Stemma di Carlo V a Castel Sant'Elmo
(Napoli)
Approdato nel porto di Trapani il di 17 agosto
1535, da quella città, ove dimorò nove giorni, passò ad Alcamo, poi a Monreale
il 3 settembre, e di là al 13 a Palermo. Ivi il parlamento, già intimato poco
prima, adunossi in sua presenza il 16, e a' 22, stante il breve soggiorno di
lui, ebbe spediti i lavori. Tra' quali primo, secondo le antiche usanze, il
donativo alla corona votato nella somma di 250,000 ducati per ragione di
straordinario servizio, da pagarsi in quattro mesi. Vennero poi le proposte di
riforme politiche e giudiziarie: quelle larghe, e, fuor d'una, la solita
ratificazione delle precedenti convenzioni e costituzioni, scansate con accorte
parole; queste ristrette e incomplete, come portavano le condizioni materiali è
morali del tempo, né radicalmente supplite dalle prammatiche imperiali, che,
appunto perciò non ressero anch'esse contro alle secolari abitudini.
Passati indi altri giorni in Palermo fra
sollazzi e pompe, verso la metà di ottobre prese Cesare la strada di Termini, e
toccate nel suo giro Polizzi, Troina, Randazzo, Taormena, venne il dì 21 a
Messina, ove fermossi sino al 2 novembre ed ebbe in dono le tele di Polidoro da
Caravaggio con diecimila scudi d'oro offertigli dal comune in due coppe
d'argento. Ai 3 di quel mese si imbarcò sopra una galea messinese, e, passato lo
stretto, prese terra alla Catona in Calabria, lasciando a viceré in Sicilia don
Ferrante Gonzaga. Quindi traversate le Calabrie e la Basilicata, dove il
principe di Bisignano in un suntuoso palazzo di legno fatto costruire
appositamente in una campagna abbondantissima di cacciagioni gli fece magnifica
accoglienza, pari a quella ch' ebbe poscia a Salerno dal principe di quella
città, entrò il di 25 novembre a Napoli, i cui maravigliosi apparati furono
opera dei più rari ingegni dell'epoca: Giovanni da Nola, architetto; Girolamo
Santacroce, scultore; Andrea da Salerno, pittore, discepolo di Rafaello.
Viceregnava a Napoli sin dal 4 settembre 1532
don Pedro Alvarez di Toledo, già bene innanzi nell'opera, che era suo intimo
fine, di sterpare, o con la maschera della giustizia o senza, qualunque ostacolo
e ne' baroni e nel popolo alla prepotenza sovrana. Per lo che attendendo a
spaventare gli animi dalla licenza, volle veder tutto e a tutti dare udienza:
non badò ad asili o a' privilegi di classe: mandò al supplizio uomini
principali, come il commendatore Gianfrancesco Pignatelli, che fidato nelle
aderenze aveva fino allora impedita la esecuzione della giustizia e ammutoliti
con le minacce i querelanti, il conte di Policastro e Mazzeo Pellegrino,
ricchissimo cittadino, contuttoché avesse offerte esorbitanti somme per
comporsi: represse i singolari conflitti e i frequenti ratti, morte intimando
del pari pel furto notturno che pel duello e per chi fin negli intrighi amorosi
usasse scale di qualsivoglia materia. Abbattè lo scoglio di Chiatamone e i
portici e le trabacche delle vie, tane d'assassini e di prostitute; e queste
raccolse in prefissi luoghi: raffrenò la licenza dei vendemmiatori che in
autunno andavano dicendo insolenze o disonestà a chi incontrassero: procurò
buona moneta e proibì di portarne fuori del regno: aggiunse due giudici ai
quattro del tribunale della Vicaria; ma i voti non volle si pubblicassero prima
di essere uditi dal fisco: questo, ossia la regia camera, riordinò con maggior
cura per supplire ai bisogni del signor suo: allineò e ammattonò alcune strade
di Napoli; e per renderla degna metropoli aveva già in mente gli abbellimenti e
le altre opere edilizie che più tardi compì(!).
Non bastando alla spesa dell’ammattonamento le
entrate della città, pose nel 1533 una nuova gabella di un tornese per rotolo
sopra il pesce, la carne salata e i formaggi. Ne tumultuò il popolo: Fucillo
Micone, venditore di vino, e altri capi del movimento andarono al patibolo; e
non pur quella gabella, ma un' altra ancora di un danaro per rotolo imposta nel
1535 per gli apparecchi contro il Barbarossa fu contemporaneamente
esatta.
Di qui le accuse di dispotico e violento, che
Gregorio Rosso, reletto del popolo, portò contro il viceré dinanzi
all'imperatore, avvalorate dai lamenti dei principali baroni, già avvedutisi del
pericolo di essere ridotti al niente sotto colore d' imparziale giustizia. Ma il
Rosso fu deposto, e surrogatogli Andrea Stinca venduto al Toledo: i nobili non
si accordarono sul modo di ottenerne la rimozione: conosciuto poi ch' egli era
assai in grazia dell'imperatore, allontanaronsi dalla lega: infine, senza
domandare né questo né altri compensi, decretarono a Cesare V, più tosto per
vanità e fasto, che per altro, inaudito dono di un milione e mezzo di ducati. Il
quale eccedeva talmente
le forze del regno, che Cesare stesso, vedendo
la impossibilità della esazione, dovette loro rimettere il mezzo milione.
Passato il carnovale del 1536 in continue
feste, giuochi, tornei, giostre e conviti, rallegrati dalla presenza de'
personaggi i più illustri d' Italia, partì l'imperatore da Napoli il di 22 marzo
alla volta di Roma, lasciandovi il Toledo con piena autorità che tenne per altri
17 anni, fino alla sua morte. E fu il Toledo vero tipo del governo vicereale cui
diede forma e principii, sia quanto allo scopo di far danari, sia quanto
all'abbagliare i sudditi con continue opere edilizie; massime nell'arte politica
di giovarsi dell'orgoglio de' baroni, dell'odio de' popolani contro i nobili,
dell'avidità del clero, per contrapporre l' uno all'altro questi ordini sociali,
e tenerti così tutti divisi e dipendenti.
Tratto da Giuseppe de Leva, Storia
documentata di Carlo V in correlazione all’Italia, Venezia 1867, Vol. III,
p.158-161
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