di DAMIANO MONDINI
Il 24 gennaio è uscito nelle sale italiane il film Lincoln, diretto da Steven Spielberg con Daniel Day-Lewis nel ruolo di protagonista. Come largamente previsto dalla critica, la pellicola ha sbancato il botteghino. Un successo degno del regista, un film in grado di commuovere e di colpire nel profondo. Si tratta di una ricostruzione storica – ancorché hollywoodiana – , che dovrebbe avere fra i suoi primi obiettivi quello di narrare in modo relativamente esaustivo fatti realmente accaduti. E quest’obiettivo è stato completamente mancato: la ricostruzione è ai limiti della “fantastoria”, la partigianeria è stomachevole e indigesta, la prospettiva yankee assurge a voce dominante nel peggior stupro di una realtà drammatica come quella della Guerra civile americana. In questo modo una figura complessa, inquietante e a tratti mefistofelica come quella del sedicesimo Presidente degli Stati Uniti Abraham Lincoln viene dipinta con toni agiografici e santificatori, coi soliti banali orpelli dell’emancipatore di schiavi, del salvatore della pace e della libertà. Per chi nella pace e nella libertà crede davvero – e proprio per questo non sopporta che la memoria del Vecchio Sud sia infangata dell’ideologia dei vincitori - è quanto mai cogente rispolverare alcune semplici verità fattuali relative a quel periodo miliare della storia americana che fu la Civil War, disincrostandola dai luoghi comuni, dalle interpretazioni faziose e soprattutto dalle mistificazioni sesquipedali che ne accompagnano le narrazioni più in voga – non ultimo questo ritratto demenziale fornito da Spielberg, anche se invero molti pregiudizi sono divenuti patrimonio comune.
Dare un nome alla guerra
Individuare il nome adatto ad un conflitto tanto noto quanto frainteso non è il vezzo di qualche storico puntiglioso: al contrario, può essere un primo passo fondamentale per comprenderne le ragioni più profonde – che è quanto ci riproponiamo di fare in questo contributo. Negli Stati Uniti attuali la dicitura più comune è “american civil war”; in Europa è diffusa l’espressione “guerra di secessione”; alcune nicchie intellettuali parlano di “war between the States“. Urge fare chiarezza: durante il conflitto, e negli anni immediatamente successivi, si parlava al Nord di “guerra di ribellione” e di “guerra per l’Unione”, mentre al Sud – almeno fra i politici – di “guerra fra Stati”. Gli abitanti di Dixie Land preferivano – e preferiscono tuttora – parlare di “guerra di aggressione Yankee” e di “guerra per l’Indipendenza del Sud”. Ci può essere d’aiuto il più grande studioso -italiano ma non solo - del conflitto di cui ci stiamo occupando, Raimondo Luraghi. Nei suoi scritti egli utilizza sovente il termine “guerra civile” solo per la sua diffusione, mentre ne rileva i profondi limiti a livello concettuale:
La guerra civile si verifica – per definizione – tra due gruppi di una sola civitas, di una sola comunità nazionale; generalmente essa divide le famiglie, i quartieri, le città; usualmente non vi è in essa chiara differenziazione territoriale tra le parti in conflitto se non per motivi contingenti […] Ma negli Stati Uniti le cose si svolsero in modo del tutto differente. Colà la divisione avvenne nettamente secondo le linee territoriali (tanto è vero che il conflitto scoppiò dopo che tale divisione si era verificata) […] La verità è che la “nazione americana”, la “grande repubblica” di cui parlava Lincoln, era ancora solamente in fieri […] La guerra ne fu il dolorosissimo e sanguinoso travaglio di formazione; ma in quegli anni è certo che “la grande repubblica” era vista lucidamente sola da Lincoln e forse (ma c’è motivo di dubitarne) da qualche altro leader nordista.
Luraghi rileva correttamente che non essendovi ancora un’unica comunità nazionale a cui appartenere, né tantomeno un non meglio precisato “popolo americano”, non poté trattarsi propriamente di una guerra civile; il conflitto ebbe peraltro inizio dopo la formazione dei Confederate States of America (CSA), un’entità confederale indipendente dagli Stati Uniti del Nord (USA), con una propria capitale – prima Montgomery e poi Richmond – una propria bandiera e un’amministrazione autonoma. Ciò parrebbe avvalorare la tesi – sostenuta innanzitutto dall’ex vicepresidente della Confederazione del Sud Alexander Stephens – di una “guerra fra Stati”, considerando che nel contesto americano per“Stati” si intendono le singole realtà che hanno dato vita all’Unione originaria. D’altro canto, nel contesto europeo si tende a vedere nella “secessione” degli Stati del Sud il motivo scatenante del conflitto, magari nel tentativo di evidenziare - con cognizione di causa - che non fu affatto l’istituto della schiavitù il motivo del contendere. Nondimeno, sia la tesi di Stephens che l’interpretazione europea non sembrano cogliere l’essenza della guerra; a tal proposito, sono definitive le parole di Luigi Marco Bassani, docente di Storia delle dottrine politiche presso l’Università di Milano:
Il nome corretto è “guerra per l’Indipendenza del Sud”, nel senso che il tentativo del Sud di diventare indipendente causò il conflitto. “Guerra fra gli Stati” fu un nome di compromesso in uso alla fine dell’Ottocento, ma insostenibile: gli Stati in quanto tali non ebbero alcun ruolo nella guerra. “Guerra civile” è il nome ufficiale nell’America di oggi, ma è tecnicamente errato: si parla di guerra civile quando i combattenti lottano per il possesso dello stesso territorio, i sudisti ovviamente non avrebbero proprio voluto inglobare un pollice di suolo Yankee. In Europa il termine tipico è “guerra di secessione”, ma indica solo il pregiudizio unitarista del nostro continente: il tentativo di secessione di per sé non giustificava la guerra nell’America di allora. Altri due termini – “guerra di aggressione Yankee” e “guerra per l’Unione” – possono apparire a prima vista descrittivamente corretti, ma solo per una delle due parti in lotta.
Il film di Spielberg – insieme a certa manualistica – potrebbe tuttavia suggerire implicitamente questa tesi: che i “cattivi schiavisti” del Sud abbiano optato per l’indipendenza come extrema ratio per mantenere l’istituto della schiavitù, impedendo dunque ai “buoni” abolizionisti del Nord – Lincoln in testa – di abolirla con la forza negli Stati in cui continuava ad esistere. Si tratta di un completo ribaltamento della realtà che merita di essere adeguatamente confutato.
Una crociata antischiavista e un Lincoln emancipatore?
Molto semplicemente, Lincoln non fu mai un abolizionista della schiavitù: non lo era quando divenne Presidente degli Stati Uniti nel 1861, non lo era stato prima e non lo fu nemmeno dopo. A tal proposito è di grande rilevanza la lettura dei dibattiti intercorsi nel 1858 tra lo stesso Lincoln e lo sfidante democratico Stephen A. Douglas; disse infatti in quell’occasione il candidato repubblicano:
Non sono, né sono mai stato a favore in nessun modo dell’uguaglianza sociale e politica fra le razze bianca e nera. Né ho mai appoggiato la concessione a un nero del diritto di voto o di far parte di una giuria, né della possibilità di avere cariche pubbliche e neppur di potersi sposare con i bianchi. Vi dirò inoltre che vi è una differenza fisica fra le razze bianca e nera che ritengo osterà per sempre al fatto che le due razze possano vivere insieme in un regime di uguaglianza politica e sociale. […] [Esse] devono essere poste in posizione di superiore e inferiore e io […] sono favorevole a che la razza cui appartengo sia in posizione di superiorità.
E’ bene dunque fugare ogni dubbio: né la guerra fu scatenata dai paladini della libertà per sradicare la schiavitù, né tale obiettivo era realmente negli intenti di Lincoln allorquando decise l’inevitabilità del conflitto. Ma prima di analizzare le reali intenzioni del Presidente, è necessario comprendere quella profonda eterogeneità fra il Nord industriale e il Sud agricolo che trovava nella schiavitù il proprio baricentro: a tal fine va fatta chiarezza intorno alle motivazioni contrastanti che spinsero i “radicali” nordisti a battersi in un’apparente crociata atta ad abolirla. Istanze anti-schiaviste erano state da tempo espresse dal movimento freesoiler, che esprimeva la volontà che le nuove terre dell’Ovest fossero aperte senza limiti agli emigranti dell’Est e ne fosse estromessa l’agricoltura schiavista del Sud: così, rileva Luraghi, “non si voleva soltanto sbarrare l’Ovest all’agricoltura a schiavi: ma agli schiavi stessi, nel timore che, diventati liberi, potessero aspirare anch’essi al possesso della terra”. Inoltre, il fatto che la schiavitù si sia mantenuta e radicata solo al di sotto della linea Mason-Dixon – al di sopra della quale non poteva essere istituita – non significa che i reali profitti dello sfruttamento schiavista fossero appannaggio dei proprietari del Sud; al contrario, scrive sempre Luraghi:
Più grande era la produzione di cotone, più elevato il ricavo, maggiori erano i profitti che finivano nelle camere corazzate delle banche settentrionali. Come un polemista intitolò un suo libro di analisi della situazione, era una questione di “ricchezza sudista e profitti del Nord” [Southern Wealth and Northern Profits]. Da questa opera […] emerge la più chiara smentita alle tesi […] secondo cui il Sud avrebbe accumulato, nel periodo pre-bellico, enormi profitti con la vendita del cotone. I profitti affluivano, effettivamente: ma erano tosto risucchiati dalle Banche del Nord.
Si aggiunga che gli abolizionisti si erano sempre attestati su posizioni politiche centraliste, e che d’altro canto, durante la guerra civile, molti proprietari di schiavi furono risoluti unionisti. Luraghi spiega inoltre come il sentimento razzista fosse più diffuso nel Nord, e come fosse peraltro caratteristico in modo precipuo degli stessi intellettuali antischiavisti. E se certamente, come si è visto, Lincoln non ne fu assolutamente avulso, non fu nemmeno esponente di questo ibrido “abolizionismo razzista”. L’immagine di Luraghi è come sempre efficacissima:
Malgrado il sorgere del movimento abolizionista […], malgrado l’abile uso della schiavitù da parte del Nord per condurre contro il Sud una campagna di discredito e di odio […], la schiavitù nel Sud non era minacciata in alcun modo; prima della secessione (e forse anche dopo) Lincoln e il Partito repubblicano erano disposti (e lo dichiararono apertamente e ufficialmente) a garantire per sempre la schiavitù nel Meridione mediante un apposito emendamento costituzionale che l’avrebbe resa inattaccabile finché i sudisti stessi non avessero deciso spontaneamente di eliminarla (con l’eventuale aiuto in denaro, pensava Lincoln, dello stesso governo federale). Chiaramente l’unico modo mediante cui il Mezzogiorno poteva garantire la schiavitù contro ogni attacco era la permanenza entro l’Unione.
Questa contraddizione si appalesa in un semplice dato: nel 1865, sul finire del conflitto, il Generale Robert E. Lee, comandante supremo dell’esercito confederato, aveva da tempo liberato i suoi schiavi, mentre il vincitore nordista, il Generale Ulysses S. Grant, rimaneva proprietario dei suoi. Ebbene, con tutto ciò come si spiega il noto e venerato “Proclama di Emancipazione” emanato da Lincoln il 22 settembre 1862? Il contesto bellico è fondamentale: la battaglia di Sharpsburg-Antietam, combattuta il 17 settembre dello stesso anno, aveva rappresentato il fallimento del tentativo nordista di invadere il Sud con un esercito di migliaia e migliaia di uomini, manovra infrantasi contro la lotta unanime del popolo meridionale. Di fronte a velleità pacifiste che andavano diffondendosi nel Nord, Lincoln ritenne necessario – volendo che il conflitto perdurasse ad ogni costo – trovare un argomento che “galvanizzasse i combattenti e – nello stesso tempo – erodesse il Sud dal di dentro”. Ed ecco spiegato il Proclama:
Una misura fiscale di guerra civile intesa ad espropriare i sudisti ribelli. Era infatti stabilito in esso a chiare lettere che gli schiavi sarebbero stati emancipati solo qualora i loro proprietari avessero persistito nella “ribellione”; e venivano accuratamente esclusi dalla emancipazione sia gli Stati a schiavi fedeli all’Unione che quelle parti del Sud che erano già state sottomesse con la forza delle armi.
Il giornale londinese The Spectator commentò in modo molto efficace: “Il principio di Mr. Lincoln non è che un essere umano non ha il diritto di possederne un altro: è che perde questo diritto se non è fedele all’Unione”. Alberto Pasolini Zanelli fornisce un ritratto dissacrante del medesimo Proclama:
Al Sud erano concessi cento giorni per rientrare in seno all’Unione. Alla scadenza di questo termine, cioè il 1 gennaio 1863, l’Atto di emancipazione degli schiavi sarebbe divenuto esecutivo. Era un ultimatum che, in pratica, diceva ai sudisti: “se rinunciate alla secessione vi lasceremo gli schiavi o ve li compreremo a prezzi di vostra convenienza. Seguitate a combattere, e li perderete insieme alla guerra e a tutto il resto”. Il documento era insomma assai meno nobile ed ecumenico di quel che voleva far credere: era una mossa psicologica e, al tempo stesso, una misura di guerra […][Esso] forniva alla guerra la motivazione morale di cui gli americani hanno sempre avuto bisogno per accettare di combattere. […] Nessuno ormai poteva dubitare che la causa del Nord fosse giusta, democratica, umana e gradita al Signore. Il fantasma di John Brown [discusso “martire” della causa abolizionista, n.d.r.] era stato arruolato in divisa blu. Anche in concreto, poiché subito dopo Lincoln dispose l’estensione ai non bianchi del reclutamento nell’esercito unionista. La cambiale della libertà veniva presentata subito all’incasso.
Dinnanzi a Lincoln si stagliava nondimeno un ostacolo non irrilevante: il Proclama di Emancipazione era, sotto ogni punto di vista, incostituzionale. E questo a prescindere dal fatto che, come colsero immediatamente i sudisti, si trattasse di un atto infame volto a spingere gli schiavi alla rivolta e al conseguente massacro dei bianchi – donne, vecchi, bambini e invalidi, essendo i maschi adulti impegnati al fronte. Esso violava la Costituzione poiché rappresentava una indebita intrusione dell’esecutivo nel legislativo: si rendeva dunque necessario codificarlo in un apposito emendamento, il Tredicesimo. Esso auspicava – nelle intenzioni di Lincoln – un’eliminazione graduale e diluita nel tempo della schiavitù, con annesso risarcimento federale agli ex proprietari. Si applicava inoltre solo agli Stati a schiavi fedeli all’Unione e ad eventuali Stati sudisti che si fossero arresi: tuttavia, poiché il Sud non ne voleva sapere di deporre le armi, all’inizio tali misure dispiegarono effetti solo negli Stati schiavisti unionisti, producendo un effetto perverso ampiamente previsto e voluto dal Presidente. Nel Nord si poté infatti finalmente dare il via ad una martellante propaganda “anti-schiavista”, al fine di spronare la popolazione e i coscritti a seguitare a sostenere con forza l’impegno bellico e causa unionista; con le parole di Luraghi:
I meridionali furono pertanto dipinti come i “malvagi schiavisti” da punire; ciò era perfettamente congeniale con la tendenza puritana, non infrequente nel Nord, a dividere il mondo tra “buoni” e “cattivi” e approfondì il solco di odio tra le due nazioni rendendo il conflitto inconciliabile. L’ultimo ostacolo sulla via della “guerra totale” era così stato tolto: essa appariva più che mai l’unico mezzo idoneo a piegare la tenace resistenza del Sud.
Scrive non senza ironia Kenneth M. Stampp, riferendosi a questa “crociata nordista contro il Sud”:
[...] molti Yankees avevano trasformato il loro desiderio di imporre il rispetto della legge nello spirito di una santa crociata. Mentre il Nord avrebbe salvato l’Unione, esso avrebbe anche portato la sua illuminata civiltà entro la cittadella della schiavitù. In breve, il Sud sarebbe stato civilizzato!
Ciò dovrebbe essere sufficiente a smontare i miti yankee del Lincoln emancipatore di schiavi e di un Nord avanguardista che esporta la civiltà nel rozzo Sud sulla punta delle baionette; dovrebbe inoltre far sospettare che ben altre fossero le cause all’origine della Guerra civile. Cause che meritano di essere finalmente analizzate.
[CONTINUA...]
Pubblicata su The Road to Liberty