lunedì 26 novembre 2012

Contro l'idea di una tirannide asburgica anti-italiana in Dalmazia


In Dalmazia, nel XIX secolo, gli italofoni abitavano i centri costieri e le isole, mentre gli slavi, principalmente croati, erano maggioranza assoluta nell’entroterra. A onor del vero, l’unica grande città in cui gli italiani erano numericamente prevalenti era la capitale storica della regione, Zara, ma minoranze più o meno consistenti le troviamo in molti altri centri costieri tra cui Sebenico, Spalato e Ragusa. [1]Tuttavia, nonostante fossero numericamente inferiori, gli italiani di Dalmazia detenevano le leve del potere economico e culturale. Essi erano di solito borghesi e commercianti, mentre gli slavi erano prevalentemente contadini. La lingua franca dei commerci e della navigazione era il veneto, storico portato della dominazione veneziana. Questo particolare ovviamente non è ininfluente. A mio avviso, quando dai decenni centrali del XIX secolo si svilupperanno le diatribe nazionali, la “questione sociale” peserà non poco sull’intera vita politica della regione e contribuirà al suo inasprimento. È riportata infatti la riottosità di quella che, dalla seconda metà del secolo, sarà la nascente borghesia croata verso i vecchi dominanti. In generale, tra le varie regioni di cui ci occuperemo, probabilmente la Dalmazia è stata il teatro delle diatribe etniche più cruente, per quanto riguarda il secolo XIX. Posteriormente queste sono state ricostruite, ma spesso poi raccontate ad uso e consumo dell’ideologia degli autori delle ricerche. Un solo esempio: se una certa pubblicistica “di sinistra” (usiamo quest’espressione per semplicità) ricorda che i primi ad usare il termine foibe con propositi criminali furono i nazionalisti italiani, in alcune poesie degli anni ’20 in cui auspicavano per gli slavi la triste fine che potete immaginare, o cita lo sciovinismo, ad esempio, dell’irredentista triestino Timeus Ruggero Faro, dimentica per contro che dall’800 in poi gli stessi livelli di ultranazionalismo erano propri della componente slava. Ciò si verificava attraverso forzature e mistificazioni storiche (l’idea diffusa da una certa storiografia partigiana per la quale l’elemento italiano in Dalmazia non fosse indigeno, ma un retaggio della dominazione veneziana che era quindi doveroso eliminare) o anche, in modo meno ricercato ma forse più efficace, con altre modalità. Paradossalmente, una componente delle etnie slovene e croate particolarmente sensibile al richiamo del panslavismo fu il clero, con tutte le conseguenze del caso, vista l’influenza che questo aveva sui contadini cattolici. È proprio un prete (ma gli esempio potrebbero esseri molti altri) che in una poesia scrisse sull’opportunità di gettare gli italiani in mare ! D’altronde nell’Impero asburgico, in quegli anni, un motivo classico di propaganda anti italiana fu il carattere anticlericale del nostro risorgimento. Non meraviglia che sul clero slavo l’equazione strumentale italiano d’Austria=filo-italiano= massone anticlericale abbia fatto presa, perché intrecciava la polemica nazionale a quella religiosa.
E dire che fino alla metà del secolo, fino alla nascita del nazionalismo croato, a prevalere e unire la maggior parte degli abitanti era stata l’idea di una comune “nazione dalmata”, una terra plurilingue, che non poteva essere ridotta né all’etnia italiana né a quella sloveno-croata, ma che era il frutto della loro millenaria convivenza. Questa era ad esempio la convinzione di Nicolò Tommaseo, dalmata italiano di Sebenico, importante letterato. Fu in forza di questa convinzione che nei primi anni ’60 la classe dirigente italofona si oppose con forza alla prospettiva dell’unione amministrativa tra la provincia dalmata e il regno di Croazia, richiesta invece dai primi panslavisti. Per quanto i croati fossero maggioranza, infatti, l’unione alla Croazia avrebbe rappresentato una svolta innaturale per la storia peculiare della regione, storia così fortemente influenzata dalla presenza di una forte e attiva componente italiana. Questa battaglia fu vinta perché le autorità asburgiche, alla fine, non assecondarono le richieste degli slavi. Tuttavia, da lì a poco l’eco delle vicende esterne all’Impero [1] finì per farsi sentire prepotentemente anche nella zona dalmata. Prima le rivolte del ’48, poi la guerra d’Italia del 1859 portarono l’establishment austriaco a riconoscere nell’elemento italiano, più a torto che a ragione, un fattore facinoroso e destabilizzatore. Dalla seconda metà del secolo, pertanto, a livello governativo sarà costantemente favorita la componente slava, considerata più lealista.
Fino all’inizio degli anni ‘80, pur essendo espressione di una minoranza, il partito di riferimento degli italiani, detto “autonomista”, continuò a godere della maggioranza in vari comuni. In seguito questa situazione mutò. Nel 1914 il solo comune di Zara era ancora governato dal partito italiano. È vero che nelle varie elezioni ci furono pressioni di varia natura, e forse brogli, ma la causa della caduta delle amministrazioni italiane è da imputarsi alla progressiva estensione del suffragio, che favoriva i ceti inferiori, e dalla mobilitazione nazionale del mondo slavo contadino. Dove gli italiani erano inequivocabilmente maggioranza, cioè a Zara, come detto, resterà sempre un podestà italofono. Esiste un documento costantemente citato dai critici dell’amministrazione asburgica, ossia il verbale di un consiglio dei ministri del novembre 1866 (poco dopo la conclusione della III guerra di indipendenza), in cui Francesco Giuseppe afferma di voler cancellare ogni segno della presenza culturale e politica italiana dalle terre dell’Impero. In realtà, questo proposito, se mai è passato per la testa dell’Imperatore (ciò è tutto da dimostrare) [3] non si attuò mai. In Dalmazia i contrasti nazionali furono in effetti vissuti in modo anche particolarmente violento (aggressioni e risse tra italiani e slavi ecc diventarono sul finire del secolo e nei primi anni del ‘900 abbastanza abituali, e, stando a quanto riportato da più fonti, le autorità di polizia intervenivano costantemente in senso anti-italiano). Ma la maggioranza slava, con la complicità delle autorità, non andò mai oltre una progressiva “snazionalizzazione dolce”: retrocessione dell’italiano da lingua d’insegnamento a lingua secondaria nelle scuole, mancata concessione di fondi pubblici per l’apertura di scuole italiane, chiusura di alcuni istituti… Tuttavia, ancora nel 1909, un’ordinanza ministeriale valida per tutta la Dalmazia stabiliva che la corrispondenza tra gli uffici e qualunque atto giuridico o tecnico poteva essere compilato in italiano. Ancora: i censimenti indicano un vertiginoso calo percentuale degli italiani residenti in Dalmazia tra il 1870 e il 1914, ma questi dati non sono da interpretare, come vuole una retorica nazionalista italiana, come il segno di una persecuzione asburgica nei confronti della minoranza italiana, che sarebbe quindi stata costretta ad un esodo ante-litteram. Se infatti, dopo la caduta delle amministrazioni italiane nelle città del centro-sud, una parte degli abitanti può aver deciso di spostarsi verso Zara o verso l’Istria e Trieste, è un altro il vero motivo del crollo della presenza italiana registrata: cambiato il vento, avvertito chiaramente per chi simpatizzavano le autorità statali e regionali in quegli anni, molti abitanti che non si sentivano né italiani né croati, o che comunque fino a un certo momento si erano dichiarati italiani, semplicemente cambiarono la nazionalità dichiarata. Ciò può sembrare strano solo se non ci caliamo nella realtà dalmata nel XIX secolo, una realtà in cui le distinzioni nazionali si stavano formando più o meno faticosamente, e dove la suggestione di una peculiare “nazionalità dalmata” resisterà ancora negli anni stessi dell’esplosione dei nazionalismi. È da rilevare anche che l’atteggiamento asburgico, di timore e avversione verso gli italiani, non era in realtà giustificato dai fatti. Il partito autonomista nutriva sentimenti lealisti, e anche nel resto della società non erano presenti elementi irredentisti. Di fatto, finché esistette la compagine imperiale (pur coi suoi errori e coi suoi limiti), si ebbero odi e contrasti tra le varie etnie, forse inevitabili nei decenni romantici dei nazionalismi, ma non già eccidi ed esodi di massa: questi, ahinoi, saranno conosciuti dagli abitanti della zona dell’alto adriatico qualche anno dopo, ma questa è un’altra storia…
 
Note:


[1] = è davvero arduo fornire stime demografiche sempre attendibili. Lo strumento dei censimenti, nel corso del XIX secolo, è solo parzialmente affidabile, soprattutto in un contesto plurinazionale come quello asburgico. Spesso questo poteva essere manomesso, o influenzato, ed essere usato così come strumento di lotta politica, per evidenziare, anche forzatamente e artificialmente, eventuali rapporti di forza tra le diverse etnie. Ma le difficoltà erano intrinseche al metodo stesso da adottare nel rilevamento: ad esempio, si doveva dichiarare la lingua madre (muttersprache), cioè quella parlata in famiglia, o la lingua d’uso (umgange sprache) quindi quella usata prevalentemente nei rapporti pubblici? È chiaro che a seconda dei criteri usati le percentuali di appartenenti alle varie etnie potevano variare molto.

[2] Nel 1848, con una propaggine l’anno seguente (decisiva battaglia di Novara) si combatté anche la I guerra di indipendenza, che vide lo stato piemontese impegnato contro l’Impero austriaco. Pochi anni dopo, nel 1859, i Savoia, stavolta alleati con la Francia, sfidarono di nuovo gli Asburgo nella II guerra di indipendenza, ottenendo la Lombardia.

[3] In effetti i croati erano stati uno dei popoli più fedeli agli Asburgo durante la grande burrasca quarantottesca. Il vincitore dei ribelli ungheresi, generale Jelacic, era croato.

[4] Si tratta del verbale del consiglio dei ministri del 12 novembre 1866. Di certo, da quell’anno in poi, mutò l’atteggiamento delle autorità austriache verso i sudditi italofoni. Ma arrivare a conclusioni perentorie citando e decontestualizzando un singolo documento mi sembra fuori luogo. Nel 1875 Francesco Giuseppe, in visita a Zara, si espresse in italiano (il Kaiser parlava fin da piccolo le lingue di ognuno degli undici popoli presenti nell’Impero). Strano modo di attuare un “genocidio degli italiani” (cit. di alcuni testi nazionalisti)

 
Fonte:

Ricerca storica a cura di Simone Ziviani