domenica 24 marzo 2013

Passaggio di Carlo V a Napoli

Stemma di Carlo V a Castel Sant'Elmo (Napoli)
 
 
Approdato nel porto di Trapani il di 17 agosto 1535, da quella città, ove dimorò nove giorni, passò ad Alcamo, poi a Monreale il 3 settembre, e di là al 13 a Palermo. Ivi il parlamento, già intimato poco prima, adunossi in sua presenza il 16, e a' 22, stante il breve soggiorno di lui, ebbe spediti i lavori. Tra' quali primo, secondo le antiche usanze, il donativo alla corona votato nella somma di 250,000 ducati per ragione di straordinario servizio, da pagarsi in quattro mesi. Vennero poi le proposte di riforme politiche e giudiziarie: quelle larghe, e, fuor d'una, la solita ratificazione delle precedenti convenzioni e costituzioni, scansate con accorte parole; queste ristrette e incomplete, come portavano le condizioni materiali è morali del tempo, né radicalmente supplite dalle prammatiche imperiali, che, appunto perciò non ressero anch'esse contro alle secolari abitudini. 



Passati indi altri giorni in Palermo fra sollazzi e pompe, verso la metà di ottobre prese Cesare la strada di Termini, e toccate nel suo giro Polizzi, Troina, Randazzo, Taormena, venne il dì 21 a Messina, ove fermossi sino al 2 novembre ed ebbe in dono le tele di Polidoro da Caravaggio con diecimila scudi d'oro offertigli dal comune in due coppe d'argento. Ai 3 di quel mese si imbarcò sopra una galea messinese, e, passato lo stretto, prese terra alla Catona in Calabria, lasciando a viceré in Sicilia don Ferrante Gonzaga. Quindi traversate le Calabrie e la Basilicata, dove il principe di Bisignano in un suntuoso palazzo di legno fatto costruire appositamente in una campagna abbondantissima di cacciagioni gli fece magnifica accoglienza, pari a quella ch' ebbe poscia a Salerno dal principe di quella città, entrò il di 25 novembre a Napoli, i cui maravigliosi apparati furono opera dei più rari ingegni dell'epoca: Giovanni da Nola, architetto; Girolamo Santacroce, scultore; Andrea da Salerno, pittore, discepolo di Rafaello. 



Viceregnava a Napoli sin dal 4 settembre 1532 don Pedro Alvarez di Toledo, già bene innanzi nell'opera, che era suo intimo fine, di sterpare, o con la maschera della giustizia o senza, qualunque ostacolo e ne' baroni e nel popolo alla prepotenza sovrana. Per lo che attendendo a spaventare gli animi dalla licenza, volle veder tutto e a tutti dare udienza: non badò ad asili o a' privilegi di classe: mandò al supplizio uomini principali, come il commendatore Gianfrancesco Pignatelli, che fidato nelle aderenze aveva fino allora impedita la esecuzione della giustizia e ammutoliti con le minacce i querelanti, il conte di Policastro e Mazzeo Pellegrino, ricchissimo cittadino, contuttoché avesse offerte esorbitanti somme per comporsi: represse i singolari conflitti e i frequenti ratti, morte intimando del pari pel furto notturno che pel duello e per chi fin negli intrighi amorosi usasse scale di qualsivoglia materia. Abbattè lo scoglio di Chiatamone e i portici e le trabacche delle vie, tane d'assassini e di prostitute; e queste raccolse in prefissi luoghi: raffrenò la licenza dei vendemmiatori che in autunno andavano dicendo insolenze o disonestà a chi incontrassero: procurò buona moneta e proibì di portarne fuori del regno: aggiunse due giudici ai quattro del tribunale della Vicaria; ma i voti non volle si pubblicassero prima di essere uditi dal fisco: questo, ossia la regia camera, riordinò con maggior cura per supplire ai bisogni del signor suo: allineò e ammattonò alcune strade di Napoli; e per renderla degna metropoli aveva già in mente gli abbellimenti e le altre opere edilizie che più tardi compì(!). 



Non bastando alla spesa dell’ammattonamento le entrate della città, pose nel 1533 una nuova gabella di un tornese per rotolo sopra il pesce, la carne salata e i formaggi. Ne tumultuò il popolo: Fucillo Micone, venditore di vino, e altri capi del movimento andarono al patibolo; e non pur quella gabella, ma un' altra ancora di un danaro per rotolo imposta nel 1535 per gli apparecchi contro il Barbarossa fu contemporaneamente esatta. 



Di qui le accuse di dispotico e violento, che Gregorio Rosso, reletto del popolo, portò contro il viceré dinanzi all'imperatore, avvalorate dai lamenti dei principali baroni, già avvedutisi del pericolo di essere ridotti al niente sotto colore d' imparziale giustizia. Ma il Rosso fu deposto, e surrogatogli Andrea Stinca venduto al Toledo: i nobili non si accordarono sul modo di ottenerne la rimozione: conosciuto poi ch' egli era assai in grazia dell'imperatore, allontanaronsi dalla lega: infine, senza domandare né questo né altri compensi, decretarono a Cesare V, più tosto per vanità e fasto, che per altro, inaudito dono di un milione e mezzo di ducati. Il quale eccedeva talmente 

le forze del regno, che Cesare stesso, vedendo la impossibilità della esazione, dovette loro rimettere il mezzo milione. 



Passato il carnovale del 1536 in continue feste, giuochi, tornei, giostre e conviti, rallegrati dalla presenza de' personaggi i più illustri d' Italia, partì l'imperatore da Napoli il di 22 marzo alla volta di Roma, lasciandovi il Toledo con piena autorità che tenne per altri 17 anni, fino alla sua morte. E fu il Toledo vero tipo del governo vicereale cui diede forma e principii, sia quanto allo scopo di far danari, sia quanto all'abbagliare i sudditi con continue opere edilizie; massime nell'arte politica di giovarsi dell'orgoglio de' baroni, dell'odio de' popolani contro i nobili, dell'avidità del clero, per contrapporre l' uno all'altro questi ordini sociali, e tenerti così tutti divisi e dipendenti.



Tratto da Giuseppe de Leva, Storia documentata di Carlo V in correlazione all’Italia, Venezia 1867, Vol. III, p.158-161


 
 
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