Fonte: http://www.unsertirol24.com/
Diverse iniziative per ricordare il mastro di Marling, assassinato dagli squadristi in camicia nera il 24 aprile 1921. Presto una via in suo nome anche a Trento?
Una domenica di sangue, quella del 24 aprile 1921 a Bolzano. Un anno e mezzo prima della marcia su Roma, la faccia più nera dello squadrismo si toglieva la maschera, e lo faceva in Sudtirolo. Doveva essere una giornata di festa, con la tradizionale sfilata in costume per l’apertura della Fiera campionaria, e la presenza di gruppi e bande tradizionali, partecipanti in Tracht, donne, uomini, tanti giovani e bambini.
Ma quella mattina in città, da Trento e dall’Italia, arrivarono le camicie nere, guidate da Starace, Farinacci, De Stefani, per unirsi ai fascisti di Bolzano. Nell’assoluto immobilismo della forze dell’ordine, i futuri gerarchi guidarono l’assalto al corteo, pacifico e festante: contro le persone inermi vennero sparati colpi di pistola e di fucile, addirittura lanciate bombe a mano. Più di cinquanta persone furono ferite gravemente, una di queste morì due mesi dopo a causa delle lesioni riportate. Il maestro Franz Innerhofer venne assassinato a sangue freddo mentre tentava di proteggere un giovane scolaro.
Alle sue esequie prese parte una folla immensa, che con la propria presenza chiedeva giustizia. Ma la legge italiana non ha mai raggiunto i colpevoli, nonostante questi fossero ben noti. Il ricordo però non si spegne, e diversi sono i momenti solenni in programma in questi giorni.
Sabato a Innsbruck, alla presenza di diverse rappresentanze istituzionali, fra cui le delegazioni della SF e dell’Heimatbund, numerosi Schützen e tanti semplici cittadini, l’Andreas-Hofer-Bund Tirol ha scoperto una targa commemorativa che ha preso il posto di quella eretta nel 1923, rimossa dai nazionalsocialisti dopo l’Anschluss.
Nell’ambito delle manifestazioni per il 25 aprile a Bolzano, il corteo guidato dal sindaco renderà onore a Franz Innerhofer alle ore 10.00 nella Wangengasse.
A Trento, oggi pomeriggio dalle 17.00, il circolo culturale Michael Gaismayr allerstirà un gazebo dove raccogliere firme a sostegno della proposta di intitolare a Franz Innerhofer una via cittadina.
lunedì 24 aprile 2017
LUI NON TRADISCE I SUOI
Fonte: Trento è Tirolo - Trient ist Tirol
Questo è il Dott. Vittorio Bonapace, medico austriaco nato a Mezzolombardo (Tirolo) il 21 gennaio 1879, figlio di Antonio Bonapace e Teresa Busetti.
Medico condotto di Ravina (Trento) e Tenente del 2° Reggimento Landenschützen, caduto sul fronte orientale in Galizia il 18 marzo 1915....
Al tenente austriaco Bonapace NON vengono intitolate vie o piazze. Al cittadino Vittorio Bonapace NON vengono organizzati eventi o presentazioni teatrali. Al Dott. Bonapace NON vengono dedicati servizi televisivi o articoli di giornale.
E PERCHÉ? Perché il Dott. Bonapace non fu una spia come Cesare Battisti, non fu un deputato opportunista come Battisti, non era un traditore guerrafondaio come Battisti.
Un giorno, in una Mezzolombardo libera della retorica fascista e consapevole della propria storia, persone come Vittorio Bonapace verranno ricordate con onore e con rispetto.
E PERCHÉ? Perché il Dott. Bonapace non fu una spia come Cesare Battisti, non fu un deputato opportunista come Battisti, non era un traditore guerrafondaio come Battisti.
Un giorno, in una Mezzolombardo libera della retorica fascista e consapevole della propria storia, persone come Vittorio Bonapace verranno ricordate con onore e con rispetto.
mercoledì 12 aprile 2017
Briciole di memoria 1 – “Trentino”: una denominazione che non è mai esistita
Fonte: http://www.unsertirol24.com/
L’appuntamento settimanale con Massimo Pasqualini: aneddoti, racconti, ricordi ed immagini dal Tirolo di lingua romanza.
Lo spunto è una vecchia cartolina risalente agli anni della Prima Guerra, che fa parte della ricchissima collezione dell’amico Manuel Adami. Interessante la scritta a piè di pagina: “Es gab kein “Trentino” und es wird nie eines geben!” – Il Trentino non c’è mai stato e mai ci sarà!”
La nostra Terra si è chiamata sempre e soltanto Tirolo. Nell’uso comune la parte meridionale, che corrisponde al territorio dell’attuale provincia di Trento dove la lingua maggioritaria era ed è quella romanza, veniva talvolta chiamata Südtirol.
Il termine “Trentino” usato come riferimento geografico e non con il significato di “uomo abitante nella città di Trento”, fu impiegato per la prima volta dal cartografo veneto Isaia Ascoli nel 1863 a Milano in una sua pubblicazione, quando fu nominato rettore della locale università.
L’appuntamento settimanale con Massimo Pasqualini: aneddoti, racconti, ricordi ed immagini dal Tirolo di lingua romanza.
Lo spunto è una vecchia cartolina risalente agli anni della Prima Guerra, che fa parte della ricchissima collezione dell’amico Manuel Adami. Interessante la scritta a piè di pagina: “Es gab kein “Trentino” und es wird nie eines geben!” – Il Trentino non c’è mai stato e mai ci sarà!”
La nostra Terra si è chiamata sempre e soltanto Tirolo. Nell’uso comune la parte meridionale, che corrisponde al territorio dell’attuale provincia di Trento dove la lingua maggioritaria era ed è quella romanza, veniva talvolta chiamata Südtirol.
Il termine “Trentino” usato come riferimento geografico e non con il significato di “uomo abitante nella città di Trento”, fu impiegato per la prima volta dal cartografo veneto Isaia Ascoli nel 1863 a Milano in una sua pubblicazione, quando fu nominato rettore della locale università.
Briciole di memoria 5 – La nostra bandiera l’é gialla, l’é nera
Fonte: http://www.unsertirol24.com/
L’appuntamento settimanale con Massimo Pasqualini: aneddoti, racconti, ricordi ed immagini dal Tirolo di lingua romanza.
L’appuntamento settimanale con Massimo Pasqualini: aneddoti, racconti, ricordi ed immagini dal Tirolo di lingua romanza.
(Foto:@Enzo Cestari)
Castello Tesino, il mio paese, come tanti altri sulla linea di confine, nel maggio 1915 viene occupato dalle truppe italiane; gli abitanti sono già stati sfollati in luoghi più sicuri all’interno dell’Impero, gli ultimi rimasti vengono internati nel regno italico. Il 6 giugno 1916 il paese va a fuoco e brucia quasi completamente. I primi profughi rientrano in Tesino nei primi mesi del 1918, dopo la vittoria di Caporetto, e trovano solo rovine: tutto è bruciato, distrutto, saccheggiato.
Anche la bandiera imperiale è andata perduta, quella grande, gialla e nera, che veniva esposta nelle occasioni solenni, come il genetliaco dell’Imperatore: quello di Carlo è il 17 agosto, ma come festeggiarlo, senza bandiera?
Così, il 28 luglio 1918, il capocomune Giovanni Menato a nome di tutta la popolazione scrive a Vienna, direttamente all’Imperatore: “la poca popolazione rimasta da terra occupata da nemica potenza, vuole per la prima volta sotto l’auspice del nuovo monarca festeggiare con sfarzo il più possibile e passare la giornata con allegria come fosse presente l’imperatore… trovandoci tutti senza mobilia e anche senza abitazione che ci tolse il mezzo di procurarsi tale bandiera per cui tutti preghiamo questa I.R. autorità che ci regali una nuova bandiera che ne saremo riconoscenti verso l’Amato Imperatore”
Sembra un desiderio impossibile, la fame mina le radici stesse dell’Impero, tutto sta per crollare… e invece arrivano 12 metri di stoffa gialla e nera, appena in tempo per cucire la bandiera, grande e nuova, per esporla ed onorarla. E di nuovo il capocomune scrive, questa volta per ringraziare “della premura avuta nel farci avere la tanto gradita e domandata bandiera gialla e nera. La stessa popolazione con questo ringraziamento vorrebbe far pure vedere che fino a ora si sono mantenuti fedeli alla stessa e sono corsi molto numerosi per difenderla. Ora fanno voti nuovi di fedeltà alla Patria e al nostro Sire pregando l’Eterno di proteggere il valore delle nostre armi e coroni l’opera delle stesse con la vittoria onde si possa vedere ancora molti anni sventolare la bandiera gialla e nera dalla cima dei nostri campanili”.
Un auspicio che rimane sospeso nel tempo per quasi un secolo. Fino a che, nell’ottobre 2015, la bandiera imperiale torna a sventolare a Castello Tesino … ma è questa è un altra storia. Grazie a Franco Gioppi, che nelle sue ricerche ha ritrovato gli originali delle due lettere.
Anche la bandiera imperiale è andata perduta, quella grande, gialla e nera, che veniva esposta nelle occasioni solenni, come il genetliaco dell’Imperatore: quello di Carlo è il 17 agosto, ma come festeggiarlo, senza bandiera?
Così, il 28 luglio 1918, il capocomune Giovanni Menato a nome di tutta la popolazione scrive a Vienna, direttamente all’Imperatore: “la poca popolazione rimasta da terra occupata da nemica potenza, vuole per la prima volta sotto l’auspice del nuovo monarca festeggiare con sfarzo il più possibile e passare la giornata con allegria come fosse presente l’imperatore… trovandoci tutti senza mobilia e anche senza abitazione che ci tolse il mezzo di procurarsi tale bandiera per cui tutti preghiamo questa I.R. autorità che ci regali una nuova bandiera che ne saremo riconoscenti verso l’Amato Imperatore”
Sembra un desiderio impossibile, la fame mina le radici stesse dell’Impero, tutto sta per crollare… e invece arrivano 12 metri di stoffa gialla e nera, appena in tempo per cucire la bandiera, grande e nuova, per esporla ed onorarla. E di nuovo il capocomune scrive, questa volta per ringraziare “della premura avuta nel farci avere la tanto gradita e domandata bandiera gialla e nera. La stessa popolazione con questo ringraziamento vorrebbe far pure vedere che fino a ora si sono mantenuti fedeli alla stessa e sono corsi molto numerosi per difenderla. Ora fanno voti nuovi di fedeltà alla Patria e al nostro Sire pregando l’Eterno di proteggere il valore delle nostre armi e coroni l’opera delle stesse con la vittoria onde si possa vedere ancora molti anni sventolare la bandiera gialla e nera dalla cima dei nostri campanili”.
Un auspicio che rimane sospeso nel tempo per quasi un secolo. Fino a che, nell’ottobre 2015, la bandiera imperiale torna a sventolare a Castello Tesino … ma è questa è un altra storia. Grazie a Franco Gioppi, che nelle sue ricerche ha ritrovato gli originali delle due lettere.
domenica 9 aprile 2017
Briciole di memoria 11: Il sangue dei vinti
Fonte: http://www.unsertirol24.com/
L’appuntamento settimanale con Massimo Pasqualini: aneddoti, racconti, ricordi ed immagini dal Tirolo di lingua romanza.
La fine di ogni guerra comporta soprusi orrendi contro gli sconfitti. E’ il tragico e disumano rito del “sangue dei vinti”. Al termine della prima guerra mondiale questo accadde anche in quella parte dell’Austria (il Tirolo al sud del Brennero) che fu annessa al Regno d’Italia dopo la sconfitta dell’Impero, come conseguenza degli accordi di pace del settembre 1919.
Finita la guerra decine di migliaia di reduci dell’esercito austriaco tornarono alle loro case, chi dal fronte meridionale, chi direttamente dai monti del Tirolo dove aveva combattuto contro l’esercito italiano, chi dai campi di prigionia russi o italiani. Una pagina nera, tutta ancora da scrivere, riguarda i primi mesi che caratterizzarono la nuova situazione nazionale di quel territorio che ben presto il fascismo avrebbe ribattezzato “Venezia Tridentina”. La pressione delle forze politiche nazionaliste non fece altro che acuire l’odio contro coloro che tornavano alle loro case dopo avere combattuto per la propria Patria, l’Austria, ora indifesi sudditi di uno Stato diverso da quello per il quale avevano militato. Pensiamo alla storia, solo in minima parte analizzata, delle centinaia (migliaia?) di reduci dell’esercito austriaco spediti in campi di prigionia come quello di Isernia, dove – a quanto riportano le scarse testimonianze – patirono le pene dell’inferno.
Il capitolo della cosiddetta “italianizzazione forzata” è abbastanza noto: mi riferisco a tutto ciò che fu fatto per cancellare ogni segno dell’Austria, l’epurazione di molti lavoratori del pubblico impiego rei di avere collaborato con il “nemico”, la distruzione dei monumenti, il divieto del ricordo dei caduti in divisa austriaca, il tutto “per favorire la nascita di una memoria istituzionale, stabile e gerarchizzata, fondata sui grandi racconti della mitologia nazionale”, come ha ricordato lo storico roveretano Diego Leoni.
Non è di questo che voglio trattare: oggi voglio parlare di un capitolo più delicato che riguarda espressamente i casi di violenza contro individui in qualche modo “colpevoli” di essere stati richiamati in guerra nell’esercito del loro Stato (l’Impero Austriaco) o perché “filotirolesi” o nostalgici della monarchia asburgica. Ricordo di avere scorso qualche anno fa le pagine di un ampio volume della Polizia politica fascista, depositato presso l’Archivio di Stato di Trento, nel quale sono elencati migliaia e migliaia di nominativi di persone schedate in quanto “antinazionali”. Viene subito da chiedersi: che cosa dovettero subire? Quali pressioni psicologiche, minacce verbali e fisiche dovettero sopportare?
Una robusta ricerca storica, per quanto complessa e difficile, dovrebbe porre sotto la lente di ingrandimento un periodo che merita maggiore chiarezza, per aiutarci a capire quali furono le perverse dinamiche di quell’epoca e per consentirci di “rielaborare il conflitto”, di chiarire definitivamente in modo rigoroso le eventuali responsabilità, di quantificare il fenomeno. Porto un paio di esempi concreti di casi accaduti nella nostra Terra, limitandomi ad un territorio circoscritto alla zona tra la val di Fiemme e la val di Fassa. Oltre a questi casi, esiste probabilmente un insieme più vasto di azioni criminose che con ogni probabilità fu abilmente insabbiato dal regime fascista e la cui memoria non è potuta giungere a noi.
Il comandante Rizzi morì all’ospedale di Tesero di lì a poco, all’età di trentatrè anni (“vittima innocente d’un tumulto a Vigo”, scrissero allora gli amici sulla lapide).
Pochi chilometri più in là, un altro tragico fatto si era verificato a guerra già conclusa, il 15 novembre 1918. Lo storico Candido Degiampietro ha narrato la vicenda nel suo volume “Briciole di storia, di cronaca e momenti di vita fiemmese”. Ancora oggi, nei campi tra Cavalese e Tesero, vi è una lapide, dimenticata da molti. In quel luogo, una fredda notte di novembre, fu assassinato Alberto Paluselli di Tesero, 33 anni, caporal maggiore dell’esercito austriaco. Il Paluselli era stato decorato con la medaglia d’argento al valor militare per le azioni compiute in val di Sole (al contrario di quanto sostiene una certa vulgata storiografica, non furono certo pochi i tirolesi di lingua romanza che parteciparono militarmente anche sul fronte italo/austriaco). A guerra finita, il Paluselli era rientrato in val di Fiemme. Ben presto arrivarono gli italiani che incalzavano gli austriaci in fuga, erano gli alpini del battaglione “Feltre”. Il Paluselli, dismessa la divisa militare dell’esercito imperiale, circolava portandosi addosso sui vestiti borghesi – era quasi inverno – il cappotto militare. La sera del 15 novembre il nostro si trovava presso l’Albergo all’Ancora di Tesero, insieme ad altri reduci, quando entrarono due alpini armati di tutto punto che prelevarono il Paluselli. Si avviarono verso Cavalese. Il suo corpo fu ritrovato la mattina successiva. Solo grazie alla coraggiosa testimonianza di numerose persone di Tesero, l’anno successivo un caporale del Battaglione Alpino “Feltre”, originario della provincia di Belluno, fu condannato a vent’anni di prigione per l’omicidio.
Quelli che ho raccontato sono solo degli esempi, dietro ai quali si ha la sensazione, per non dire la certezza, che si nasconda uno scenario di vendette pesanti (omicidi compresi) che contribuirono a creare un clima di terrore nelle decine di migliaia di reduci dell’esercito austriaco e nelle loro famiglie. Agli storici il compito di fare luce, non per riaprire ferite, beninteso, ma per accertare la verità e ricomporre il quadro di un’epoca che ha così pesantemente stravolto questa nostra Terra.
L’appuntamento settimanale con Massimo Pasqualini: aneddoti, racconti, ricordi ed immagini dal Tirolo di lingua romanza.
La fine di ogni guerra comporta soprusi orrendi contro gli sconfitti. E’ il tragico e disumano rito del “sangue dei vinti”. Al termine della prima guerra mondiale questo accadde anche in quella parte dell’Austria (il Tirolo al sud del Brennero) che fu annessa al Regno d’Italia dopo la sconfitta dell’Impero, come conseguenza degli accordi di pace del settembre 1919.
Finita la guerra decine di migliaia di reduci dell’esercito austriaco tornarono alle loro case, chi dal fronte meridionale, chi direttamente dai monti del Tirolo dove aveva combattuto contro l’esercito italiano, chi dai campi di prigionia russi o italiani. Una pagina nera, tutta ancora da scrivere, riguarda i primi mesi che caratterizzarono la nuova situazione nazionale di quel territorio che ben presto il fascismo avrebbe ribattezzato “Venezia Tridentina”. La pressione delle forze politiche nazionaliste non fece altro che acuire l’odio contro coloro che tornavano alle loro case dopo avere combattuto per la propria Patria, l’Austria, ora indifesi sudditi di uno Stato diverso da quello per il quale avevano militato. Pensiamo alla storia, solo in minima parte analizzata, delle centinaia (migliaia?) di reduci dell’esercito austriaco spediti in campi di prigionia come quello di Isernia, dove – a quanto riportano le scarse testimonianze – patirono le pene dell’inferno.
Il capitolo della cosiddetta “italianizzazione forzata” è abbastanza noto: mi riferisco a tutto ciò che fu fatto per cancellare ogni segno dell’Austria, l’epurazione di molti lavoratori del pubblico impiego rei di avere collaborato con il “nemico”, la distruzione dei monumenti, il divieto del ricordo dei caduti in divisa austriaca, il tutto “per favorire la nascita di una memoria istituzionale, stabile e gerarchizzata, fondata sui grandi racconti della mitologia nazionale”, come ha ricordato lo storico roveretano Diego Leoni.
Non è di questo che voglio trattare: oggi voglio parlare di un capitolo più delicato che riguarda espressamente i casi di violenza contro individui in qualche modo “colpevoli” di essere stati richiamati in guerra nell’esercito del loro Stato (l’Impero Austriaco) o perché “filotirolesi” o nostalgici della monarchia asburgica. Ricordo di avere scorso qualche anno fa le pagine di un ampio volume della Polizia politica fascista, depositato presso l’Archivio di Stato di Trento, nel quale sono elencati migliaia e migliaia di nominativi di persone schedate in quanto “antinazionali”. Viene subito da chiedersi: che cosa dovettero subire? Quali pressioni psicologiche, minacce verbali e fisiche dovettero sopportare?
Una robusta ricerca storica, per quanto complessa e difficile, dovrebbe porre sotto la lente di ingrandimento un periodo che merita maggiore chiarezza, per aiutarci a capire quali furono le perverse dinamiche di quell’epoca e per consentirci di “rielaborare il conflitto”, di chiarire definitivamente in modo rigoroso le eventuali responsabilità, di quantificare il fenomeno. Porto un paio di esempi concreti di casi accaduti nella nostra Terra, limitandomi ad un territorio circoscritto alla zona tra la val di Fiemme e la val di Fassa. Oltre a questi casi, esiste probabilmente un insieme più vasto di azioni criminose che con ogni probabilità fu abilmente insabbiato dal regime fascista e la cui memoria non è potuta giungere a noi.
– vi era acquartierato presso l’Hotel Corona di Vigo anche un reparto di finanzieri… Non correva buon sangue tra la popolazione locale e i nuovi occupanti, vi furono anche degli scontri ma soprattutto i finanzieri italiani non vedevano di buon occhio i pompieri locali perché portavano ancora le divise austriache. La mattina del 21 ottobre il Rizzi con i suoi uomini si recò presso l’Hotel Corona per la colazione, all’interno vi erano già i finanzieri e l’aria era carica di tensione. I militari vedendo arrivare i pompieri estrassero le loro baionette, il Rizzi fu il primo ad entrare e si avventarono su di lui ferendolo gravemente
Conosciamo ad esempio il caso di Simone Rizzi (la sua storia è stata narrata da Ivan Pezzei ne “Il Pompiere del Trentino” del dicembre 2001, p. 54). Simone Rizzi, detto Simon del Faure, era nato a Campitello di Fassa nel 1888. Di professione pittore e decoratore, nel 1914 fu richiamato in Galizia come sergente maggiore dei Landesschützen. Finita la guerra, tornato a casa, ricostituì il locale corpo dei vigili del fuoco volontari, di cui divenne ben presto comandante. Un giorno di ottobre del 1921 scoppiò un furioso incendio nell’abitato di Vigo di Fassa. Anche Rizzi accorse in aiuto con i suoi uomini. “In quel periodo – scrive Pezzei”.Il comandante Rizzi morì all’ospedale di Tesero di lì a poco, all’età di trentatrè anni (“vittima innocente d’un tumulto a Vigo”, scrissero allora gli amici sulla lapide).
Pochi chilometri più in là, un altro tragico fatto si era verificato a guerra già conclusa, il 15 novembre 1918. Lo storico Candido Degiampietro ha narrato la vicenda nel suo volume “Briciole di storia, di cronaca e momenti di vita fiemmese”. Ancora oggi, nei campi tra Cavalese e Tesero, vi è una lapide, dimenticata da molti. In quel luogo, una fredda notte di novembre, fu assassinato Alberto Paluselli di Tesero, 33 anni, caporal maggiore dell’esercito austriaco. Il Paluselli era stato decorato con la medaglia d’argento al valor militare per le azioni compiute in val di Sole (al contrario di quanto sostiene una certa vulgata storiografica, non furono certo pochi i tirolesi di lingua romanza che parteciparono militarmente anche sul fronte italo/austriaco). A guerra finita, il Paluselli era rientrato in val di Fiemme. Ben presto arrivarono gli italiani che incalzavano gli austriaci in fuga, erano gli alpini del battaglione “Feltre”. Il Paluselli, dismessa la divisa militare dell’esercito imperiale, circolava portandosi addosso sui vestiti borghesi – era quasi inverno – il cappotto militare. La sera del 15 novembre il nostro si trovava presso l’Albergo all’Ancora di Tesero, insieme ad altri reduci, quando entrarono due alpini armati di tutto punto che prelevarono il Paluselli. Si avviarono verso Cavalese. Il suo corpo fu ritrovato la mattina successiva. Solo grazie alla coraggiosa testimonianza di numerose persone di Tesero, l’anno successivo un caporale del Battaglione Alpino “Feltre”, originario della provincia di Belluno, fu condannato a vent’anni di prigione per l’omicidio.
Quelli che ho raccontato sono solo degli esempi, dietro ai quali si ha la sensazione, per non dire la certezza, che si nasconda uno scenario di vendette pesanti (omicidi compresi) che contribuirono a creare un clima di terrore nelle decine di migliaia di reduci dell’esercito austriaco e nelle loro famiglie. Agli storici il compito di fare luce, non per riaprire ferite, beninteso, ma per accertare la verità e ricomporre il quadro di un’epoca che ha così pesantemente stravolto questa nostra Terra.
sabato 1 aprile 2017
Briciole di Memoria 10: Noi, Irredenti?
Questa vicenda viene raccontata da Luigi Sardi, in uno dei suoi interessantissimi libri, ricchi di documenti originali, di citazioni di testi, di precisi riferimenti bibliografici, che narrano “L’ALTRA STORIA”, quella che in Italia non si racconta mai, anzi, quella si tenta in tutti i modi di nascondere, anche al giorno d’oggi.
Nel suo libro “Quando l’Austria catturò Battisti”, Sardi cita una nota tratta dal diario di un soldato italiano, il sergente maggiore Artibano Romio del settantanovesimo reggimento fanteria della Brigata Roma:
“Alle ore 16 del 18 maggio 1916 fui fatto prigioniero. Dopo mezzora di sosta a Vanza, perché abbiamo dovuto raccogliere i nostri feriti, siamo partiti alla volta di Rovereto, scortati da poco simpatiche sentinelle. Ripartimmo per Villa Lagarina ove pernottammo in un prato all’aria aperta e la mattina per tempo, partenza per Trento. Quando si passava in mezzo ai paesetti la popolazione non faceva altro che imprecare contro di noi, dandoci dei vigliacchi e dei traditori: questi sono coloro che noi chiamiamo gli irredenti?”
Aveva ragione, il sergente maggiore Romio. Peccato che questa storia, come tanti altri piccoli frammenti di verità, siano sconosciuti ai più. Peccato che la nostra vera Storia sia sempre stata nascosta e falsificata dall’Italia. Solo pochi autori di indiscussa onestà intellettuale, raccontano in maniera corretta ciò che avvenne cento anni fa: uno di questi è proprio il giornalista Luigi Sardi, autore di molti testi storici sulla nostra terra Tirolese.
Invito tutti a cercare i suoi libri e a leggerli con attenzione. Li scrive per noi, per raccontarci la nostra storia, quella che non possiamo non conoscere.
Fonte: http://www.unsertirol24.com/
Nel suo libro “Quando l’Austria catturò Battisti”, Sardi cita una nota tratta dal diario di un soldato italiano, il sergente maggiore Artibano Romio del settantanovesimo reggimento fanteria della Brigata Roma:
“Alle ore 16 del 18 maggio 1916 fui fatto prigioniero. Dopo mezzora di sosta a Vanza, perché abbiamo dovuto raccogliere i nostri feriti, siamo partiti alla volta di Rovereto, scortati da poco simpatiche sentinelle. Ripartimmo per Villa Lagarina ove pernottammo in un prato all’aria aperta e la mattina per tempo, partenza per Trento. Quando si passava in mezzo ai paesetti la popolazione non faceva altro che imprecare contro di noi, dandoci dei vigliacchi e dei traditori: questi sono coloro che noi chiamiamo gli irredenti?”
Aveva ragione, il sergente maggiore Romio. Peccato che questa storia, come tanti altri piccoli frammenti di verità, siano sconosciuti ai più. Peccato che la nostra vera Storia sia sempre stata nascosta e falsificata dall’Italia. Solo pochi autori di indiscussa onestà intellettuale, raccontano in maniera corretta ciò che avvenne cento anni fa: uno di questi è proprio il giornalista Luigi Sardi, autore di molti testi storici sulla nostra terra Tirolese.
Invito tutti a cercare i suoi libri e a leggerli con attenzione. Li scrive per noi, per raccontarci la nostra storia, quella che non possiamo non conoscere.
Fonte: http://www.unsertirol24.com/
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