venerdì 1 marzo 2013

R.P. M. Liberatore: Risposta ai sofismi d'un cattolico liberale...(2)

R. P. Matteo Liberatore d.C.d.G.

Da: La Chiesa e lo Stato (2a ed.) Napoli 1872, cap. I, pag. 103-114.
 
 

CONDIZIONE DELLA CHIESA RIMPETTO ALLO STATO (VIII).

CAPO I.

ARTICOLO VIII.

Risposta ai sofismi d'un cattolico liberale, intorno alla separazione della Chiesa dallo Stato.

Avendo nel precedente articolo esaminata la prima parte della teorica del sig. Tagliaferri, quella cioè che riguardava l'assoluta indipendenza dello Stato dalla Chiesa; ci conviene ora discutere la seconda, quella cioè che riguarda la separazione dell'uno dall'altra, in senso non assoluto ma temperato. Egli dice: «La età nostra è venuta ad un più chiaro concetto della distinzione dei due poteri; e nel desiderio di attuarlo, ha proclamato il principio della separazione dello Stato dalla Chiesa. È un bene o un male, un progresso o un regresso? Intesa la separazione nel giusto senso, mi sembra un bene ed un progresso [1].» Qui hai, o lettore, un nuovo saggio dello spirito dei cattolici liberali. Costoro, come il nome stesso sembra significare, sono un certo che di mezzano tra i cattolici e i liberali, assolutamente detti, un'amalgama degli uni cogli altri. Ondechè nelle quistioni, che dispaiano il cattolicismo dal liberalismo, amano i temperamenti, le mezze misure, le conciliazioni. Per restringerci al punto presente, il liberalismo puro, espresso in quella frase l'età nostra, ha proclamata la separazione dello Stato dalla Chiesa e viceversa, colla formola: Libera Chiesa in libero Stato. Il Cattolicismo, senza epiteti, riprova siffatto principio per bocca del suo supremo Maestro, il quale nel numero LV del Sillabo ha condannata la proposizione: Ecclesia a Statu, Statusque ab Ecclesia seiungendus est. Ora i cattolici liberali che fanno? Prendono a concordare l'una cosa coll'altra, a difendere entrambe le parti: la formola e la sua condanna. Si volgono al liberalismo e dicono: È ragionevole la separazione da voi voluta, ma intesa nel giusto senso. Poscia si rivolgono al cattolicismo e dicono: È giustamente dal Pontefice condannata la separazione, ma intesa nel cattivo senso.
Noi, a voler dire il vero, siamo altamente persuasi dell'impossibilità di cotesti mezzi termini tra il bene ed il male, tra la verità e l'errore; e teniamo per ferma un'altra censura, inchiusa nel Sillabo, quella cioè ond'è condannata la proposizione che il romano Pontefice possa e debba venire ad accordo e composizione col liberalismo: Romanus Pontifex potest ac debet, cum progressu, cum liberalismo et cum recenti civilitate sese reconciliare et componere [2]. Se tal composizione è impossibile al Capo del cattolicismo, è impossibile altresì a tutto il corpo de' cattolici, i quali non possono discordare dal Capo, ma da lui come nell'operare così ancora nel pensare debbono prendere regola ed indirizzo.
Tuttavia, nonostante questo nostro convincimento, per non essere scortesi col sig. Tagliaferri, ascoltiamo qual sarebbe al veder suo la conciliazione, possibile tra quel domma fondamentale del liberalismo e l'insegnamento pontificio, vale a dire tra la separazione e la non separazione della Chiesa dallo Stato. Egli, comincia dal dire essere assurda e perniciosa la maniera di separazione, che consistesse in una lotta scambievole, salvo alcuni casi. «L'essere normale (son sua parole) e definitivo delle relazioni tra lo Stato e la Chiesa non è l'antagonismo; e la lotta ben potè essere necessaria negl'inizii, vale a dire nella loro epoca formativa: può altresì di tanto in tanto divenir necessaria, come mezzo ad impedire le reciproche invasioni e prepotenze, e far rientrare l'uno e l'altra ne' proprii confini; ma chi facendone uno stato normale, non riconosce tra loro altra relazione che di perpetuo antagonismo, scambia il mezzo col fine, e vive in un errore altrettanto assurdo quanto funesto [3].» Veramente potrebbe sembrar singolare il vedere recata come una specie di separazione la lotta; la quale per fermo, più che separazione, è nimicizia manifesta, e nimicizia tradotta in atto. Ma prescindendo da ciò, che in fondo non ha reale importanza, chi non vede qui il solito vezzo de' cattolici liberali, di ammettere il vero per metà e difendere la Chiesa per guisa, che lascino ai nemici di lei l'uscio in parte aperto per aggredirla? Si rigetta la lotta come stato normale, ma si riconosce necessaria di tanto in tanto come mezzo per fare rientrare l'uno e l'altra, lo Stato e la Chiesa, nei proprii confini. Non vi sembra questo un bell'espediente in mano dei regalisti e dei liberali, per legittimare tutte le vessazioni, che han fatto soffrire e fan soffrire alla Chiesa? È il mezzo, potrebbono dire, divenuto necessario, per farla rientrare ne' proprii confini, e cessare dalle invasioni. Come fu legittima la lotta di Gregorio VII contro Enrico IV, per le usurpazioni fatte dallo Stato sopra i diritti della Chiesa; così è legittima la lotta della moderna rivoluzione contro Pio IX, per le usurpazioni fatte dalla Chiesa sopra i diritti dello Stato. È una di quelle epoche, accennate nella frase di tanto in tanto. Così si scolperanno i nemici della Chiesa.
Dirassi: non perchè si legittima una massima in generale, si legittima ogni applicazione che se ne faccia. Verissimo. Ma, oltrechè ci ha delle massime, troppo proclivi ad iniqua applicazione, come appunto è la presente per parte dello Stato, il quale avendo in mano la forza, ne accoglie facilmente il solletico; qui la massima stessa è falsa. Essa suppone la possibilità per parte della Chiesa d'invadere i diritti dello Stato, e dippiù suppone eguaglianza tra l'una società e l'altra. Due poteri, reciprocamente indipendenti, non solo nel proprio ordine, ma in modo del tutto assoluto (come sarebbero due Stati politici) possono tra loro muoversi guerra, a cagione di violati diritti. Ambidue sono possessori immediati della forza, ambidue versano nel medesimo ordine d'interessi materiali, ambidue sono giudici supremi de' proprii atti, a fronte l'uno dell'altro. Niente di questo si verifica, quando trattasi della Chiesa in paragone dello Stato. La Chiesa non possiede formalmente la forza materiale. Ciò è sì vero, che la divina provvidenza nell'attribuire al supremo Capo di lei un dominio temporale per guarentigia della sua indipendenza dal secolo, ha voluto che esso non fosse nè si piccolo, che potesse patir pressione dai Potentati limitrofi, nè sì grande, che potesse incutere timore agli altri Stati. Tutta la forza della Chiesa è morale; i mezzi di coercizione non sono in lei che virtualmente, in quanto ha diritto di richiederli ed imperarli alla società civile, a lei subordinata. Di che nasce un'impossibilità quasi assoluta di abuso, e ciò per doppio capo. Prima, perchè avendo essa bisogno del presidio della società civile contro i violatori delle sue leggi e i perturbatori della sua pace, è condotta dalla natura stessa di questa sua condizione ad essere scrupolosa osservatrice dei diritti di quella, sicchè con lei piuttosto largheggi del suo, di quello che invada il non suo. Secondo, perchè la forza morale, di cui sola, come dicemmo, è formalmente dotata la Chiesa, ripete tutto il suo vigore dall'evidenza del diritto. Quindi al diritto evidente si appoggia sempre la Chiesa; nè può avvenire giammai, che le sorga pure il pensiero di pretendere cosa, che si dimostri ingiusta. Dunque tutto ciò che evidentemente è di pertinenza dello Stato, come gli affari puramente civili e politici, sono pienamente assicurati da ogni pericolo d'invasione da parte del potere ecclesiastico. E così veggiamo la Chiesa essere stata sempre sollecita e gelosa di una tale osservanza, ed imporla ai suoi Ministri coll'impero altresì della legge. Per recarne un esempio, nel Concilio Lateranense IV al capo 42, ella ai Chierici comanda così: Sicut volumus ut iura Clericorum non usurpent laici, ita velle debemus ne Clerici iura sibi vindicent laicorum. Quocirca universis Clericis interdicimus, ne quis praetextu ecclesiasticae libertatis suam de cetero iurisdictionem extendat in praeiudicium iustitiae saecularis, sed contentus existat constitutionibus scriptis, et consuetudinibus hactenus approbatis, ut quae sunt Caesaris reddantur Caesari, et quae sunt Dei Deo recta distributione reddantur.
Non neghiamo che nei punti di contatto, come suol dirsi, la distinzione dei termini non apparisce precisa, e il diritto lungi dal mostrarsi evidente, si mostra non rare volte dubbioso. Nondimeno anche in tal caso è illecita la lotta per parte dello Stato, e ciò in virtù della sua subordinazione alla Chiesa. Imperocchè egli è chiaro che dopo la rispettosa rimostranza e la ragionevole discussione, il giudizio della lite insorta appartiene alla Chiesa, come a potere superiore al poter dello Stato; e niuno dirà, che al tribunale inferiore sia lecito opporre contrasto o resistenza alla decisione del tribunale più alto. Nè si obbietti il pericolo di sbaglio nel giudice; giacchè in prima, se questa ragione valesse, non ci sarebbe più mezzo per terminare i litigi anche nell'ordine civile. In secondo luogo, la decisione anzidetta o riguarda una regola generale, o l'applicazione di essa ad un fatto particolare. Quanto alla prima, la natura speciale della Chiesa, d'essere cioè una società soprannaturalmente assistita da Dio, porge una sicura guarentigia dell'equità e rettitudine della sentenza. Iddio non può permettere che la Chiesa cada in pernicioso errore come nella dottrina, così nella pratica; e pernicioso errore sarebbe un'ingiusta usurpazione dei diritti altrui. Egli l'ha costituita maestra di verità e di giustizia. Or come potrebbe ella esercitare degnamente un tal magistero, se potesse violare, pognamo per sola ignoranza, le ragioni di quelli, di cui dee formare i costumi? La parola di Cristo: Date a Cesare ciò che è di Cesare, ed a Dio ciò che è di Dio, è operativa nella sua Chiesa, nè può mancare di effetto. Onde ciò che ella definisce in tal punto, come regola comune di condotta nelle materie altrimenti dubbiose ed oscure, non può appuntarsi di prepotenza o di errore. La santità della Chiesa è articolo di fede pe' cristiani: Credo... sanctam Ecclesiam. Or come sarebbe santa la Chiesa, se professasse come regola di sua condotta una manifesta ingiustizia, quale appunto sarebbe l'invasione di alcun diritto non suo? Quindi non è meraviglia, che nel numero XXIII del Sillabo si legga condannata la seguente proposizione: Romani Pontifices et Concilia oecumenica a limitibus suae potestatis recesserunt, iura Principum usurparunt.
Che se poi si parla non di regola che stabiliscasi, ma dell'applicazione di essa a qualche caso particolare, non neghiamo che l'autorità ecclesiastica possa cadere in decisione men giusta. Ma in tal rarissimo evento, oltre al ricorso aperto ad essa Chiesa, sempre pronta a soddisfare le altrui ragioni, è da considerare che l'aggravio patito non può esser mai tale, che preponderi al male gravissimo che sarebbe di lottare contro la propria madre, con iscandalo e perturbazione di tutta la società de' fedeli. Onde in tal caso è da seguire il precetto che quel sapientissimo non meno che invittissimo Re, Carlomagno, dava ai suoi sudditi, dicendo loro che pel rispetto dovuto a S. Pietro e alla Sede Romana, madre e maestra comune, qualunque sia il peso, ancorchè gravissimo, che ella c'impone, dee portarsi e con pia ed affettuosa devozione tollerarsi. In memoriam beati Petri Apostoli honoremus sanctam Romanam et Apostolicam sedem, ut quae nobis sacerdotalis mater est dignitatis, esse debeat magistra ecclesiasticae rationis. Quare servanda est cum mansuetudine humilitas; ut licet vix ferendum ab illa Sancta Sede imponatur iugum, feramus et pia devotione toleremus [4]. È conforme ad ogni ragione che si soffra la iattura di un bene minore, acciocchè si salvi e mantenga incolume il bene maggiore. Ma torniamo al discorso del Tagliaferri.
«Un secondo modo, egli dice, d'intendere la separazione tra i due poteri, consiste nell'ammettere che non v'abbia tra essi altra relazione, che d'una scambievole indifferenza, così che i loro atti non abbiano ad incontrarsi mai nello svolgimento della vita sociale [5].» Veramente questa, più che relazione, ci sembra negazione di qualsiasi relazione. Ma poco male l'inesattezza del linguaggio, quando la sostanza è buona; e qui è buona la sostanza, giacchè l'Autore rigetta cotesta foggia di separazione, come irragionevole e pregiudiziale. La ragione, che egli ne arreca è triplice; e poichè ci piace di lodare ciò che è degno di lode, diciamo che esse sono giustissime e come tali le riportiamo colle sue stesse parole. «Comechè, egli dice, apparentemente meno strano, questo sistema non è meno assurdo del precedente, ed è in senso inverso altrettanto irrazionale, quanto quello della confusione dei due poteri. Ecco la sorgente perpetua di tutti gli errori: confondere le cose tra loro distinte, e separare quelle che vogliono essere unite ed armonizzate. La Chiesa e lo Stato, il soprannaturale e il naturale, il divino e l'umano, benchè sieno cose tra loro affatto distinte, pure si collegano tra loro e si riferiscono per mille vicendevoli rapporti, che non si possono negare o distruggere senza ingiuria della scienza e detrimento della società: la loro separazione assoluta adunque è impossibile, quanto assurda. Essa ripugna in primo luogo alla legge cosmica, per la quale nel generale ordinamento degli esseri tutte le cose aspirano all'unità; epperò lungi dal dividersi e sconnettersi, tendono ad intrecciarsi e congiungersi insieme. Ripugna in secondo luogo alla medesimezza del soggetto, intorno a cui versano i due poteri, civile e religioso, i quali si appuntano e collimano nella vita individua dell'uomo, cittadino insieme e credente. Ripugna da ultimo alla natura e agli ufficii proprii così dello Stato, come della Chiesa: dello Stato, il cui fine è di tutelare tutti i diritti e quindi anche i diritti religiosi del cittadino; della Chiesa, la quale mancherebbe alla sua missione, se non sostenesse colla sua forza morale l'autorità civile, giovandone gli intendimenti, adoperandosi efficacemente a rendere virtuosi ed ottimi i cittadini, e contribuendo al bene dello Stato con tutti i mezzi spirituali, di cui dispone [6]
Queste giuste considerazioni avrebbero senza fallo condotto l'Autore a riconoscere la verità, se egli fosse cattolico, senza l'aggettivo di liberale: giacchè ciascuna delle ragioni, da lui qui addotte, prova la subordinazione dello Stato alla Chiesa. La legge cosmica dell'unità tra agenti diversi non può sussistere senza dipendenza nell'azione. Sussisterebbe unità nella pianta, se le forze fisiche e chimiche non sottostessero in lei all'influenza del principio vitale? E se la forza attrattiva non prevalesse alla ripulsiva, ci sarebbe ordine e permanenza nella stessa materia bruta? L'identità poi del soggetto ordinabile dai due poteri, fa sì che in esso sieno due obbligazioni diverse, le quali potendo talvolta venire in conflitto tra loro dovrebbero scinderlo in due personalità, se l'un dei poteri non fosse subordinato all'altro. Infine se lo Stato, essendo tenuto a difendere tutti i diritti dei cittadini, è tenuto a difendere il diritto altresì religioso, ognun vede l'obbligo che in esso risulta di far servire la forza materiale a tutela della religione; il che, secondo lo stesso sig. Tagliaferri, è un essere subordinato alla Chiesa. La subordinazione dunque dello Stato alla Chiesa scende come conseguenza dagli stessi principii professati dal nostro cattolico Autore. Ma il nostro Autore non è semplicemente cattolico, bensì è cattolico colla giunta di liberale. Or questa giunta lo impedisce dall'esser logico e consenziente con sè medesimo; giacchè gl'impone di non discostarsi dal principio sopra ogni altro prediletto dal liberalismo, della separazione cioè dello Stato dalla Chiesa. Egli dunque si sforza di cercare una specie di separazione, che appaghi il liberalismo, senza offendere il Cattolicismo, e intorno ad essa si esprime così: «Rifiutato, e a buon diritto, il principio della separazione tra i due poteri ne' due sensi finora discussi, non v'ha egli un senso cristiano e ragionevole che possa venire accettato nella Chiesa cattolica? V'ha senza dubbio, ed è quello inteso dal cattolico liberalismo, e da' più assennati degli odierni pubblicisti. Questo senso racchiude due concetti sostanziali: 1.° l'autonomia entro i proprii confini dello Stato e della Chiesa; 2.° la libertà e l'indipendenza dell'uno e dell'altra nel proprio interiore reggimento, così che non sia lecito a niuno dei due l'intromettersi ne' negozii spettanti all'interiore ordinamento dell'altro. Inviterei chiunque a dimostrarmi che l'uno o l'altro di questi due concetti sia contrario ai principii cristiani [7].» Il Tagliaferri qui s'inganna a partito. I principii cristiani circa la relazione della Chiesa collo Stato si riassumono in quella formola di S. Tommaso, riportata da noi nell'articolo precedente: Potestas saecularis subditur spirituali, sicut corpus animae; et ideo non est usurpatum iudicium si Praelatus spiritualis se intromittat de temporalibus [8]. Tre classi bisogna distinguere, allorchè parlasi di negozii, spettanti all'uomo sociale. In prima, i negozii puramente spirituali; come sarebbero il culto di Dio, l'amministrazione de' Sacramenti, la predicazione della divina parola; e questi, come è di per sè chiaro, son sottoposti esclusivamente all'autorità ecclesiastica. La ragione si è, perchè ad essa unicamente li ha commessi Cristo: Data est mihi omnis potestas in caelo et in terra. Euntes ergo docete omnes gentes, baptizantes eos in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti; docentes eos servare omnia, quaecumque mandavi vobis [9]. In secondo luogo, i negozii misti; quelli cioè che si attengono sotto diverso rispetto all'ordine religioso insieme e civile; come sarebbero, a cagione d'esempio, il matrimonio, i funerali, le pie istituzioni di carità; e questi, secondo la diversità del rispetto, son sottoposti ad ambidue i poteri; ma in guisa che l'autorità ecclesiastica primeggi, e direttamente intervenga ad emendare ed annullare ciò che per avventura le leggi civili intorno ad essi stabilissero di contrario alle leggi divine o canoniche. La ragione si è, perchè secondo la prevalenza del rispetto, sotto cui una data cosa è soggetta a una data autorità, deve prevalere essa autorità all'altra, che corrisponde al rispetto inferiore. In fine i negozii puramente temporali, in niuna guisa sacri nè ordinati a fine spirituale, come sarebbero l'ordinamento della milizia, delle imposte, de' tribunali civili; e questi benchè sieno direttamente sottoposti alla sola autorità politica, nondimeno per indiretto e come suol dirsi ratione peccati, possono cadere sotto la giurisdizione ecclesiastica, quando cioè le leggi, che li concernono, favorissero l'immoralità o in alcuna maniera nocessero al bene spirituale dei popoli. In tal caso siffatte leggi, emanate dall'autorità civile, possono e debbono giustamente venir corrette e private di valore dall'autorità ecclesiastica. La ragione si è, perchè spetta all'autorità ecclesiastica impedire i pubblici peccati e rimuovere gl'impedimenti nella via della salute eterna, a cui essa deve guidare i fedeli. E così veggiamo avere costantemente operato i romani Pontefici, fino all'oggidì regnante Pio IX, il quale più volte ha riprovate ed annullate diverse leggi sancite dai moderni Parlamenti di Europa. O noi non intendiamo nulla, o ciò significa appunto che nella società cristiana l'ordine civile, bene minore, è subordinato all'ordine religioso, bene maggiore; e il potere, che presiede al primo, è subordinato al potere, che presiede al secondo.
Il sig. Tagliaferri in questa materia, sì delicata e difficile, procede con molta leggerezza; e senza ben ponderare ciò che egli dice, e i diversi rispetti che debbono tenersi d'occhio, sputa sentenze con franchezza meravigliosa. Egli vuole che come la Chiesa, così anche lo Stato abbia piena autonomia nel proprio ordine. Egli parla della Chiesa e dello Stato, come parlerebbesi di due società politiche; le quali, avendo lo stesso fine, la stessa natura, gli stessi diritti, sono del tutto eguali tra loro, e solo si distinguono numericamente, in quanto la moltitudine, che le compone, è diversa. Siccome l'una di tali società non ha giurisdizione sopra i sudditi dell'altra, esse possono benissimo svolgere la loro vita con piena indipendenza tra loro. Ma qui trattasi di ben altro. Qui trattasi di due società di natura diversa, perchè aventi diverso fine ed origine diversa, e nondimeno composte degli stessi membri. La medesima moltitudine è soggetta a duplice giurisdizione; il medesimo corpo è mosso da doppia virtù operativa; la medesima persona è sottoposta alla direzione di un doppio principio ordinatore. Voler che questi svolgano la propria azione senz'ordine tra loro, è quanto volere che una nave corra il mare sotto l'impulso di due venti diversi od anche contrarii, senza prevalenza dell'uno sull'altro: ovvero che il medesimo fondo sia coltivato da due coloni, aventi scopo ed interessi non collegati, e talora eziandio pugnanti tra loro. Ciò diciamo, perchè è indubitato che bene spesso la prudenza della carne contrasta alla prudenza dello spirito, e quel che giova agli incrementi temporali, nuoce a ciò che è richiesto dalle ragioni del bene eterno. Caro concupiscit adversus spiritum, et spiritus adversus carnem, è verità che ha luogo non solo nell'uomo singolare, ma altresì nell'uomo collettivo; non solo nel giro privato delle appetizioni individuali, ma ancora nell'ordine pubblico delle tendenze sociali. Di che apparisce che tra i due poteri, regolatori della società, non solo ci vuole accordo, ma accordo che nasca da subordinazione, come appunto accordo prodotto da subordinazione è necessario che passi fra le potenze diverse di una stessa persona, acciocchè regni unità ed armonia nel suo operare.
Lo stesso Tagliaferri ci fa sentire che il potere civile da sè solo non può governare; e riporta un testo del De Maistre, il quale dice convenire che esso potere «abbia come ministro indispensabile o la schiavitù, la quale diminuisca il numero delle volontà operanti nello Stato, o la forza divina che per una specie d'innesto spirituale distrugga la naturale asprezza di queste volontà e le metta in istato di agire insieme senza nuocersi.» Ora cotesta forza divina non è somministrata che dalla Chiesa. L'influenza dunque della Chiesa è indispensabile per lo stesso politico ordinamento della cosa pubblica e per la libertà dei popoli. Ma in qual modo siffatta influenza può aver luogo, se il potere che deve esercitarla non è in armonia coll'altro potere, a cui soggiace il soggetto che dee riceverla? L'accordo, il Tagliaferri soggiunge, verrà da sè, tanto solo che i due poteri rispettino la scambievole indipendenza. «Quando lo Stato rispetterà l'autonomia e la libertà della Chiesa, e viceversa; quando ciascun d'essi svolgerà la sua vita entro i proprii confini, abborrendo dalle reciproche invasioni; il più sincero ed amichevole accordo tra loro non può mancare [10].» Benissimo: ma l'accordo senza una regola non è possibile. Or qual sarà cotesta regola, da aversi in mira dalle parti, che devono concordarsi? Non altra certamente, che quella la quale vien prescritta dalla retta ragione, vale a dire la subordinazione dei fini, e la prevalenza dei beni. Ma egli è principio del pari evidente che potestates subordinantur, sicut fines [11]. Eccoci dunque condotti dall'idea stessa di accordo, voluto dall'autore, tra la Chiesa e lo Stato, all'idea di subordinazione del secondo alla prima. Una tal subordinazione non distrugge l'indipendenza dello Stato, ma solo da assoluta la converte in relativa, riducendola al proprio ordine, a quello cioè delle cose puramente temporali, in quanto però in niuna guisa contrastino con quelle dell'ordine superiore dei beni spirituali. Che se, per avventura, un tal contrasto si avverasse, non può certamente negarsi da chiunque ha fior di senno che l'autorità, la quale presiede all'ordine superiore, ha diritto di correggere quanto siasi indebitamente disposto da chi presiede all'ordine inferiore; acciocchè il tutto rientri e mantengasi nella collocazione, voluta dalla ragione e da Dio, e noi quaggiù sic transeamus per bona temporalia, ut non amittamus aeterna. Lo Stato ci guida e promuove a cotesto passaggio pei beni temporali; ma la Chiesa deve provvedere che in essi nulla intervenga che c'impedisca gli eterni, a cui ella ci scorge e sorregge.

NOTE:

[1] Rivista Universale di Genova, fascicolo 60, pag. 471.
[2] §. X, n. LXXX.
[3] Pag. 468.
[4] Capitul. De onoranda Sede Apostolica.
[5] Pag. 468.
[6] Pag. 468 e 469.
[7] Pag. 470.
[8] Summa th. 2.a 2.ae q. 60, a. 6 ad 3.m
[9] Matth. capite ultimo.
[10] Pag. 472.
[11] Suarez, Defensio Fidei catholicae etc. l. III, c. 12.