoglierebberli essi. In contrario le popolazioni, più salde nella fede, ravvolte in tante reti e vischi, poco quella filosofia intendevano, ma sentivano volersi men severi ordini di stato, e franchezza di vita; però vi s'acconciavano, e spinte spingevano, intronate il capo di libertà. Né i rè né i nobili, né i popoli vedean più là dell'offa lor menata negli occhi; l'un credeva minacciato l'altro, e si stava pago; non sospettanti aver tutt'insieme a esser percossi. Larghezza di coscienza, larghezza di leggi, larghezza di costumi, non più rigidezza di virtù, tutte blandizie e carezze e speranze facean larga, lubrica, infiorata la via del precipizio. L'egoismo fu danno di tutti. Soltanto la Chiesa, che sta sul vero e sul giusto universale ed immutabile, vide e manifestò il periglio, ma sola fu. Sin dal principio il clero svelò in mille modi la congiura, la combattè con prediche e libri insigni, confutò le dottrine false, prolungò la lotta, ritardò il progresso dell'empietà, e avrebbe meritato di vincere; ma il Signore volea permettere il breve trionfo del male, perché la deformità ne sfavillasse. Il clero profetò la rivoluzione, profetò la distruzione de' templi, e l'abolizione di Dio, profetò il regicidio, e la persecuzione; e quando tali atroci empietà si perpetrarono al cospetto del sole, seppe imperterrito sotto i pugnali e sulle scale de' patiboli confessare la verità della Fede, rinnovare i martirii de primi secoli della Chiesa.

Weishaupt.

La gran rivoluzione fu affrettata da un Bavarese, il cui nome dovrebbe andar primo dopo Satanasso. Adamo Weishaupt fondò ]a setta dell'Illuminati, madre e modello organatore di tutte quelle de' tempi nostri. Funesto conoscitore del male, fabro insigne d'artifizii, ipocrita stupendo, indoratore d'ogni vizio, prepara sotterra una rivoluzione d'idee immensa, che sa dover divampare in lontano avvenire; eppur pertinace ne tesse le brune fila, nemico della luce copre la verità, ateo senza rimorso bestemmia sorridente. Da natura ebbe inattitudine al bene, intelligenza del fosco, mente organata ad ampie congiure. Nacque nel 1748; diconlo discepolo de' Gesuiti, poi d'un Irlandese detto Kolmer, e condiscepolo di Pietro Balsamo siciliano, famoso ciarlatano dettosi conte Cagliostro che insegnava magia e massoneria egiziana. Sappiamo da lettere di lui messe a stampa, che fu incestuoso e infanticida. Serrava in petto vulcani di passioni coperte con neve d'ipocrisia, né altri mai meglio improntò il linguaggio della virtù. Addottrinato nell'ateismo de' filosofi e nel liberalismo de' Massoni, ambo con incestuoso connubio congiunse; ideò un modo da guadagnare il genere umano e imporgli il suo volere; cioè minare insieme religione, governo e proprietà. Sendogli indifferente ogni delitto, vi si mette con perseveranza e dissimulazione da superare o evitare qualunque ostacolo; si fa centro d'un circolo d'adepti sparsi in ogni città, per infiltrarli in tutti gli ordini. Si fa chiamare Spartaco: questi a capo di gladiatori s'era ribellato a' padroni del mondo, ei capo si fa di gladiatori morali contro la società.

Gli Unitari

Il Mazzini mette innanzi la divisa: Dio e Popolo: né dice che Dio, che popolo intenda. S'è visto da' fatti intender popolo la massa de' suoi settarii, e Dio la sua dittatura. Divisa trionfale è; Non Re, non Papi, popolo e repubblica, libertà politica e religiosa. La comunella non si dice, ma si fa. Libertà intendono non ubbidire a nessuno legittimo superiore, il che è l'opposto della vera libertà, che è il non ubbidire a chi non ha dritto e in cosa non dritta; ma van dicendo schiavo il figlio ubbidiente al padre, e il voglion liberare dalla potestà paterna, per farlo invece ubbidire a rè stranieri, che si cacciano in casa altrui a tiranneggiare le famiglie. Noi ubbidienti alla legge siam liberi; calpestandola, siam servi di passioni brutali e di furbi usurpatori.
Adunque Carboneria e Giovine Italia, figlie di Giacobini e Illuminati mettono pretesto al congiurare l'unità d'Italia: dico pretesto, perché le loro costituzioni sin da' primi Massoni, e per dipendenze con la Giovine Europa, dichiarano voler la libertà e l'uguaglianza de' primi uomini, il che non è unire ma dissolvere. Oggi stesso unificando l'Italia, tendono a dissolvere Germania e America. Se Italia potesse essere una, già sarebbela da migliaia d'anni; ma noi fu mai, non con gli Etruschi, ne' co' Romani, che tennerla serva. I Barbari che affogarono questi popoli nel sangue ben potean farla una, come fecero una Francia e una Spagna; il tentarono i Goti senza effetto; e anco i Longobardi s'ebbero a dividere. Carlomagno volevalo, ma la sua potenza s'arrestò sul Volturno, ed ebbe a far pace con Arechi Longobardo Beneventano, che raffermò l'autonomia di queste contrade che fanno il reame; perlocché, acconciato il pensiero alla natura, Carlo riconobbe il dominio papale, e miselo in mezzo all'alta e bassa Italia. Noi tredici secoli restammo gli stessi; solo mutando i principi nei rè, e scacciando i Bizantini. L'Italia superiore ebbe mutazioni e tagliuzzamenti infiniti. Ora quello che non fecero Etrusci, Romani, Goti, Longobardi, e Carlomagno, in tempi più opportuni e ne' principii delle nazioni, e con forze prepossenti, dicon di farlo le sette segrete dopo tanti secoli, sconfessando la storia, la natura, e gl'interessi del paese.
Speciosa idea è l'Italia una, idea da muovere i giovani; che certo far la patria grande, potente, e rispettata, saria onesta e bella impresa. E dove ella potesse esser unita sarebbe tortissima, per l'indole de' suoi abitanti fervidi e ingegnosi, per sue naturali ricchezze, per lo stare in mezzo al mare, fra Asia, Africa ed Europa, e per la coscienza dell'antica e moderna grandezza; ma questi beni che fanla invidiata e agognata, essi appunto sono che le vietarono, e sempre le vieteranno, d'essere uno stato solo. L'indole altera degl'Italiani li fa di spiriti municipali, perché ciascuno si sente grande, vuole il primato, e sdegna dipendenza; la forma della penisola lunga e sottile, dove ogni parte basta a se, ne ha mestieri d'altri, fa ciascuna regione paga del suo e indifferente del vicino; e le molte secolari autonomie surte, cresciute e compiute, rendono l'Italia per questo maravigliosa nella sua divisione. Ciascuna parte ha vita e storia sua, costumanze, dialetto, passioni, bisogni e interessi distinti, monumenti, nomi, ricordi rinomanze speciali; ciascuna stata indipedente e separata tanti secoli, ebbe leggi, guerre, trionfi ed arti sue. Uccidere codeste persone sociali, per farne una mole mostruosa di parti eterogenee e discordi, è ruina appunto della sua grandezza. L'Italia che vide tanti secoli i suoi figli accoltellarsi. Bianchi o Neri, Guelfi o Ghibellini, gelosi l'un dell'altro, diversi di razze e d'interessi, diventar una! La fittizia e sforzata unità farebbela schiava d'una fazione, e però cento fiate più debole e infelice; sarebbe risuscitare Guelfi e Ghibellini, veleni e pugnali, ferali conviti e crudi esilii, nefandi sacchi, e arsioni atrocissime di città e di campagne. E già si sono risuscitati.
Ma l'Italia, siccome la Polonia, la Germania e la Grecia sono pretesti alla sette. Movono del pari Francia e Spagna state sempre une. Ma là e qua, con queste ed altre lustre, voglion abbattere la potestà umana e divina. Questo fine è il dogma de' loro comuni catechismi. Però come possono addentano la proprietà, percuotono il clero e combattono il Papa ch'è grandezza italiana e mondiale. Il loro anti-papa è il Grande Oriente de' Massoni; vogliono la rivoluzione delle idee, della morale e delle leggi; e per farla non vogliono religione. Qua, perché Italia ha più stati, gridano Italia una; se fosse una griderebbero Italia divisa. E perché il popolo li respinge, e li fa impotenti a ogni conato, eglino, mentre sclamano fuori lo straniero, chiamano gli stranieri a far cotesta loro Italia.
Pria volean progresso civile, poi appagamento di bisogni sociali, poi costituzioni, poi federazioni, ora siamo all'unità ch'è distruggitrice d'ogni dritto altrui; domani vorranno repubblica, e poi? Vantatori di progresso, spingendo incessanti in tutti i versi governanti e governati, ciechi sconoscono la meta, e se ne allontanano; gridano civiltà, e arrovesciano il secolo al medio evo; proclamano dritti di popolo, e schiacciano quelli di ciascuno, e tornano indietro a quel della forza sulla ragione; lodano la ragione ed operano con delirio, e camminando sempre a sproposito non procedono, retrocedono. Per progresso intendono il progredire della rivoluzione, non quello della civiltà.
Loro grande alleato è il lusso. Quando l'uomo avea pochi bisogni con poco era felice. Il Romano con solo la toga era vestito, e il resto del giorno spendeva speculando sull'arti belle, o in fatti egregi. Oggi ammiriamo le virtù pagane, e quella sconosciamo che nella parsimonia li feceva grandi. Noi per vestire abbiamo mestiere di cento arnesi, e di mille e più per la casa; né già d'opere d'arti, ma di luccicanti minuzie, che agli occhi non all'animo fan piacere. Il vestimento, il mangiare, il gioco, il fumare ne piglia tutta la vita. La meravigliosa necessità delle inezie che circondali la donna non conto. Ciascuno sospira il possedimento di tali vanità, che al savio son giocarelli da bimbo; ciascuno si fa tutta la vita bambino, si affatica a cumularne, e guarda in altri con invidia cotesto sommo di felicità. Quindi brame inappagate, sforzi per conseguirle; vane aspirazioni, dispetti, odii e dolori. Siamo a tale che la parsimonia è considerata ridicola; e molti si smorzano d'arricchire più per la pompa che per godere delle ricchezze.
Quando questa foga di cose dorate piglia i popoli, non è possibile che restin virtuosi. Non costume, non giustizia, non fede, non quiete. Mal curando il bene sodo, si va appresso a folla di beni futili; ne si può badare alla moralità dei modi a conseguirli. Ciascuno a stendervi le mani, a uscir dal grado nativo, e a lanciarsi innanzi sempre; che più cammina e consegue, e più via e più cose da conseguire si vede avanti. Allora nessun governo legittimo è buono, perché affrenatore di brame immoderate; e quando anche un governo rivoluzionario abbian fatto, neppure il fanno riposare, che tosto si scatenano contro di esso, e con più ragione, le passioni stesse che l'aiutarono a salire; perché non è lo stare che appaghi, ma il mutare e l'agitarsi; oltre di che a' sazii subentrano i digiuni incessantemente. In questa grande ansia irrequieta è moltissima gente. Corrotta, corrompe; balorda, imbalordisce; sospinta, sospinge, si lancia ad ogni reo partito, sconfessa la morale e la religione, e incensa cavalli, drappi, frange e cortine d'oro. Grida patria, e sdegna vestir di tela tessuta in patria; grida Italia, e parla francese, e tien gli occhi a' figurini di Parigi e di Londra; grida indipendenza e plaude all'arme straniere, ne' altro loda che cose estranee; e cinguetta e mangia e danza alla forestiera. Così ignorando le leggi patrie sospiriam costituzioni all'inglese; vogliam diventare grande nazione, e disprezziamo noi stessi.
Di tutte le classi la media è la più sprofondata nel lusso, o che il possa o no. Ha prurito di parer grande; il fa come può con le carrozze, le porcellane e le assise; e della moda sente frenetica necessità. E peggio che questa classe media ingrossa ogni dì. V'entra il nobile scaduto, per le mancate sostanze e i cresciuti bisogni, e come non potendo essere vuoi parere, si lancia di leggieri nelle rivoluzioni, dove spera subiti guadagni. Aristocratici nell'essa, contraffanno democrazia per farsene sgabello, ignoranti parlan di progresso, prepotenti vantano uguaglianza; infanciulliti con fievoli pensieri in bazzecole, trinciano politica e legislazione; e bassi sollecitatori di ciondoli e nastri, fanno i Bruti per diventare Antonii. Antonio fu appunto un nobile scaduto.
Entrano in più nella mediana classe gli artigiani arricchiti, i contadini ch'han posata la marra, i fratelli o nipoti di preti, i figli degli uscieri e bidelli, e altri cosiffatti che vogliono salire. Per far vista di saputi questi sovente son servi di setta. Ogni dì la buona classe degli operai e de' contadini scema, e s'ingrossa il numero di chi senza far niente vuol vivere alla grande. Pertanto lo stato medio, dove son pur molti virtuosi, e ornamento della patria, va sempre crescendo, con elementi guasti che scendono di su, o salgono di giù, irrequieti, bisognosi, vanitosi, ed audaci. Questi in tempi di pace sono insigni per cortigianerie, inchini ad arti basse; in tempi di subugli alzan le cervici, e parlan come Scipioni e Camilli, per vivere da Sardanapali a spese della nazione.
Il lusso avversa la natura, perché fa bello il raro. Esso nutrica la sete insaziabile dell'oro, l'ingordigia dell'averlo, e la immoralità su’ modi a conseguirlo; esso abbarbica il vizio, toglie via la vergogna e la probità, fomenta libidini, e fa l'animo servo; esso fa eludere le leggi, beffar la virtù modesta, trionfar la tristizia. Il lusso ha oppressa l'umanità. Più rari i matrimonii, più frequente il concubinato, difficile l'amicizia, la fede un miracolo, divisioni nelle famiglie e nello Stato, non v'è pietà, ne carità; e per esso manca poi il tozzo di pane a migliaia d'infelici che d'inedia finiscono nelle città più popolose.
Per cagion del lusso le arti belle non han più capolavori; e l'ingegno umano volto alla soddisfazione di futili bisogni par ch'abbia perduta la favilla creatrice. Gli antichi savii proscrivevano il lusso co' costumi e con leggi; i moderni il fomentano, e ne fan lodi insigni. Scrittori di economia il predicano fonte di civiltà, e ne han persuaso il mondo. Oggi uno Stato si ruina senza rimorso. Siam diventati corrotti, come i Romani del basso Impero, cui il Signore per purificare mandò il ferro ed il fuoco de' Barbari. Ma, si risponde, oggi in Iscizia non sono più barbari, Se non ve n'ha in Scizia, ve n'ha in mezzo a noi. I nostri barbari sono le sette che muovono i comunisti e i proletarii, e questi se non si rimedia subisseranno la nostra snervata civiltà.
La setta è potenza mondiale. Ha re, senati, magistrati, eserciti, tasse, navigli, bargelli, finanze e condottieri. Ha codici, fa sentenze e le esegue in ogni paese. Ha sudditi su tutta la terra, e ne ha ubbidienza cieca, combatte con la fama, con la stampa, col pugnale, e col cannone. Sudditi ha di tutte condizioni e stati, d'ambo i sessi, monaci e preti, re e imperatori. Domina nelle famiglie, nelle città, nelle reggie, ne' tribunali, sulla terra e sul mare. Oggi ha sedia in Londra. Di là il Mazzini, il Kossuth, il Ledru-Rollin governano le rivoluzioni, mandano sicarii a ferire i re della terra e i ribelli alla loro potestà. La storia narrerà quanti alti personaggi facesser colpire. Otto attentati in sette anni sull'imperatore Napoleone se non lo spensero, pur seppero con l'ultime bombe dell'Orsini ricordargli la mole de' suoi doveri. E ch'egli ubbidisce con la guerra d'Italia del 59 è voce che sin nelle camere legislative di Francia risuonò. In questo tempo è la gran lotta finale fra la setta e la società; e chi sa se col secolo sarà compiuta? Essa confida nel trionfo: procede sempre, ne' mai si da vinta, ne' mai perde terreno; percossa, si rannicchia, si fa piccina, si finge oppressa, piange, invoca pietà e con sotterraneo lavorio prepara la riscossa e più prolifica si spande. Ripercossa, aspetta un'altra generazione; è misera, lusinghiera, cortegiana, servile, accattona, pinzochera e spigolistra, aborre il sangue e la pena di morte, invoca la civiltà e la religione la giustizia, la legge, e l'umanità; mostra pentimento, fa elegie e canti epitalami! in lode di re e principi, inneggia a' Santi ed a Dio, si confessa, giura, protesta fede; e arriva a farsi credere la parte migliore della società.
Frattanto tiene conciliaboli nelle vie, ne' caffè, nelle feste da ballo, nelle reggie e nelle chiese; fa testimonianze false, e raccomanda e difende, salva e sostenta i suoi, calunnia gli avversarii, li abbassa, li rende poveri e odiati, li divide, li combatte ad uno ad uno, e li stiletta; frattanto si fa maestra alla gioventù, la corrompe, promette l'età dell'oro, e guadagna seguaci. A modo di talpa mina il terreno sociale, e quando crede maturo il tempo, abbrucia i puntelli, e con gran fracasso fa crollare i fondamenti della società. Trionfa allora, gitta le maschere, passeggia con le spade sanguinose fra monti di cadaveri, bandisce il regno della ragione, proclama il dritto nuovo, canta sue glorie, vuota di malfattori le carceri, e le popola d'onesti; implacabile vendicatrice colpisce spietata, saccheggia, arde, stupra, fucila senza giudizii; e tali nefandezze appella sentenze di pubblica opinione. Senza più ritegno, balla sugli altari del Signore, guerreggia frati e suore, carcera vescovi e cardinali, vilipende e maledice il Papa, vuoi Roma e il Campidoglio, nega la divinità di Cristo, e predica sin nelle chiese contro la Vergine Madre. Allora tutto è suo. Delle reggie fa osterie, de' templi fa stalla, delle città fa bordelli; mutila i monumenti, rapina il tesoro pubblico, le casse ecclesiastiche, i luoghi pii; vende i beni demaniali e clericali, fa debiti a milioni di milioni, e attenta alla privata proprietà con tasse interminabili e gravosissime. Quella è la invasione de' Barbari, e peggio; che i Barbari fra tante mine distrussero gli avanzi del gentilesimo e sublimarono la Cristianità; ma i Barbari presenti, abbattono anzi il cristianesimo e la fede, per estollere l'ateismo ed il nulla. Da' Barbari del settentrione emerse la società nuova; ma questi Barbari che abbiamo in tutte le zone, nel mezzo delle città nostre, sono sterili e distruggitori; quelli nel sangue affogarono la corruzione pagana, questi con sangue vogliono abolir Cristo, e intronizzare la corruzione universale; quelli abbatterono gl'idoli, questi assalgono Dio. Ma v'è la Provvidenza.

[da: Storia del Regno delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, libro I]

Trame settarie in Londra.

A Londra avea seggio un comitato centrale democratico europeo, dichiarantesi rappresentante di dugento milioni d'uomini; diviso in sezioni di corrispondenze, informazioni, soccorsi, giornalismo, società segrete, erario e percezioni. S'avean partiti gli stati: chi dirigea Francia, chi Germania, chi Svizzera, chi Italia. Tutti i faziosi o gonzi del mondo eran loro tributarii, e sudditi ed secutori. Il Mazzini rappresentava Italia, il Ledru-Rollin Francia, il Ruge Germania, il Durosz Polonia, il Kossuth Ungheria, tenevan le file d'un governo mondiale ascoso; mandavan lettere circolari a' comitati paesani, e spedivano legati e spioni nelle città e nelle corti. Non credo mai se ne vedesse altra simile d'una cospirazione universale costituita contro la costituita umana società. Londra sciente ospitatrice era antro inviolabile di quei fabbri di ruine. Nel 1849 un Carlo Heigen tedesco fuoruscito vi stampò in un giornale un opuscolo, intitolato Ammaestramento della rivoluzione, ove diceva: "Questa costerà all'Europa due milioni di teste, ma esse sono olocausto lieve pel bene di dugento milioni. Essa con ispada sterminatrice deve guizzare in ogni canto della terra, e far sue vendette su monti di cadaveri; in ogni paese avrà un dittatore, il cui principato uffizio sarà l'esterminio de' retrogradi, il legarsi con tutti i governi rivoluzionarii, e pattuire la consegna de' reazionari fuggitivi, pe’ quali non debbe esservi asilo. A questi nulla deve restare in terra fuorché la tomba". Favella poi del rapire i beni, perseguitar principi, e altre cosiffatte, ch'abbiam poi visto con gli occhi nostri perpetrare da' dittatori Garibaldi, Farina e loro seguaci.
Il Ledru-Rollin teneva cattedra, e a gente scelta dava lezioni di colpi di mano rivoluzionarii. Scrisse nel 1850 una pubblica lettera al redattore del Corriere Batavo, plaudendo agli sforzi di lui per propagandare sensi repubblicani in Olanda; affermò far lo stesso in tutta Europa, e si plaudiva della unione di tutti i ribelli: " I re s'uniscono: e i popoli per liberarsi denno unirsi; i re han la lista civile, e la democrazia deve avere la lista civile ". Il Mazzini in quel tempo stesso stampava uno scritto, invitante i liberali d'ogni terra a formare uno stato solo, per sollevarsi in un sol dì in tutto il mondo. Propone sopire ogni disparità d'opinione, per discuterla dopo la vittoria; intanto stringersi su queste basi: distruzione d'ogni autorità, progresso continuo guidato dal popolo. E in novembre di quell'anno fece un progetto d'imprestito per la rivoluzione; ed egli con altri cinque dette una proclamazione minacciante la guerra; e disse all'Europa: Noi agiremo da noi medesimi. E i sovrani dormivano, e credevan trionfare vietando ne' loro stati ogni notizia palese di tante minacce, celandole anche a' pubblici uffiziali; sicché sendo serpentina l'offesa, e nulla la difesa, lavorarono col loro imbelle e stolto silenzio al trionfo del comune nemico. Soprattutto nelle due Sicilie la pace profonda e l'ignoranza di tali insidie generò una sicurezza balorda e fatale: di maniera che la rivoluzione piombò come fulmine senza lampo in cielo sereno, ch'ogni persona abbarbagliò e prostese.
Londra stessa tenentesi quel fuoco ne fu scottata un poco. A' 19 maggio '49 un James Hamilton, operaio, tentò con la pistola di assassinare la regina nell'Hyde-Park. A 30 giugno '54 la regina fu percossa di bastone da un Roberto Paté, luogotenente del 16° ussari in ritiro. Disserli pazzi, ma innanzi non s'eran visti tali pazzi. Dappoi seguirono interpellanze in parlamento contro i fuorusciti, che si valevano dello asilo per turbare la società; e Lord Gray ministro dell'Interno rispose protestando contro il costoro abuso, e promise far cose grandi per rimedio, ma non si vide nulla d'efficace. Crebbero anzi i fuorusciti, e le accoglienze e i festeggiamenti. Se n'eran fatte d'eccelse all'Ungaro Kossuth, che da Turchia a 23 ottobre 1851 sbarcava a Southampton, e qualche giorno dopo a Winchester: bandiere, processioni, grida di Viva e Morte, saluti, concioni, indirizzi, banchetti, brindisi tutto istigante il ministero. Così costui tenuto stretto in Turchia, e rifiutato da Francia, era sublimato in quel paese, dove poco avanti avean fischiato il tedesco generale Haynau difensore del dritto. Poi nel 1853 il Russel si vantò in parlamento essere stato il suo amico Palmerston ch'avea fatto venire il Kossuth, e indotto Turchia a lasciarlo andare, con promessa di soccorso, dove ne venisse da altri redarguita o assalita.

Opere settarie in Italia.

Come Londra era fucina della congiura mondiale, Torino l'era della italiana. I banditi di tutta penisola cospiravanvi aperto contro i governi delle patrie, e collegati col protestantesimo e l'eterodossia, diffondevano il tossico per tutta Italia. Davan libri stampati bene a poco prezzo, da invogliar leggitori e compratori; il mistero, il pericolo aggrandivanli; figure oscene, diatribe anticristiane, accuse e calunnie contro il papa e i sovrani, satire, canzonacce, vituperii, erano arti da far cadere da' cuori il rispetto a Roma e al dritto. Il costituzionale Piemonte, Stato modello, faceva fare, instigava, ordinava, pagava. In ottobre 1850 videsi una società d'operai, detta La vera compagnia di Gesù; perché, dicevano, Gesù stato artigiano falegname a Nazareth avervi consacrato la santità del lavoro. Affettavano lavoro, mentre volean rivolture appunto per campare senza lavorare. E quando nella monarchica Torino s'erigevano tal combriccole, quelle erette a Parigi repubblicano si scioglievano, anche prima del 2 dicembre.
A Genova, sentina di democrazia, nel 1851 fur tumulti e grida d'abbasso al re. Vi s'ersero associazioni operaie di mutuo soccorso, e il tiro nazionale della carabina, per formare Carabinieri italiani. Che facesselo il governo fu provato dal veder fatto Consolo de' carabinieri quel senatore Plezza mandato dal Gioberti legato a Napoli, e non ricevuto a corte. Stampò questi una lettera circolare dicente: la carabina costituisce il popolo civile, lo esercito permanente esser cosa da barbari. A Genova il Mazzini pubblicava il suo giornale Italia e Popolo; i confratelli gli facevano coro; aveva retroguardia e rinforzo a Capolago, con la tipografia Elvetica, venduta alla setta, per istamparvi ogni malvagità. Decretato un tempio protestante sin dal dicembre 1850, se ne poneva la prima pietra a 29 ottobre seguente, con gran pompa, e presenza de' ministri Inglese, Prussiano e Americano.
In Toscana stanziavano Tedeschi, onde si poteva far meno: nondimeno v'agitavano il protestantesimo sì che seguirono arresti e condanne. Tentarono celebrar funerali in S. Croce di Firenze pe' morti di Curtatone; il negò il governo, sciente volersi non pregare pe' defunti ma pompeggiar vanti di rivoltosi. Eglino presero il destro in quel dì dell'ascensione, 29 maggio 1852; mentre la chiesa affollata era parata a festa, i congiurati tolsero a staccare i drappi che coprivano le iscrizioni co' nomi de' morti in quella zuffa; ciò col proposito di porvi i fiori. Accorsero gendarmi, seguirono busse, colpi di fuoco, contusioni, ferite, e spavento di popolo. Fu necessità farne il processo, quindi lamentanze per tirannia.
Il Guerrazzi arrestato sin dal 12 aprile 1849 ebbe lungo giudizio; la sentenza n'uscì al 1° luglio 1853, mitissima pel reato, dannatelo a quindici anni d'ergastolo, e a cinque dopo di vigilanza. Ricorse per cassazione: ma tosto cercò grazia a quel buono Gran Duca, che gliela fe' subito, mutata la pena in esiglio. Anche a Roma su' primi di maggio '51 fur lievi tumulti, e una rissa tra Papalini e Francesi, tosto sedata.

E nel regno.

Nel regno, con le popolazioni reazionarie, la setta non osava niente; non potendo meglio, gittò fra' suoi adpeti il ridicolo ordine di non fumare, per impoverire l'erario; di che tutti beffandosi, vedevi gentiluomini e popolani vagolare contro l'usanza per Toledo con lunghe pipe. Meglio potevano in Sicilia. Già in marzo '50 s'era preso un Maltese latore d'opuscoli e bandi mazziniani; e a' lagni del governo nostro il governatore di quell'isola die' ordine a quei negozianti di pensare al negozio non a congiure italiane. A 6 luglio a Palermo s'ammutinarono i fornai. Questi a tempo della rivoluzione avean troppo alzato il prezzo della mercede, il che gravava sulla popolazione, laonde il municipio rifatti i saggi lo moderò al giusto; allora i panettieri che volean quella usata cuccagna, anche di segreto instigati, il mattino del 6 non lavorarono, pensandosi pigliar la città per fame. Ma il governo che l'avea preinteso fé' fare il pane da' frati e monache e artigiani delle ville; poi ghermì 74 de' più sediziosi, tenneli alla Favignana qualche poco, sinché lor passò il grillo delle cose passate.
Nelle Calabrie dove son boschi e monti solinghi, s'erano rifugiati chi non voleano tornare a vita civile; e da masnadieri n'uscivano alle rapine e ai ricatti. Il maresciallo Nunziante ito colà comandante territoriale cominciò con editto del 14 gennaio 1850 a porre in istato d'assedio il distretto di Crotone, e altri due circondari. A' 24 altro editto da Cosenza, e altro da Corigliano a' 24 febbraio, invitando i delinquenti a presentarsi; e prometteva perdono, minacciava pene, e ponea taglie. Se ne presentarono molti, molti furon presi, pochi caddero uccisi; sommarono a 107 in febbraio, altri 47 dopo, in aprile se ne presentarono 131, n'erano aggraffati 49, ne perivan 13 nelle zuffe. Le guardie urbane in breve nettarono quei luoghi. A 27 settembre si fecero quattro squadriglie per assicurare i banditi alla giustizia, ciascuna di trenta armigeri ed un capo; le quali resero di buoni servigi. Si promossero l'opere pubbliche, si cominciava la nuova strada da Cosenza a' casali S. Mango.

Tattica de' rivoluzionarii vinti.

Pareva la rivoluzione [nel 1848 - ndr] vinta e schiacciata nel reame; la sicurezza piena facea tener per passato ogni pericolo, chi stava alla potestà e sul continente e sull'isola, sendo i più uomini mascherati di realismo, e ingordissimi d'autorità, paghi de' grossi soldi, e del loro presente buon prò, non avean l'occhio all'avvenire, o ve l'avevano per lavorare a trovarvisi bene. La setta si rannicchiò, si fé' piccina, e ripigliò sua tattica vecchia. A dichiarar questa non si può errare; che fu sempre una, dopo il '99, dopo il '20, e dopo il '48, Comincia col lamentare gli eccessi della rivoluzione caduta, poi si van distinguendo i principii buoni e veri dalla esecuzione mala ed esagerata; che questa non può negli animi intelligenti danneggiar quelli; che la verità sempre è buona, e solo si deve mondare dagli eccessi. Questi sono colpa de' vincitori, che li avean preparati prima col mal governo, poi con insidie e denari, e con la negazione di fare il giusto. Il liberali non sono rei di nulla, sono illibati, i più chiari cittadini per morale e ingegno; malvagi sono gli accusatori, nemici personali i testimoni, ladri e dal rè compri e corrotti i giudici; sono assassinii le condanne, sevizie, torture le carceri, tarda giustizia le grazie, anzi insulti dopo il martirio. I vincitori realisti sono più eccessivi de' rivoluzionarii; ambi sono sette, nemici della patria, sol i patrioti sono i moderati, quelli cioè de' sani principii, che stanno in mezzo a' due scogli del dispotismo e dell'anarchia. Giurano inoltre che la rivoluzione è morta e seppellita; non più da temere, pentiti i cospiratori; e di fatto li vedi ingobbiti e genuflessi, e mangiar particole avanti gli altari. Che buona gente! che modesta! che talentosi! Subito chi fu liberalissimo tel vedi santo, ubbidiente, leccatore, serviziario, sinché arriva a pigliarsi una sedia. Allora se uno di colesti pentiti fa un ette, ne senti meraviglie, miracoli d'ingegno e d'onestà; per contrario se altri fa qualche bell'opera, si finge ignorarlo, s'attenua, si storce, e se cade in fallo crucifigatur. Con arte pongonsi a parallelo dotti liberali con ignoranti conservatori; e si conchiude questi tutti scemi, quelli tutti ingegni. Dategli croci cavalieresche, titoli, cattedre, magistrature, ministeri, che se la meritano; questi stupidi lasciateli stare, un tozzo di basso impiego, che ubbidiscano e tacciano. E se un valoroso non è liberale ei non ha scampo, resta indietro, depresso, non promosso, calunniato, e peggio.
Se il sovrano rilutta tel piglian per suo verso. S'è uomo sospettoso gli dicon male di quello che vogliono innalzare e lodangli chi voglion basso; e così a rovescio tel fanno servire a' loro intenti; se vede chiaro, van sussurando egli non essere all'altezza de' tempi, circondarsi di sciocchi, non sapere scegliere; e in un modo o in un altro sel mettono in pugno. Tutti i monarchi in tal guisa diventarono strumenti della ruina loro. Intanto si stampano storie dove i fatti s'aggiustano alle idee; pinti eroi i ribelli, tristi i fedeli, scambiate all'incontrario le idee semplici di vizio e di virtù. E si sono così impiastrate le storie antiche e le moderne; e se ne stesero di posticce per tutte le contrade d'Italia, i cui autori dalla trionfata rivoluzione furono poi alzati a semidei. La falsa storia inoltre si scrive con poco; a trovare e a dire la verità ci vuoi mente, fatica e coraggio. Quelle false storie si fan poi rumoreggiare fra mille echi all'orecchie de' governanti e de' governati; e te le intronano sì che niuno sa od osa levar voce e braccia a difesa del vero, per non restarne infamato.
Quando la macchina è compiuta, vedi sorgere magnanimi ardimenti. Si cominciano a gittar le maschere, a inventare motti che sembran dir molto e non dicon nulla, a ricantare la vecchia canzone di progresso, opinione universale, bisogni sociali, secolo, guarentigie, e riscosse; onde rivedi baldi rivoltuosi quei convertiti mangiatori di particolare. I cortigiani diventano Bruti e Catoni. E quei moderati dicono aver sopportato troppo, più moderazione saria tradire la patria, prudenza a far rivoltura, non potersi sconoscere i santi principi dell'89. Quelli che han fruito della potestà e l'han fatta odiare co' loro soprusi, si dicono martiri di dispotismo, martiri d'aver dovuto mangiare un pane odiato, martiri d'aver patito a fare i grandi attorno a un trono dispotico. Ecco gridano Italia una; e in nome della libertà ripongono più grave il piede su chi già in nome del principe tennero bassi e prostrati. Eglino tirannissimi, mutata veste, accusano puntelli a tirannia chi mai non mutò, e fu sempre sofferitore. Ecco li destituiscono, carcerano, esiliano, uccidono; che la setta trionfatrice vince in ferocia cento Neroni.
La rivoluzione ha tutte forme: ora a nome del sacerdozio, ora de' principi, ora del popolo; è municipale, autonoma, nazionale, repubblicana, regia imperiale e sociale. Ora vuole separazione, ora federazione, ora unità: ipocrisia e violenza, adulazione o calunnia, servitù o tradimento. Combatte Cesare e Cristo, perché vuoi esser principe e Dio.
Questa commedia lurida l'abbiam riveduta rifatta quattro o cinque fiate in mezzo secolo, e sempre la stessa. E non è vergogna pe' sovrani a farsene canzonare ogni volta?

Che fanno i re?

E che fecero i re per tutelare la società? Han più volte vinto, perché son sorretti dall'interesse sociale, e perché la Provvidenza non ha permesso ancora il finimondo. La maggioranza della nazione dedita a sue faccende lascia fare, ma quando si sente scottare, s'alza a sorreggere la sua percossa macchina legale, e finisce col vincere. Passato il trionfo, si riaddormenta. I governanti dopo un po' di stentata giustizia, s'abbandonano alle vertigini del potere, ritornano a' capricci, al beneficare i peggiori, e lasciando a questi il carico della cosa pubblica, s'adagiano nel dolce comandare a bacchio, nella facile virtù del non fare, e nel blandire i nemici e dimenticare gli. amici. Intanto la setta solleva il capo, prepara nuove congiure, e ripercossa risorge sempre, ch'ogni sua caduta lascia più seme nell'avvenire. Le idee liberalesche che attuate si dimostrano tiranne, in promesse suonano generose, e pigliano le fantasie di chi non le vide in pratica; i giovani ne restano abbarbagliati, dan dentro, ne n'escono più. Così gran parte di popolo con esca di falso bene si gitta nel male; e di generazione in generazione l'errore s'allarga sulla terra. E che debbono fare i prenci a difesa dei soggetti lor fidati da Dio?
Che debbono fare? Dare a' popoli in fatto quello che i faziosi promettono a parole; perdonare a' rei qualche volta, ma non alzarli a potestà; trovare il merito vero, non onorare gli abbietti, promuovere gl'ingegni, e chiamarli a fare, non temerli e sforzarli a nimistà; gli uffiziali, i cortigiani scrutarli nella loro vita passata, nella famiglia, e tener per tristo strumento chi fu tristo in casa sua e immorale. A' sudditi appagare i voti legittimi, dar lor pace e prosperità con poco, mantenerli tutti uguali avanti alla legge, e soprattutto giustizia a chi tocca. L'umanità è di giustizia sitibonda.
Oggi s'agita nell'orbe una lotta suprema tra la società e i suoi percussori. Questi con mendacio alzan la bandiera della libertà, e costringono i buoni a parer di pugnar per la tirannia; ma la pugna è pel possesso. Diroccare l'antico per farne conquista, calpestare il dritto per porvi la forza, cancellare l'idee di Dio, per deificare l'ingordigia, per questo si combatte. Non mai in nessun tempo i monarchi ebbero più pericoloso agone e più pugnace; ed eglino cullati da' loro nemici, van con errori cumulando le sterminatrici arme nelle mani de' lor stessi avversarii. Credono rimediare, concedendo mutazioni di forme governative; ma quelli piglian le forme per abbrancarsi il governo.
La libertà ch'è pretesto alle sette è bisogno essenziale al vivere civile; e i veri re denno tutelarla con forte scettro e magnanimo cuore contro quelli appunto che invocandola tendono a schiacciarla. La libertà non sta ne' nomi, nell'ordine legale; lo scettro è un bastone: percuotere chi si dice cristiano ed è ateo, chi s'appella fabbricatore e distrugge, chi promette ricchezze e s'avventa all'altrui, chi conciona di virtù e va depravando costumi e cuori. Fate voi e davvero quello che i congiurati dicono e non fanno; operate sì che niun onesto n'abbia danno, che niun perverso ne guadagni, che nissun settario n'abbio fortezza, e sì che la umanità restaurata nelle idee del vero trionfi senza lotta.

[da: Storia del Regno delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, libro XII]

Antonio Capace Minutolo : Autodifesa di un legittimista scomodo



Nato a Napoli nel 1768, Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa, compie severi studi di filosofia al Collegio Nazareno di Roma. Intraprende quindi la carriera forense. Nella sua qualità di esponente primo della Deputazione, esordisce in politica in momenti calamitosi per i Borbone, rifugiatisi in Sicilia, dopo la sconfitta subita ad opera dei francesi. Senza mai venir meno al più schietto lealismo, è tra i più accesi fautori dell'idea organica dello Stato, lontano da ogni servilismo nei confronti del sovrano e da ogni soperchieria nei confronti del popolo.
Per difendere l'autorità legittima, accetta di ricoprire l'ingrata carica di Ministro di Polizia. La sua intransigenza nei confronti di Massoni e Liberali, lo mette in cattiva luce presso gli stessi circoli politici legittimisti. E' costretto a lasciare incarichi di governo a Napoli; compie viaggi in tutta Italia, stringendo rapporti con esponenti della cultura e della politica di parte controrivoluzionaria. E' fra i più attivi divulgatori delle idee reazionarie, e collabora alle più prestigiose pubblicazioni che allora le propugnavano (La Voce dalla Ragione, L'Amico della Gioventù, La Voce della Verità, etc.). Per due volte, l'Austria stronca due suoi tentativi di costituire corpi di volontari armati contro la rivoluzione, nel Ducato di Modena e negli Stati Pontifici (1836). Stabilitosi a Pesaro e allontanatesi definitivamente dalla politica, muore nel 1838.
I passi che seguono, raccolti sotto il titolo  Autodifesa di un legittimista "scomodo", sono tratti dalla Epistola, ovvero Riflessioni critiche sulla moderna "Storia del reame di Napoli" del Generale Pietro Colletta (1834).
Il principe di Canosa nel Web:
1. http://www.kattoliko.it/leggendanera/personaggi/minutolo.htm
2.
http://www.antoniocapeceminutolo.it
3.
http://www.icapeceminutolo.it/antonio.html
4.
http://lnx.theseuslibri.it/product.asp?Id=800
5.
http://utenti.lycos.it/Corneliu/c222_a10.htm
***
Sono plebeo per genio perché sono cattolico romano per convincimento. Non ho mai corbellato il popolo dandogli ad intendere (come praticano, per ingannarlo, i demagoghi) che esso era il sovrano di diritto; che potea far tutto ciò che gli gradiva, che sarebbe stato ricco ed eguale a' più gran signori dopo la rivoluzione, con tutte quelle altre minchionature ed inganni, che verso il popolo usano i falsi liberali: l'ho per altro amato di cuore; l'ho soccorso quando ho potuto, e con tutti quei mezzi che poteano essere alla mia disposizione.
Egli dice (ha inizio qui una delle feroci tirate con cui il Canosa, nel libro da cui abbiamo tratto queste pagine, intende confutare le accuse calunniose mossegli dal Colletta nella sua Storia del Reame di Napoli, N.d.C.) che venne a me promesso il ministero di polizia nel caso fosse stato Napoli nuovamente del legittimo Re. Dunque ignorava il somaraccio che il Re Ferdinando IV pieno di buon senso, non volea sapere nulla delle novità rivoluzionarie, ed era in quell'epoca nella piena risoluzione di tutto volere restituire ad pristinum? Troppo inoltre conoscendo l'ottimo Ferdinando quale, pel pubblico, molestissimo magistrato era quello della polizia (se non cade in mano di un angelo incarnato) era di lui pensiero in Sicilia non volerlo in Napoli installare, ma fare che le cose rimanessero com'erano prima che da Napoli si partisse, quando comandava il Duca d'Ascoli.
Argomento tortissimo di quanto asserisco è che in Sicilia trovandosi il Re, e correndo tempi pericolosissimi (i francesi in Napoli, gl'inglesi e giacobini in Sicilia e molti tra finti emigrati ancora), non volle ciò non ostante mai decidersi tormentare i sudditi suoi colla pesante, molestissima istituzione della polizia. Lasciò quindi i capitani come si trovavano, ciascuno comandando il dipartimento proprio per quanto quell'antica istituzione sicula fosse alquanto imperfetta.
Ferdinando IV, ripeterò mille volte, pieno di buon senso, era tanto avverso alle rivoluzionarie novità, e tanto ne conoscea l'interno male, ed i pessimi risultamenti per la monarchia legittima (e di fatto tutto era istituito per la repubblica e le monarchie militari rivoluzionarie), che, con saggio avvedimento e con fina politica, fece brugiare per mano del carnefice pagina per pagina, quel codice napoleonico, che in taluni regni legittimi trovasi in pieno vigore, o perché taluni che governano sono ignoranti, ovvero perché, nel servire in apparenza la legittimità, cercano in sostanza servire la rivoluzione. Dunque l'idea di eleggere un ministero di polizia non entrò in capo giammai a Ferdinando IV, quindi potea molto meno prometterlo al Principe di Canosa.
Più io fui sempre, per grazia di Dio, un galantuomo. Le calunnie, il convocio, gli schiamazzi de' falsi liberali contro me non saranno mai capaci di altro che di rendere più gigantesca la mia opinione, non che presso i legittimisti, ma presso gl'indifferenti, ed i veri liberali che mi rendono giustizia abbenché di sentimenti diversi. Se dunque io sono un galantuomo, e se nessuno mi nega qualche talento e perspicacia, può credermi quando dico, che, conoscendo che il ministero di polizia, non essere mestiere di galantuomo non lo avrei desiderato giammai ne' accettato tampoco.
Reduce dalle Spagne lo accettai, ma perché supposi che se non avrei potuto fare il bene, avrei impedito molti mali: fino in fatti da Milano, trovandomi nel teatro della Scala reduce dalla Spagna nel 1815, sentendo leggere certe gazzette, mi avvidi delle trame de' rivoluzionarii, i quali, colla pelle dell'agnello sul dorso, stavano organizzando una nuova rivoluzione che non era conosciuta che dagli uomini di sopraffino intendimento. Da quell'istante in poi me ne confermai sempre più, e lo andava ripetendo al Re tanto che al marchese di Circello. Mi guardava dirlo soltanto a Medici e Tommasi, come mi guarderei leggere un pezzo di Vangelo al Muftì in Marocco, giacché la mia lettura sarebbe inutile per convertirlo, e sicura per farmi impalare.
Per tale ragione dunque soltanto accettai una carica, la quale se sapea disimpegnarla, se ne avvide per tre anni Saliceti, ma mi era assolutamente antipatica, e non per il mio modo di pensare.
Io immaginava poter impedire una nuova rivoluzione nel mio paese che vedeva nascere, e pargoleggiare fra tutti quegli asini liberali, e quindi salvare la patria mia da quel flagello straniero, che puranco prevedeva.
E ci sarei riuscito felicissimamente, se tutti gli strumenti dell'orchestra suonato avessero d'accordo. Come però andare innanzi con Medici e Tommasi, puerilmente invasati di filosofia, d'illuminismo, di novità, che supponevano che per chiudere le piaghe non eravi rimedio più adatto delle cantaridi e butirro d'antimonio!!!
Il Re Ferdinando era ottimo, e il buon senso di lui lo facea essere tutto d'accordo con me. Egli però mi conoscea poco, mentre avea ogni fiducia e tutta l'opinione in que' due defunti scimmioni ricamati.
Non aveva per me che l'ottimo signor marchese di Circello. Ciò che vedeva io, esso pure vedeva; che se quel signore non erasi consumato sopra i libri, aveva però una grande esperienza, ed una pratica di mondo estesa e profonda, si potea dire di lui ciò che di Platone dicea il Dottore Africano: Rem vidit causam nescivit. Come que' medici di buon senso che hanno studiato poco, e veduti molti ammalati, il prognostico di lui era sicuro. Per il maggior vantaggio per la causa della legittimità, il marchese di Circello era conosciuto e ben veduto dal Re N. S. Uniti dunque si potea fare moltissimo (quante volte tali discorsi con quel venerando patrizio si fecero nel 1821!): come tirare innanzi però quando al marchese mancava ciò che si chiama vigore!! Ecco perciò che spesso rimanea solo esposto al fuoco granellato ed alle mine (iacobinico more) de' due RR. PP. della Patria de Medici e Tommasi che avevano preso tutto l'ascendente sopra l'ottimo monarca!
Vedendo io dunque che la rivoluzione progrediva, e che io non avendo forze da impedirla, andava a fare la figura o dell'asino o del traditore (dopo aver tutto rassegnato a S. M. per ben tre volte in iscritto, e molte più a voce non curando essere chiamato fanatico, testa calda, allarmista) non volendo, dicea, farmi rompere il bicchiere nelle mani rinunciai una carica che, ripeto, sapea disimpegnarla, ma mi era antipatica.
Che se taluno volesse in me trovar contraddizione tra quello che scrivo e ciò che ho operato, mirando che io nel 1821 cedei agli ordini del Re mio signore in Firenze che volle che io la carica riassumessi di ministro di polizia, dirò che lo stesso fine del bene del mio paese mi fece fare quel secondo sagrificio. Mirava la necessità d'introdurre uomini voracissimi nella mia povera patria!! Mi figurava farceli stare poco. Questo pensiero manifestato, rovinò tutti i miei patriottici disegni.
Non può esservi più grave errore di quello generalmente adottato da molti moderni politici, quello cioè di credere che gli uomini veramente tristi, come sono i settari e falsi liberali, in seguito di misure che loro dispiacciono possono diventare maggiormente nemici del governo. Questo errore nasce dalla crassa ignoranza, in cui gli uomini della nostra età sono delle scienze morali. Conciossiacché gli etici filosofi insegnano che quando l'uomo è arrivato ad un certo grado di passione, non può andare più oltre. Ciò che solo può accadere è che gli uomini perversi del movimento o per timore o per accresciuta irritazione possono un mese una settimana prima far ciò che avevano prefisso e stabilito fare dopo l'elasso di altro tempo. Ma non saranno taluni politici atti a comprendere che ciò, anziché male, è un vero e positivo bene? Tutto ciò che è immaturo deve avere un esito infelice. E in vero perché le rivoluzioni hanno fatto sempre fiasco? Per la sola ragione che i somari settarii si sono affrettati sempre.
Ancora calunnioso lo storico (si parla ancora, ovviamente, di Pietro Colletta N.d.C.) viene dimostrato dal conosciuto sistema del Principe di Canosa. Che la sovrana liberalesca canaglia lo voglia accreditare come feroce va benissimo. Ciò conviene alle mire delle sette; che lo stesso proclamino tutti quei sciocconi (anche non rivoluzionarii) i quali, senza causa di scienza, ripetono ciò che hanno sentito proclamare; pazienza, ciò è nella natura imperfettissima del volgo: che voglia sostenersi sul serio che io sia feroce, che abbia fatto correre il sangue a rivi; che abbia spente mille vite come dice il buffone Colletta è la maggiore di tutte le menzogne, smentita da tutti i fatti. Ma non che il mio temperamento mi fa essere nemico fisicamente del sangue (ariserba de' momenti di escandescenza) ma i miei studi mi hanno convinto e persuaso, che lo spargimento del sangue non è rimedio indicato per le infermità di opinioni. Il sangue fa i martiri; e gli esilii rendono i rivoluzionari più pericolosi, perché li trasmutano in apostoli del partito. "Trajanus cum videret Christianissimum per tormenta augeri noluit alterius in Cristianos inquiri" disse Plinio nel suo panegirico a Trajano. Dunque io per carattere morale e fisico per istudii fatti sulla materia e per lunga esperienza, anziché ferocissimo, come dicono gli asini liberali sono stato invece sempre indulgentissimo.
La massima delle pene alla quale si possono e si devono assoggettare i delinquenti per opinioni criminose, dev'essere il disprezzo ed il ridicolo, in cui si devono far cadere in tutti modi. Ciò poi che conduce le trame rivoluzionarie ad una perfetta paralisi; il rimedio vero che non avrebbe fatto parlare più di rivoluzioni è quello di togliere a tutti i dilettanti e professori e mercadanti di rivolte ed opinioni, ogni influenza civile. Il germe della ribellione sbucciò più rigoglioso dopo la restaurazione, perché si lasciò ai rivoluzionarii tutta l'antica influenza nello stato civile, superiore di molto a quelle che aver potessero i legittimisti e gli uomini leali e di onore. L'influenza dunque da un lato; il nullo timore di pena dall'altro (nel caso andasse fallito il colpo, per la conosciuta stazionaria teoria dell'obblio ed amnistia) fece venire il prurito di nuove rivoluzioni; e loro si rese facile concertarle e portarle innanzi per quella grande influenza lasciata a falsi liberali, non che i grandi mezzi che aveano per nudrirle e farle progredire, mentre gli uomini attaccati all'altare ed alla legittimità non erano nella debita proporzione muniti di mezzi per fare loro la guerra di contromine.
Di me potrebbe dirsi come l'abate Proyart disse di Luigi XVI. Detronizzato prima di ascendere al trono. Né a me (che li conosco assai) isfuggirono le trame fino da che venni da Pisa chiamato dal fu Ferdinando in Firenze. Le conobbi benissimo e tutto dissi a D. Alvaro Ruffo, raccomandando al lupo la conservazione delle pecore. Siccome però a me non importava punto rimanere Ministro di Polizia (carica come dissi sempre a me antipatica) così non reagii punto, ed ogni reazione sarebbe stata ancora inutile. Molti difatti devono come e quanto me conoscere l'indole, la forza, l'influenza delle società segrete, e questi godere la piena fiducia de' Monarchi, a' quali spettava paralizzarla.
Tremò la Massoneria al primo sentirmi eletto Ministro della Polizia in Napoli. Fece tutti i suoi sforzi per impedire una tale scelta. Essa però si trovò impotente e frastornata.
Spaventava maggiormente i massoni il mio dimostrato carattere. Essi non ignoravano le seduzioni che avea avute da Saliceti, da Giuseppe Bonaparte e da Gioacomino. Più che ogni altro essi vennero atterriti dal ritornare che feci in Sant'Elmo, quando mandato ambasciatore dei francesi all'ammiraglio Nelson, dopo aver perorato contro l'oggetto della mia missione, ritornai tra quei nemici che mi avevano anticipatamente condannato alla morte. Questo tratto di buona fede in un'età tanto disonorata e corrotta, colpito aveva ancora i miei nemici, per cui i veri liberali moltissimo mi rispettavano. Cosa poter sperare da uomo di tale pasta? dicea in Firenze un reverendissimo tuttora (ai ciechi) invisibile!!
I Pifferi della Montagna, ch'erano comparsi tre mesi prima della ribellione del 1820 aveano reso la mia riputazione troppo colossale, mentre veniva riguardato come un Profeta, ed uno de' pochissimi (ed era troppo vero, se mi avessero fatto agire liberamente). Ogni discorso dunque che veniva introdotto contre me veniva respinto come un parlare di persona sospetta. Per poche settimane divenni l'uomo di moda, e da tutti (coloro che non partecipavano ai segreti massonici) riguardato con il maggior rispetto: Ecco dunque che non poterono punto frastornare il mio novello inalzamento.
Trattare debitamente un tale argomento non è di questo luogo né del presente momento. Serviranno questi pochi cenni per avvertire gli uomini che hanno perduto ogni sinderesi; e spensierati né del passato si rammentano, e vivono come non andassero incontro ad uno spaventoso futuro, che sopra questa terra permette Iddio che esiste un Uomo, il quale può contro essi anticipare quell'universal giudizio spaventevole che farà imbrividire tutti gli iniqui, gli oppressori ed ingiusti.

Ove non vi è Monarca non vi è nobiltà. Ove non vi è nobiltà non vi è Monarca, ma si ha uno stato popolare o dispotico. Ecco ciò che dicea e scrivea nello scorso secolo il dotto autore dello spirito delle leggi. Ecco quello che scrivea uno non profano a quella filosofia negativa che ridusse la specie umana in uno stato, a quello degli stessi bruti, inferiore.
L'aristocrazia, la madre delle generose azioni e dell'eroismo, è dunque tanto essenziale alla monarchia moderata, che senza aristocrazia non può sussistere monarchico reggimento. Unitamente a tutti i politici disse ciò il medesimo Montesquieu, il quale vaticinò la caduta della monarchia francese molti anni prima che seguisse, e ne prognosticò il rovescio, solo perché i magistrati di quella nazione (che in corpo erano giacobini, come si dice del manicheismo prima di Manete) cercavano distruggere l'aristocrazia tanto sacerdotale che patrizia. "Certuni magistrati di un grande stato europeo da molto tempo cercano distruggere la giurisdizione patrimoniale degli ecclesiastici e dei signori. Non cerchiamo censurare (perché era della lega) così saggi magistrati, ma lasciamo indeciso fino a quel segno ne sarà cangiata la costituzione".
Se dunque alla monarchia è necessaria la nobiltà, e se distrutta la giurisdizione patrimoniale del clero e della nobiltà deve per forza della natura delle cose venire distrutta la monarchia, se il principe di Canosa era aristocratico, lo era perché fedele alla monarchia, e non ad essa ribelle, come sogna il nostro canta storie. Volea l'aristocrazia come necessaria alla difesa del re contro le macchinazioni demagogiche, non per sostituire il governo aristocratico al regio. Egualmente avverso il principe di Canosa tanto al dispotismo quanto alla licenza popolare, era attaccatissimo alle diverse classi aristocratiche e differenti ordini dello stato, riguardando in essi tanti argini alla licenza popolare, che, tutti uniti, agendo di concerto venivano a formare un fiume che, circondando il trono della monarchia moderata, impediva l'accesso tanto al dispotismo che alla tirannide popolare.
Il baronaggio, che era l'istituzione la più atta alla difesa della monarchia (però la più odiata dal manicheismo innanzi Manete, ovvero dai dilettanti di democrazia innanzi la rivoluzione francese), il baronaggio, io dico, resosi un poco troppo potente, diede qualche volta a pensare ai Re, facendoli talvolta impallidire sullo stesso di loro trono. Questo era un eccesso ed un abuso. Ma di che non abusa l'uomo! Quali possono essere le umane istituzioni perfette! e quali quelle che col corso del tempo non vengano ad atterrarsi!!?
A porre riparo ad un tale grave disordine i più saggi monarchi crearono una classe che, posta a fronte del baronaggio, lo tenesse in iscacco, e ne rendesse meno terribile l'influenza potentissima. Questa classe fu quella degli uomini di toga e dei dottori in legge, quella precisamente che in Napoli chiamavasi paglietti. Questo gran pensiero, figlio delle più profonde riflessioni dei politici regi, ebbe il compiuto desiderato effetto. Il corpo de' togati divenne un tale contrappeso al potere de' baroni, che già da gran tempo, utilissimi rimasero alla monarchia (come si osservò nell'epoca della rivoluzione di Masaniello e nella guerra di Velletri per citare due soli esempi) senza menomare o intimorire il potere monarchico moderato.
Se però col tempo degenerò l'istituzione feudale, degenerò egualmente quella che, formata dagli uomini di toga e di legge, se gli era posta incontro per menomarne l'influenza ed il potere. I togati andando troppo in là, col perpetuo contraddire ed abbassare l'orgoglio de' baroni, ne resero una classe di poltroni, ed inutili in conseguenza al re, al popolo, alla monarchia. Il fiume che circondava i piedi del trono venne con questa politica a seccarsi, per cui libero si rese il passo tanto al dispotismo che all'audacia popolare.
Un tale argomento porterebbe una lunga disamina e sarà uno di quelli che tratterò nelle mie opere inedite. Per ora mi restringerò a dire che, entrata nello spirito de' paglietti, già da gran tempo, la smania dell'eguaglianza, dopo che riuscirono avvilire i baroni, passarono ad attaccare la nobiltà ne' suoi diritti e privilegi che la rendeva (per proprio interesse ereditario) così ligia del potere monarchico ereditario. E siccome più o meno da monarchi poco politici e da' paglietti, nemici di tutto e di tutti (fuorché della propria borsa) una tale operazione venne più o meno praticata in tutta l'Italia, così quei baroni e que' nobili che aveano per lo passato dato a' diversi regni tanti eroi in fedeltà e valore, e che resi avevano a' monarchi i più segnalati servigi, combattendo strenuamente gli avversarii di loro tanto esterni che intestini, si resero una classe di poltroni egoisti, ed in seguito (spogliati di tutti i loro dritti, privilegi, ricchezze) di nemici, in talune monarchie in particolare ove aveano maggiormente sofferto.
Tutto questo corso di vita politica delle diverse istituzioni e classi dello stato le avea io studiato con tutta la possibile riflessione sulla storia del mio paese. Posto ciò, conoscendo molto bene quanto valere poteano i miei colleghi baroni tanto che patrizii, ancora che fossi stato un fellone (come mi caratterizza lo storico mendace e buffone) ed un ribelle, avrei dovuto essere assai poco calcolatore, onde supporre che in tempi tanto burrascosi fossero i patrizi napoletani capaci di reggere alla bufera della più gran forza, ponendosi alla testa di un governo aristocratico.

Quanti sono i mali civili che affliggono tutte le società europee nell'età in cui viviamo, sono tutti conseguenze dell'anatemizzata massoneria, della congiura de' filosofi miscredenti, della rivoluzione per dirlo in una sola parola. Lo stupendo per altro, e ciò che è degno veramente della morale del buon senso del secolo del progresso de' lumi, è, che coloro che seguono le massime e le dottrine negative di que' filosofi del secolo XVIII; quelli che, a' mali presenti dai quali vengono afflitte le società europee, il doppio, il triplo, del centesimo di maggiori mali le aggraverebbero, per solo guadagnare pochi zecchini, sono quelli per l'appunto che il Papa, i Cardinali, il clero, i cenobiti, ed in particolare i Gesuiti incolpano di tutti que' malanni dei quali la sola vera unica colpa non sono che essi esclusivamente.
Fu nel 1787 che io, uscito dal collegio Nazareno (ove compii i miei studii di filosofia) entrai nella grande scena del mondo, in seguito di essere stato per due anni nella città di Canosa coi miei buoni genitori. Che bella cosa era il mondo allora sotto il tiranno Ferdinando IV e sotto il giogo della superstizione di tanti frati e preti intolleranti e fanatici! La maledetta filosofia avea principato in verità a fare le sue stragi (appunto per la soverchia tolleranza e dolcezza del governo temporale, come del potere spirituale); queste però non aveano attaccato la massa sociale. Andando col saggio ed imponente mio genitore nelle grandi conversazioni, egli mi notava a dito i frammassoni conosciuti ed i dottori in miscredenza, e diceami: "Con quelli non farai discorso giammai; con quello non ti assoderai, evitandone ancora l'incontro e negandogli il saluto. Sono frammassoni, sono nemici del Papa (allora era ancora un segreto sconosciuto l'essere nemico del Re). Sono senza religione e scostumati".
Che bella cosa era mai Napoli sotto la tirannide e il regno della benefica superstizione. Non si pagava nulla sulle terre; pochissimo pagavano i Baroni; le gabelle erano mitissime. Ciascuno potea fare ciò che voleva. I passaporti non erano che una pura e vera formalità. Tutte le più esatte regole usavansi nell'inquirire dalla giustizia criminale; ed uomini dottissimi e venerandi mi rammento esser quelli che giudicavano e presiedevano alla custodia della sicurezza e della proprietà de' cittadini. Si volle stare meglio; cioè la filosofica canaglia, la quale sotto il salvocondotto della libertà ed eguaglianza volea occupare il posto dei Re e dei Signori (servendosi delle braccia della sconsigliata gioventù e della canaglia rapace) guastò tutto, tutto il bene disparve con il senso comune; né età al mondo più infelice e miserabile vide mai la terra, che quella succeduta alla maledetta filosofica rivoluzione. Al presente si miri Vienna e quei paesi che non vennero sconvolti dal rivoluzionario contagio!
Uno de' peggiori malanni, di cui siamo debitori alla maledetta rivoluzione figlia primogenita del progresso de' lumi, si è il pesantissimo, molesto e spesso tirannico magistrato della polizia. Chi è entrato in una tale putrida pozzanghera è solo capace conoscere quali sconcerti, inconvenienti, danni gravissimi non vengono prodotti dalla istituzione della polizia. Ma come si fa? Cosa ci entrano i poveri Sovrani legittimi! Essi sono tutti (senza quasi eccezione alla nostra età) ottimi, ne sarebbe (come le mille volte ho ripetuto nelle mie opere) dell'interesse di loro esser cattivi, come lo devono, per la ragione de' contrarii, esserlo gli usurpatori ed ogni rivoluzionario reggimento. Non sono difatti stati essi giammai che inventarono o stabilirono questa nocevole magistratura. Essa è figlia di quella rivoluzione che ci prometteva felicità e rigenerazione. I sovrani legittimi altro non hanno fatto che conservarla, e perché? Quelli scellerati, i quali (fino i regicidi!!!) dopo essere stati perdonati di un numero pressoché infinito di misfatti, dopo essere stati di beneficenza ricolmati, congiurando ed intrigando ancora contro i sovrani legittimi di loro benefattori, minacciarono, come minacciano sempre il Potere. Il molestissimo e pesante magistrato di polizia si rese dunque tanto necessario quanto la cura del sublimato e dell'arsenico per coloro, pe' quali altro rimedio non rimane per prolungare la vita. Se dunque il magistrato di polizia fu tutto di liberalesca istituzione, la conservazione di questo mostro civile è tutta dovuta alla pervicacia, ostinazione, incorreggibilità dell'ostinata liberalesca ingratissima canaglia.

Halloween, modernismo e raggiri demoniaci

Halloween, modernismo e raggiri demoniaci

Nel breve studio “La seduzione del demonio e la stregoneria: ”[1], ho cercato di far comprendere al lettore, senza spaventare o enfatizzare, quali insidie di origine diabolica pervadono- anche solo intrinsecamente- lo spirito di Halloween, ovvero lo scimmiottamento pagano di Ognissanti- “All Hallows Eve day”[2]; esaltazione anche simbolica del male in Halloween che si contrappone con evidenza alla propagazione della Fede cattolica e della retta Liturgia, del Bene. Definito il concetto di “errorum tenebris”, ovvero quel profondo baratro nel quale sprofonda- genericamente- l’uomo contemporaneo, resosi volontariamente quasi incapace di distinguere il Bene dal male, ho seguito questo schema:
a) Contro l’“errorum tenebris”; b) L’uomo moderno dice no a Dio e si ad Halloween; c) Stregoneria, magia e superstizione; d) Non esiste magia buona o “bianca”; e) Attenzione ai presunti “veggenti”; f) Cristo, la Chiesa e la lotta a stregoni, maghi e presunti “veggenti”; g) Conclusione e misure contro-Halloween.
Posto che gli interessati possono approfondire e comprendere meglio il dramma leggendo lo studio su accennato, vorrei concentrare le attenzioni sulla necessità di contrastare cristianamente ogni forma di paganesimo cominciando da quello “ostentato”; è opportuno che uno Stato che si voglia definire “giusto”, debba disincentivare con ogni mezzo lecito il propagarsi di qualsivoglia superstizione o apologia ad essa, come nel caso di Halloween (“” --> “” --> “Sacrificio o maledizione”[3]).
La natura intrinsecamente diabolica della ricorrenza si palesa con tutta la sua pericolosità specialmente in Inghilterra, dove varie “chiese” protestanti addirittura celebrano e ricordano Halloween sottintendendo l’esaltazione della “”[4], una peste, e dell’eresiarca Lutero, un vero persecutore, che- si apprende anche da suor Serafina Micheli se pure ce ne fosse bisogno[5]- brucia nelle fiamme dell’Inferno. Il 31 ottobre 1517 il frate agostiniano Martin Lutero affiggeva le sue 95 tesi sul portone della chiesa di Wittenberg (Germania) dando così inizio allo Scisma protestate.

GOVERNO DI DIO E “GOVERNI DI SATANA”

Il tema è molto delicato poiché vede contrapporsi da un lato la moderna concezione di Stato, ovvero i Governanti che si sentono autorizzati da altri uomini a promulgare ed applicare anche l’errore ed il male; dall’altro la concezione di Stato che viene da Dio, che quindi- al contrario dei Primi- vuole Principi e Governati che hanno il male in abominazione, hanno  il dovere di contrastare con ogni misura lecita proprio l’errore ed il male stesso. Gli uni contro gli altri.
Quando i Primi- purtroppo fortemente incentivati se non addirittura “definiti”[6] da ambienti protestanti (“Modernismo”) all’interno di quella Società che al medio conoscitore della materia può sembrare parte della Chiesa cattolica- sovrastano numericamente i  Secondi, ma senza che nessuno denunci tale inversione, ciò vuol dire che oggigiorno c’è qualcosa che non va e che l’errore delle tenebre offusca maggiormente la mente dell’uomo che trascura di informarsi o si informa male. Ricorreremo, dunque, all’aiuto del “Dottore Angelico”, ovvero San Tommaso d’Aquino, per dirimere la questione definitivamente da un punto di vista filosofico e dottrinale.
Manifestazioni di neo-paganesimo e di superstizione quali Halloween, vanno combattute dagli Stati con ogni mezzo gradito a Dio?

CARATTERE VINCOLANTE DELLA TOMISTICA

La filosofia scolastica e la dottrina tomistica, differentemente da quello che oggi si legge, hanno un loro “carattere vincolante”, ma purtroppo attualmente certe verità sono intenzionalmente taciute se non addirittura rinnegate poiché rappresentano un ostacolo invalicabile contro le eresie del “Modernismo”. San Pio X, per esempio, nell’Enciclica “Pascendi Dominici Gregis”[7]:
Degli ostacoli, tre sono i principali che più sentono opposti ai loro conati [dei Modernisti]: il metodo scolastico di ragionare, l'autorità dei Padri con la tradizione, il magistero ecclesiastico. Contro tutto questo la loro lotta è accanita. Deridono perciò continuamente e disprezzano la filosofia e la teologia scolastica ... certo si è che la smania di novità va sempre in essi congiunta coll'odio della Scolastica; né vi ha indizio più manifesto che taluno cominci a volgere al modernismo, che quando incominci ad aborrire la Scolastica. Ricordino i modernisti e quanti li favoriscono la condanna che Pio IX inflisse alla proposizione (Sillabo, Prop. 12) ...
Nell’Enciclica “Studiorum Ducem”[8] di Papa Pio XI, il Pontefice vuole che le cose stabilite dai suoi predecessori Leone XIII e San Pio X e da Egli stesso comandate nel 1922[9] su San Tommaso d’Aquino e sulla Scolastica:
... siano attentamente e inviolabilmente osservate specialmente da coloro che nelle scuole del clero insegnano le materie superiori. Essi tengano presente che soddisferanno bene ai loro doveri e compiranno i Nostri voti se, cominciando ad amare il Dottore d’Aquino e rendendo a sé familiari i suoi scritti, comunicheranno agli alunni della propria disciplina questo ardente amore, facendosi interpreti del suo pensiero, e li renderanno capaci di eccitare negli altri un eguale ardore ...
Papa Pio XI si riferiva alla sua “Officiorum omnium” del 1° agosto 1922, alla lettera Enciclica “Aeterni Patris”[10] di Papa Leone XIII ed al Motu proprio “Doctoris Angelici”[11] di Papa San Pio X. Senza lo studio della Scolastica e della “Summa Theologiae” nelle facoltà teologiche, San Pio X impone ed infligge una pena: “l’invalidità dei gradi accademici”.

BREVISSIMI CENNI SUL “MODERNISMO”

Praticamente la quasi totalità dei “teologi”, dei “religiosi/preti” e degli “educatori” contemporanei- meglio noti come “Modernisti”- si può dire che sono degli ingannatori e/o ingannati, poiché attualmente e da circa 50 anni la Scolastica è vituperata e osteggiata  nei seminari, per favorire probabilmente l’insegnamento della “sintesi di tutte le eresie” che è il “Modernismo”.
Abbiamo tuttavia una certezza: i “Modernisti” ostinati, ovvero i consapevoli e reprobi, sono esclusi dalla “Comunione dei Santi”, quindi sono “fuori dalla Chiesa cattolica”, in quanto “battezzati che si ostinano a non credere qualche verità rivelata da Dio e insegnata dalla Chiesa stessa”[12]; pertanto possiamo solo pregare per la loro conversione ma dobbiamo sapere ed abbiamo il dovere di dire che costoro debbono “secondo l’ordine di Dio, ritenersi etnici e pubblicani”, poiché “ricusano di ascoltare la Chiesa” e quindi “quelli che son tra loro divisi per ragioni di fede o di governo, non possono vivere nell’unita di tale Corpo e per conseguenza neppure nel suo divino Spirito”[13].

COSA VOGLIO DIRE?

Quando un cattolico si trova a dialogare (ovvero a litigare) con un “Modernista”- anche se questi si presenta come presunto “sacerdote”, “teologo”, “educatore”, “vescovo”, “papa” della Chiesa cattolica, e ciò “non fa meraviglia, perché anche satana si maschera da angelo di luce” (2Cor 11,14)- l’uomo di fede integra non deve adirarsi mai più del consentito ma, posti i primi dialoghi di apologetica ragionata e consapevole, se si rende conto che dall’altra parte c’è un cuore indurito, deve seguire l’indicazione di San Giovanni:
... chi va oltre e non si attiene alla dottrina del Cristo, non possiede Dio. Chi si attiene alla dottrina, possiede il Padre e il Figlio. Se qualcuno viene a voi e non porta questo insegnamento, non ricevetelo in casa e non salutatelo; poiché chi lo saluta partecipa alle sue opere perverse. (2Gv 9-11)
Se quindi anche “noi un tempo eravamo insensati ... degni di odio” (Tt 3,3), dobbiamo seguire attentamente l’esortazione di San Giovanni proprio per evitare che il nostro amore per Dio muti invece in peccato e odio verso il “Modernista” che solitamente è insensato, prevaricatore e sobillatore; questi probabilmente invidia la nostra fede, che lui non possiede, quindi è ispirato dal maligno e tenta in tutti i modi di farci “partecipare alle sue opere perverse”, anche provocando in noi reazioni sgradite.
Coloro che “si son vendicati con animo pieno di odio e si son dati a sterminare, mossi da antico rancore”, dice il Signore: “... farò su di loro terribili vendette, castighi furiosi, e sapranno che io sono il Signore, quando eseguirò su di loro la vendetta”. (Ez 25,15-17)

COME RICONOSCERE UN “MODERNISTA”?

Anzitutto probabilmente lo vedremo farsi apologeta della superstizione in Halloween (consapevole? A noi poco importa), ma nel descrivere e definire il “Modernismo”, quindi anche l’anti-Scolastica, San Pio X nella “Pascendi Dominici Gregis”:
... quando parlasi di modernismo, non parlasi di vaghe dottrine non unite da alcun nesso, ma di un unico corpo e ben compatto, ove chi una cosa ammetta uopo è che accetti tutto il rimanente. Perciò abbiam voluto altresì far uso di una forma quasi didattica, né abbiamo ricusato il barbaro linguaggio onde i modernisti fanno uso. Ora, se quasi di un solo sguardo abbracciamo l'intero sistema, niuno si stupirà ove Noi lo definiamo, affermando esser esso la sintesi di tutte le eresie.
Abbiamo appreso che è “sintesi di tutte le eresie”, il che può generare timore nel cattolico meno ferrato. Posto che prima di “combattere la buona battaglia” (1Tm 6,12) è necessario fortificare lo spirito ed è opportuno preparare la cultura- per poter poi un giorno dire con San Paolo “ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede” (2Tm 4-7)-  c’è un modo eclatante per smascherare- in linea di massima- il “Modernista” contemporaneo, quindi avere certezza che trattasi di un protestante (non di un Cattolico) bisognoso di cure pastorali e di preghiere; ci illumina Papa Pio XI nella “Mortalium Animos”[14]:
Potrà sembrare che questi pancristiani, tutti occupati nell’unire le chiese, tendano al fine nobilissimo di fomentare la carità fra tutti i cristiani; ma come mai potrebbe la carità riuscire in danno della fede? Nessuno certamente ignora che lo stesso apostolo della carità, San Giovanni (il quale nel suo Vangelo pare abbia svelato i segreti del Cuore sacratissimo di Gesù che sempre soleva inculcare ai discepoli il nuovo comandamento: «Amatevi l’un l’altro»), ha vietato assolutamente di avere rapporti con coloro i quali non professano intera ed incorrotta la dottrina di Cristo: «Se qualcuno viene da voi e non porta questa dottrina, non ricevetelo in casa e non salutatelo nemmeno». Quindi, appoggiandosi la carità, come su fondamento, sulla fede integra e sincera, è necessario che i discepoli di Cristo siano principalmente uniti dal vincolo dell’unità della fede.

TOMISTICA E “MODERNISMO”?

Il “carattere vincolante” della Tomistica è definito il 29 giugno del 1923 da Papa Pio XI nell’Enciclica “Studiorum Ducem”:
Fra i cultori di San Tommaso, quali devono essere tutti i figli della Chiesa che attendono ai buoni studi, Noi certamente vogliamo che, nei limiti di una giusta libertà, vi sia quella bella emulazione che fa progredire i buoni studi, ma desideriamo che sia il più possibile evitata quell’asprezza di contrasto che non giova alla verità e serve soltanto a rallentare i vincoli della carità. Sia adunque da tutti inviolabilmente osservato ciò che è prescritto nel Codice di Diritto Canonico: «Gli studi della filosofia razionale e della teologia, e l’istruzione degli alunni in tali discipline, siano assolutamente trattati dai professori secondo il metodo, la dottrina e i principii del Dottore Angelico, e questi siano religiosamente mantenuti»[15]. Essi si regolino in modo da poterlo con tutta verità chiamare loro maestro.
Come dunque un giorno fu detto agli Egiziani, nel loro estremo bisogno di vivere, «Andate da Giuseppe» perché avessero da lui in abbondanza il frumento per alimentare il loro corpo, così ora a tutti gli affamati di verità Noi diciamo: «Andate da Tommaso» per aver da lui, che ne ha tanta abbondanza, il pascolo della sana dottrina e il nutrimento delle loro anime per la vita eterna. Che un tal cibo sia pronto e alla portata di tutti fu attestato con la santità del giuramento quando si trattò di ascrivere Tommaso nel catalogo dei Santi: «Alla scuola luminosa ed aperta di questo Dottore fiorirono moltissimi maestri religiosi e secolari per il suo modo succinto, facile, e chiaro … ed anche laici ed uomini di scarsa intelligenza desiderano avere i suoi scritti».
Come è evidente, i “Modernisti” non dicono “andate da Giuseppe” o “andate da Tommaso”, ma dicono “andate da Satana” e dagli “uomini di quasi insestente intelligenza”, poiché si legge che anche gli “uomini di scarsa intelligenza” vanno da San Tommaso.

CHE COS’È UNO STATO? CHE COS’È UN GOVERNO?

Secondo la dottrina cattolica ricordata da San Tommaso D’Aquino- qui “esaltato”- la Potestà umana viene da Dio, pertanto l’uomo che esclude gli ordini di una Potestà, oggi diremmo di un Governo in uno Stato, resiste all’ordine di Dio stesso; tuttavia un Governo che non opera secondo le leggi di Dio, non “appartiene” propriamente a Dio, quindi alla Potestà adulterata di quel tale Governo iniquo corrisponde una Autorità presumibilmente usurpata e comunque di “iniquo agente”.[16]
La legge umana in tanto ha natura di legge, in quanto si uniforma alla retta ragione: e in tal senso deriva evidentemente dalla legge eterna. Ma quando si scosta dalla ragione, codesta legge è iniqua: e allora non ha natura di legge, ma piuttosto di violenza. - Tuttavia anche la legge iniqua, per quell'aspetto che salva le apparenze di legge, e cioè per il potere di colui che la emana, ha una derivazione dalla legge eterna: poiché, a detta di San Paolo, “ogni potestà viene da Dio”.
Attenzione, qui l’Aquinate non vuol presentare assolutamente un concetto meramente formalistico della legge, egli ha intenzione di denunciare le “iniquità legalizzate” che sconvolgono le Nazioni ed attirano i castighi di Dio, unitamente agli “uomini iniqui” che sono “agente nel legiferare”.
Dalla legge eterna non può provenire niente di iniquo, poiché «eterna è quella legge secondo la quale è giusto che tutte le cose siano ordinate in massimo grado», tuttavia certe leggi umane sono inique, secondo Isaia (10,1): «Guai a coloro che fanno leggi inique»; non ogni legge proviene dalla legge eterna.
Essendo dunque la legge eterna criterio di governo esistente nel governante supremo, è necessario che tutti i criteri di governo che sono nei governanti inferiori derivino dalla legge eterna. Di conseguenza tutte le leggi, nella misura in cui partecipano della retta ragione, derivano dalla legge eterna. E per questo Agostino dice, nel primo libro del De Libero Arbitrio che «nella legge temporale niente è giusto e legittimo, se non quanto gli uomini hanno derivato dalla legge eterna».

GOVERNO, SOCIETÀ, STATO, NAZIONE

SOCIETÀ[17] - Unione di persone che si propongono un fine comune, obbligandosi a valersi dei medesimi mezzi necessari per conseguirlo. La natura specifica di ogni Società umana dipende dal FINE voluto dai suoi membri. Ora, tutte le Società possibili sono derivazioni particolari delle tre originarie fondate sulla natura: coniugale, familiare e civile, attraverso le quali l'individuo tende al pieno sviluppo delle sue energie nell'appagamento di tutte le esigenze relative al grado di evoluzione culturale raggiunto. Nelle attuali condizioni storiche, il Cristianesimo aggiunge alla Società civile quella eminentemente religiosa: la Chiesa fondata da Cristo come strumento di realizzazione di valori che integrano e trascendono tutti quelli d'ordine esclusivamente naturale, umano. 
Sostanzialmente quando un gruppo di persone o più famiglie si uniscono in una Società naturale, si suole parlare di Nazione; le famiglie unite e coscienti della loro unità di origine, religiosa, linguistica (quasi sempre), tradizionale, culturale, di costumi, ecc ... intendono, appunto costituitisi in Nazione, difendere, conservare e sviluppare questo importante patrimonio di valori.
Tuttavia dobbiamo fare distinzione fra Nazione e Stato. Per Stato intendiamo quella Società civile, confinata in un determinato territorio, che ha una definita Autorità la quale provvede a legiferare e garantire gli interessi temporali della Società civile medesima, ovvero che vuole uno specifico regime di Governo. Uno Stato, a prescindere dalle persone che compongono la Nazione, si prefigge un dato FINE e lo difende.
Ecco dunque, seguendo gli insegnamenti delineati dal sommo San Tommaso, arriviamo al FINE di uno Stato; il FINE è il bene in virtù del quale l’agente si adopera; quando il FINE dell’agente coincide oggettivamente con quello della natura, della retta ragione, allora si può dire che è buono e quindi l’azione che produce è moralmente corretta, è degna del buon Governante o buon padre di famiglia. Ne viene, come visto, che non potrà mai esserci una legittimazione di un’azione di Governo in sé assolutamente disonesta, questo perché- come ricorda Romani 3,8- è contraria al BENE-FINE.

CONTRO HALLOWEEN

Arriviamo finalmente alla nostra conclusione. Uno Stato che si rispetti- come lo sono quasi sempre state le Monarchie occidentali che, sotto il “segno della Croce”, hanno sempre tentato di preservare le particolari Società dalle incursioni deleterie, dalle eresie e dalle barbarie- ha il dovere di operare secondo il BENE-FINE, e ciò conferisce la dovuta Autorità alla Potestà degli stessi.
Ora, ogni Governate o Principe sa bene che l’unico metodo per mantenere l’ordine e per favorire la crescita del bene nella Società che gli è affidata, è mediante la preservazione dell’etica e della legge naturale che trova la massima difesa e diffusione nel Cattolicesimo.
Occorreva ai nemici di Dio abbattere le Monarchie cattoliche dopodiché, dietro la falsa facciata di “democrazie”, era necessario occupare i posti di potere, quindi governare gli Stati per ingenerare il caos totale e quindi scimmiottare Dio; tutto questo- ed è documentato- affinché potesse essere spazzata via l’etica del buon cristiano (anche tentare di eclissare Cristo e l'Olocausto), quindi si potesse alterare il famoso BENE-FINE, senza troppi ostacoli. Il fine malefico di queste “nuove democrazie” lo si può raggiungere attraverso varie fasi che, purtroppo, si stanno puntualmente concretizzando.
Le varie apologie alla ricorrenza di Halloween, per esempio,  non sono altro che alcuni dei numerosi tasselli in questo procedimento, una sorta di “innocua festicciola” o “premio” per i cittadini ingannati, ma il fine malefico è ben altro, ovvero dare un ulteriore contributo alla tentata demolizione dell’etica cristiana e della memoria Cristo; senza fede regna il caos e nel caos alcuni progetti finali a noi poco chiari, ma chiarissimi alla Chiesa, possono essere realizzati con maggiore facilità. Ci si guardi intorno!
In tutto questo, “le porte degli inferi non prevarranno” (Mt 16,18) e, se preghiamo, diciamo la verità (anche se può sembrare cruda), siamo educati e viviamo bene (Sacramenti, Comandamenti, Precetti), possiamo essere certi che il Signore “su pascoli erbosi ci fa riposare, ad acque tranquille ci conduce” (Sal 22,2). Dio non mente, non è un “Modernista”.
Pubblicazione a cura di Carlo Di Pietro (clicca qui per leggere altri studi pubblicati)
Note:
[1] http://radiospada.org/2013/10/la-seduzione-del-demonio-e-la-stregoneria-halloween/
[2] La parola Halloween è attestata la prima volta nel XVI secolo, e rappresenta una variante scozzese del nome completo All-Hallows-Eve, cioè la notte prima di Ognissanti (in inglese arcaico All Hallows Day, moderno All Saints). Sebbene il sintagma All Hallows si ritrovi in inglese antico (ealra hālgena mæssedæg, giorno di messa di tutti i santi), All-Hallows-Eve non è attestato fino al 1556; cf. Wikipedia, v. Halloween
[3] cf. Nicholas Rogers, Halloween: From Pagan Ritual to Party Nightkl, Oxford University Press, 2001; Buonaiuto Aldo, La trappola delle sette, Sempre, 2011
[4] http://www.monergism.com/directory/link_category/MP3-Audio--Multimedia/Holiday-Sermons/Reformation-Sunday/; The General Board of Discipleship of The United Methodist Church, 10/ 2005; cf. Wikipedia, v. Halloween
[5] http://www.miliziadisanmichelearcangelo.org/content/view/2468/90/lang,it/
[6] http://radiospada.org/2013/08/sulla-liberta-religiosa-e-sulla-dignitatis-humanae/
[7] http://www.vatican.va/holy_father/pius_x/encyclicals/documents/hf_p-x_enc_19070908_pascendi-dominici-gregis_it.html
[8] http://www.vatican.va/holy_father/pius_xi/encyclicals/documents/hf_p-xi_enc_19230629_studiorum-ducem_it.html
[9] Officiorum omnium del 1° agosto 1922
[10] http://www.vatican.va/holy_father/leo_xiii/encyclicals/documents/hf_l-xiii_enc_04081879_aeterni-patris_it.html
[11 ] Con la “Doctoris Angelici”, 29 giugno del 1914, San Pio X imponeva come testo scolastico la Summa Theologiae di San Tommaso d’Aquino alle facoltà teologiche, sotto pena d’invalidarne i gradi accademici
[12] Catechismo Maggiore, San Pio X, n° 122 ss.
[13] Lettera Enciclica Mystici Corporis, Pio XII, 29 giugno 1944
[14] http://www.vatican.va/holy_father/pius_xi/encyclicals/documents/hf_p-xi_enc_19280106_mortalium-animos_it.html#_ftn18
[15] CjC 1917, Pio-Benedettino, Can. 1366, par. 2.
[16] Summa Thelogiae, Iª-IIae q. 93 a. 3 ad a, ss.
[17] Dizionario del cristianesimo, p. E. Zoffoli, Sinopsis, 1994, p. 491, v. Nazione, cf. Stato, cf. Società, cf. Fine
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“Misuse of the holocaust”, “shoah business”, leggi bavaglio e vittime sparite

Dal sito di cultura ebraica Free Ebrei:


“Misuse of the holocaust”, “shoah business”, leggi bavaglio e vittime sparite


 

auschwitz

di Andrea Giacobazzi

È ormai un episodio ciclico. Ogni anno bisogna parlare dell’“ultima proposta” di legge bavaglio studiata per reprimere il “negazionismo”.
Il copione è vecchio: seguendo l’onda emotiva di un fatto d’attualità – questa volta il “caso Priebke” – si annuncia che deve vedere la luce una legge volta a stroncare la presunta crescita di razzismo e antisemitismo. .......

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