I principi cristiani esercitarono, quindi, lungo i secoli, un effettivo potere di convocare e riunire il Corpo episcopale, sotto la presidenza del Papa, per dirimere le controversie religiose.
Tale prerogativa, per cui il sovrano interveniva direttamente e autonomamente in ordine alla costituzione di tali assisi ecclesiastiche, richiedeva pur sempre l’approvazione formale della Chiesa docente. Era, insomma, il Pontefice Romano che formalmente confermava, o tacitamente o espressamente, tali assemblee e le loro deliberazioni.
I teologi hanno, quindi, distinto tra il potere materiale di convocazione dei Concili suddetti, che effettivamente esercitarono gli Imperatori romani, e quello formale o sostanziale, che spetta di diritto al solo Pontefice.
Agli Imperatori, che una volta riunito il concilio, non intervenivano mai direttamente nel merito delle discussioni teologiche vere e proprie, lasciando ai vescovi, presieduti dal Papa per mezzo dei suoi legati, di definire le questioni all’ordine del giorno, spettava anche la presidenza materiale.
Era, cioè, loro affidata la vigilanza sul buon ordine e lo svolgimento secondo i canoni delle sessioni. Così il principe cattolico si comportava secondo il noto aforisma attribuito a Costantino il Grande. Il pio sovrano si era definito, in rapporto alla gerarchia ecclesiastica, «vescovo esterno», espressione che ben esprimeva l’idea dell’azione propria di un sovrano cristiano nella Chiesa.