Ferdinando Russo nacque a Napoli il 25 novembre 1868, da Gennaro, ufficiale del dazio, e Cecilia De Blasio. Giovanissimo, abbandonando gli studi, entrò come correttore di bozze alla Gazzetta di Napoli per dedicarsi in seguito alla professione giornalistica.
Con la sua ricca produzione di testi, versi e canzoni, seppe essere vivido interprete dell’animo napoletano, tratteggiando personaggi e ambienti incontrati nella quotidianità di una Napoli popolare carica di dolente nostalgia per il recente passato, ancora ben vivo nella memoria, e di disincanto per il difficile presente.
Scrisse numerose raccolte di versi ( 'N paraviso , 1891; 'O cantastorie , 1895) e brevi poemetti, tra cui 'O Luciano d' 'o rre (1910) e 'O suldato 'e Gaeta (1919) sono certamente i più conosciuti.
Fu autore anche di romanzi ( Memorie di un ladro , 1907; I ricordi del fante di picche , 1919), testi teatrali (Paranza scicca , 1921), saggi eruditi sulla letteratura napoletana ( Il gran Cortese , 1913), canzoni e “macchiette” di successo.
Morì improvvisamente il 30 gennaio 1927, nella sua casa di Via Cagnazzi, mentre era intento a scrivere una nuova canzone.
Nelle pagine che seguono è proposto il testo del poemetto in versi ‘O luciano d’ ‘o Rre che narra la storia di Luigi, un venditore di ostriche ormai avanti negli anni, che in gioventù aveva fatto parte della scorta di luciani , i fedeli marinai del borgo di Santa Lucia in Napoli che accompagnarono il re Ferdinando II di Borbone e la famiglia reale nel viaggio verso Bari, all’incontro con la principessa Maria Sofia di Wittelsbach, sposa dell’erede al trono Francesco II. Durante il viaggio, iniziato nel gennaio 1859, Ferdinando accusò i gravi sintomi della misteriosa malattia che lo condusse alla morte in soli cinque mesi. Le prime avvisaglie si evidenziarono dopo il pernottamento presso il vescovo di Ariano Irpino (AV), Mons. Caputo, che in seguito fu ritenuto responsabile dalla convinzione popolare di aver avvelenato il Re. L’accusa non fu mai mossa ufficialmente né fu confermata dai medici che ebbero in cura Ferdinando, ma rimase a lungo l’ipotesi più accreditata anche perché Mons. Caputo stesso, dopo l’unificazione della Penisola, allo scopo evidentemente di acquistare meriti agli occhi del nuovo potere sabaudo, si vantò in diverse occasioni di aver effettivamente causato la morte del monarca delle Due Sicilie. Recentemente, nuove ricerche sul decorso della malattia, sottoposte al parere scientifico di un eminente paleopatologo dell’Università La Sapienza di Pisa, il prof. Gino Fornaciari, hanno avvalorato la tesi che si sia trattato di una setticemia causata da un ascesso saccato, della ferita inferta a Ferdinando nell’attentato di Agesilao Milano, l’8 dicembre del 1856 [cfr. Gennaro De Crescenzo, Ferdinando II di Borbone , Editoriale Il Giglio, Napoli 2009]. Nei suoi versi, Russo rievoca la morte del Re Ferdinando II, con la triste consapevolezza che essa segnò la fine del Regno, realizzando i piani di massoni e liberali ed aprendo le porte all’invasione piemontese. Le parole dell’ostricaro Luigi esprimono la dolorosa evidenza delle tragiche conseguenze di quella morte e quanto essa sia costata ai popoli delle Due Sicilie.
‘O luciano d’ ‘o Rre
I nottambuli napoletani ricorderanno certo una bettola che ora più non esiste, intitolata al Progresso, a mezzo la via Nardones. Colà convenivano, fino a una diecina o una quindicina d’anni or sono, un po’ tutti gli appassionati delle ombre o i costretti, dal genere del loro lavoro e dei loro vizii, a vegliare mentre gli altri dormivano. Giornalisti, artisti, scrittori, giocatori, comici, biscazzieri, barattieri, fannulloni, mezzani d’usura, affollavano nelle ore antelucane il locale, in cui don Ciccio ‘o russo , il padrone, passeggiava sopra pensieri o discorreva con gli assidui, o troneggiava dal suo banco dando ordini o consigliando di bere quella tal qualità di Gragnano o quella tal altra di Aleatico. I tipi si seguivano ai tipi, e si mescolavano, e si affratellavano, mentre, nell’ire e venire di gente che si fermava, si aggruppava un po’ attorno a tutti i tavoli, o s’indugiava a centellinare in piedi il bicchierino, Peppino il garzone - discendente dai magnanimi lombi del famoso Monzù Testa, - badava a servir gli avventori, con le braccia in alto e le mani cariche di stoviglie, come un acrobata o un equilibrista, senza far cadere una sola gocciola di unto; e, alle assidue richieste dei ghiottoni di frutti di mare, chiamava a gran voce l’ostricaro. Era costui un vecchio marinaio di Santa Lucia, alto, tarchiato, massiccio, color del bronzo, con un paio di spalle che parevano sbozzate dall’accetta, un viso sbarbato, quadrato, ampio, che ricordava singolarmente quello del pan busto di Vespasiano, una caratteristica bocca larga avente agli angoli i segni d’una perenne amarezza. Pochi capelli grigi gli contornavano la fronte e le tempie; e le mani, enormi, gonfie, rosse e come tumefatte, si stendevano, tutte screpolate dalla salsedine, sui tavoli, per deporre le spaselle con le ostriche, umide, fragranti ed ornate del trasparente smeraldo dell’alghe. Ai lobi delle ampie orecchie, gli brillavano due cerchietti d’oro. Allorché la sua vantaggiosa figura appariva nel pandemonio, fra l’acciotto dei piatti e il tintinnardelle bottiglie e dei bicchieri, era un coro allegro di richiami e di motteggi, innanzi ai quali egli rimaneva impassibile finché non perdeva la pazienza. - «Luigi! Luigi! Vieni qua, Luigi!... Dacci una dozzina di ostriche!... E parlaci un po’ di Ferdinando II...» Al nome del suo Re, il luciano, commosso, prestamente si sberrettava. - «Coppola nterra!», egli diceva, fissando col suo occhio grifagno le comitive burlevoli. - «Coppola e denocchie!... Chillo era ‘o Rre!...». Un coro di scherno l’interrompeva: E Garibaldi? Come? Sta zitto! - che dici! - E Garibaldi?... Dove lo metti, Garibaldi? A quest’altro nome, la faccia di Luigi l’ostricaro pigliava a un tratto una espressione terribile, fra l’odio, il disprezzo, il dolore, il desiderio ferino. Se aveva ancora il berretto in mano, lo rimetteva in testa rapidamente, con rabbia, e lo calcava fin su le orecchie. Poi, voltava le spalle e andava borbottando dal tavolo dei motteggiatori, e non c’era più verso di indurlo ad aprire per essi le ostriche. Talvolta, quando non aveva troppo bisogno di danaro, giungeva fino a dichiarare di non voler vendere le ostriche; e, bestemmiando fra i denti, infilava la porta, raccoglieva sotto il braccio, una nell’altra le spaselle , sollevava con la polputa mano il gran cato di legno, e via, a grandi passi, verso le ombre della piazza San Ferdinando, che attraversava ciondolando, per raggiungere la discesa della vecchia Santa Lucia. Quando andai a chiedere di lui, seppi quel che supponevo. Era morto da circa una decina d’anni. Né potei sapere se avesse, e dove, lasciato famiglia o figliuoli. Io ero fra gli avventori suoi simpatici perché non lo tormentavo mai, non lesinavo sul prezzo delle ostriche, ed esprimevo, contro i volgari motteggiatori, qualche simpatia per Ferdinando II. Fin da allora mi frullava per la mente il pensiero di raccogliere da labbra borboniche popolane il racconto dell’ultimo viaggio e della morte del Re di Napoli per farne oggetto di un mio studio e dare il tipo dell’ultimo luciano fedele ed esaltato, come erano tutti della singolarissima tribù marinara ai tempi in cui Re Ferdinando ne conosceva uno per uno i componenti, da quelli che formavano gli equipaggi del Saetta, del Tancredi, del Delfino, del Messaggero, del Fulminante, fino ai suoi sommozzatori ed ai suoi pescatori. Aveva il Re una gran fede nella loro fede, e scherzava con essi familiarmente e chi ha letto La fine d’un Regno del de Cesare, e le altre storie del Nisco, del Farneraro, del de’ Sivo, del Bernardini, sa di quali favori godessero i luciani Raffaele e Vincenzo Criscuolo, padre e figlio, e come fosse specialmente popolare il primo, don Rafele ‘a lancia , e con quanta brusca dimestichezza trattasse talvolta i rampolli reali. Nella sua opera, Raffaele de Cesare dice che i luciani non accompagnarono il Re in quell’ultimo viaggio; Luigi l’ostricaro affermava che solo quattro, e dei fidi, segretamente lo seguirono dal primo giorno, e che egli era tra costoro. Ed aggiungeva - come raccolgo dal mio taccuino di appunti – che mentre il Re, con la famiglia e gli aiutanti di campo, partiva in carrozza da Caserta alla volta di Manfredonia, salpava per Trieste il Fulminante con a bordo Raffaele Criscuolo la lancia e i quattordici marinai suoi dipendenti che formavano l’equipaggio di essa; e contemporaneamente muoveva per Manfredonia il Tancredi con a bordo Vincenzo Criscuolo, avente ai suoi ordini i quattordici marinai dell’equipaggio della seconda lancia, la l’utile , come la prima, batteva, così allora dicevasi, padiglione reale. Il 1° febbraio 1859 il Tancredi, che non aveva trovato a Manfredonia il Re, perché questi si era ammalato per via, ripiegò a Bari, ove il Re era in grave stato, e vi aspettò il Fulminante che aveva a bordo la principessa Maria Sofia. I marinai delle due lance erano, in maggior numero, luciani; se ne contavano pochi di Sorrento, qualcuno era di Porto, qualche altro di Castellammare. Allorché fu deciso di ricondurre il Re a Caserta egli venne issato, com’è detto anche nell’opera del de Cesare, con tutto il suo letto, a bordo del Fulminante; ed i suoi fedeli marinai presero con grande ardore a vegliarlo e accudirlo. Gli davano il bagno, lo sostenevano a braccia come un fanciullo gli cambiavano le lenzuola ed i guanciali, cercavano di alleviargli in ogni modo le orribili pene. E piangevano. E il Re diceva loro: - Grazie, figliuoli! Raccomandatemi alla Madonna della Catena, e pregherò per voi… Dalla Villa della Favorita a Portici, nelle cui acque il Fulminante gettò l’ancora, gli stessi marinai condussero il Re alla stazione e lo adagiarono nel vagone che doveva trasferirlo a Caserta. Quattro di essi soltanto – e forse quelli che lo scortarono nel viaggio - presero posto nel medesimo vagone. Di tre di costoro si sa il nome Francesco Raffaele di Lipari, Carlo Corallino di Porto, Salvatore Santaniello di Castellamare di Stabia. Colui, che a mezzo dell’amico commendator Franz Lecaldano, mi forniva tali notizie, si chiama Giosuè Servino, fu tra i primi marinai del Re, ed ora conta 75 anni. Non ricordava il nome del quarto. Ma non sarebbe strano ritenere che possa trattarsi proprio di quel Luigi l’ostricaro del quale più innanzi riproducono fedelmente in versi il racconto. Quando mi venne la prima idea di intervistarlo non pensai alla utilità di segnarne il cognome. E ora me ne dolgo con me stesso. Questo superstite Servino che faceva, con Raffaele Criscuolo, il servizio quotidiano postale per il Re, tra Caserta e Napoli, racconta pure che il vecchio duca di Serracapriola, recatosi a rilevare a Trieste la principessa Maria Sofia, ebbe in dono dalla Imperatrice d’Austria un ritratto; e lo affidò al Servino. In quel periodo di trambusti non vi pensò più; ma il Servino, che aveva gelosamente custodito quel ritratto, dopo qualche tempo si recò dal duca, al palazzo di costui alla Riviera di Chiaia, e glielo consegnò. E il duca gli fe’ dono di dieci piastre. Molti punti del racconto di Luigi l’ostricaro - del qual alcune frasi caratteristiche segnai fin da allora nel mio taccuino, - corrispondono a particolari consacrati nei volumi del de Cesare non solo, ma in quelli del Nisco, del de’ Sivo, del Bernardini, del di Martino (recentissime Ricordanze storicomorali), ed ai ricordi dell’ex marinaio Servino. Il quale faceva notare, inoltre, che gli storici s’ingannarono allorché affermarono la defezione di tutta la Marina napoletana. Non tutta defezionò: i marinai napoletani capitanati dai Criscuolo padre e figlio, (e Vincenzo Criscuolo è vivo e può dirlo) condussero i tre bastimenti ad essi affidati, e cioè il Saetta, il Messaggero e il Delfino, fuori tiro degl’italiani (come allora dicevano). Il Messaggero e il Delfino potettero guadagnare le acque di Civitavecchia e vennero consegnati al governo pontificio: il Saetta, raggiunte le acque di Marsiglia, fu dato in consegna al generale Cutrofiano. Tanto Luigi l’ostricaro quanto il Servino han dichiarato dunque, assai vivacemente, falsa l’asserzione del tradimento di tutta la Marina borbonica. Essi, dei bastimenti ove imbarcavano, non cedettero, per dirla con la loro frase energica, manco nu chiuvo ! Ed ora: ho voluto forse io smentire o correggere quanto afferma, a tal proposito l’illustre de Cesare nella sua opera insigne? Dio me ne guardi. Mi sarebbe stato invece assai facile modificare le ottave dialettali su le notizie di cui è così ricca La fine d’un Regno; ma non ho voluto farlo perché mi è parso di dover conservare al componimento poetico tutto il carattere popolare, per non alterare il tipo del luciano borbonico, nella tenacia delle sue convinzioni, nei suoi scatti, nelle sue rampogne, nei suoi sfoghi, contro la libertà ed i liberali. Perché sfrondarlo appunto di tutto quello che può costituirne il fedele ritratto? Del resto, oltre l’asserzione che da Caserta accompagnarono il Re solamente quattro marinai, - segrete guardie del corpo, ben celate, fra il seguito - il racconto di Luigi l’ostricaro combacia in molti punti con quello degli storici. Restano gli sfoghi di questo vecchio, ed il giudizio dei lettori benevoli e malevoli. Gli sfoghi sono autentici, e basta la mia affermazione a chi sa come sia consuetudine il lavorare sul vero. Quanto ai lettori malevoli, pensino per quel che vogliono. Anni or sono mi buscai, nientemeno, un processo per altro tipo di popolano che fu oggetto di mio studio: ‘O pezzente e’ San Gennaro . Questo Pezzente, dell’Ospizio di San Gennaro extra moenia, era un giorno seduto, fumacchiando, nei giardini di Piazza Cavour. Mi sedetti accanto a lui e lo feci parlare. Segnai le sue escandescenze e i suoi pianti nel mio taccuino, ne ricavai una macchietta popolana, ed ebbi la idea di pubblicarla nel Mattino . Il Mattino fu sequestrato con una ordinanza del Procuratore del Re de Marinis. Vennero gli agenti nella tipografia del giornale, buttarono all’aria i caratteri, fu aperto procedimento contro di me per offesa alle istituzioni! E il giorno dopo, nel medesimo Mattino , Eduardo Scarfoglio pubblicò un articolo di fondo intitolato: Il terribile anarchico Ferdinando Russo . Chiamato innanzi al giudice istruttore cavalier Lopes - con «mandato di comparizione» - io m’inerpicai ridendo per le smussate scale del vecchio monastero di Donn’Albina, ove s’annidava, come un pipistrello, la Giustizia e feci la mia deposizione. - Perché avete scritto quella macchietta? - Perché d’ordinario, mi diverto a scrivere. - Ma come? - Sì, mio Dio! È un gusto come un altro! C’è chi si ficca le dita nel naso, chi gioca al lotto, chi manda lettere d’amore alla zia monaca per avere una sfogliatella e dieci lire, io scrivo macchiette... - Avevate, scrivendo quella, l’intenzione di offendere ecc. ecc. ecc.? Fui quasi tentato di rispondere sì, tanto mi pareva balorda la cosa. Per fortuna, il magistrato era una persona di spirito, oltre ad una persona intelligentissima, e l’avventura finì, come diciamo noialtri napoletani, a vrenna ... Senonché... non finì completamente. Ebbe una coda di balordaggini poliziesche. Quando Nicola Maldacea, innamorato del tipo, volle interpretarlo con un commento musicale - e fu una delle più forti sue creazioni - la Pubblica Sicurezza intervenne, a Napoli e a Roma, e, credo, pure altrove. La macchietta dovette essere modificata: il ritornello, che invocava Francischiello , cambiato. Ma il pubblico andava e va lo stesso in visibilio per Maldacea, quando lo sentiva e lo sente borbottare con la voce tremante: Tanno, ‘e ppezze ‘e ttenèvano pe’ niente, e mo ‘e ttenimmo... nfaccia a li cazune! Le prime quattro strofe di questo mio poemetto sotto il titolo ‘O marenare ‘e Santa Lucia , diedero l’ispirazione a Peppino Villani d’interpretarne il tipo. Egli è riuscito a fare opera di arte superba. Truccato da vecchio pescatore luciano, si presenta ai pubblici che lo ammirano; ma poiché in quelle prime quattro strofe non vi è alcuna allusione politica, egli non è stato molestato dalle «Autorità». Forse, sarebbe stato buttato a marcire in una tetra prigione se non si fosse limitato a quelle o avesse scelto altre strofe più piccanti. Quanto a me, non dispero, dopo la pubblicazione di questo libro, di perdere i diritti civili e politici, per venir poi, con una palla di cannone al piede, precipitato in quel tenebroso mare che era, - come tutti ricordano, - cimitero del castello d’If!
Napoli, dicembre 1910
Ferdinando Russo
I
Addò se vére cchiù, Santa Lucia? Addò sentite cchiù l’addore ‘e mare? Nce hanno luvato ‘o mmeglio, ‘e chesta via! N’hanno cacciato anfino ‘e marenare! E pure, te facea tant’allegria, cu chelli bbancarelle ‘e ‘lastricare! ‘O munno vota sempe e vota ‘ntutto! Se scarta ‘o bello, e se ncuraggia ‘o brutto! Ah, comme tutto cagna! A tiempo ‘e tata, ccà se tuccava ‘o mare cu nu rito! Mo ncopp’ ‘o mare passa n’ata strata, tutto va caro, e niente è sapurito! Santa Lucia m’ha prutiggiuto sempe! M’ha rata ‘a vista ‘e ll’uocchie, pe’ verè ca l’ommo cagna comme cagna ‘o tiempe, e ca chi sa che véne, appriesso a me! lo, quacche vota, quanno sto nfuscato e me straporto a quann’ero guaglione, me crero ca so’ muorto e sutterrato sott’ ‘a muntagna ‘e chisto Sciatamone! Pare n’ato paese! È n’ata cosa! Tu nce cammine e nun te truove cchiù... E pure, è certo, era accussì spassosa, Santa Lucia d’ ‘a primma giuventù! Arbanno juorno, dint’ ‘e vuzze, a mmare, d’addore ‘e scoglie e d’ostreche zucose! Verive ‘e bbancarelle ‘e ll’ustricare cu tutt’ ‘o bbene ‘e Ddio, càrreche e nfose! E chelli ttarantelle int’ ‘a staggione! penimene assai cchiù belle ‘e chelle ‘e mo! uocchie ‘e velluto, vocche ‘e passione, lazziette d’oro e perne, int’ ‘e cummò! Tutt’ ‘e ccanzone 1’ ‘e ppurtava ‘o mare P’’a fest r’ ‘a Maronna r’ ‘a Catena, cu ‘a bbona pesca, ‘e cuoppe r’ ‘e renare, e ‘a cantma ‘e Cient ‘anne sempe chiena! Mo… che ne cacce? Ccà s’è fravecato! Tutto è prucresso, pe’ puté arrunzà! Si’ marenaro? E, quanno ‘e faticato, fai ll’uocchie chine... e ‘a rezza nun t’ ‘o ddà!
II
Quanta ricorde! Quanta cose belle! N’arena d’oro e n’abbundanza ‘e ciele! Treglie e merluzze, vive, int’ ‘e spaselle, e ‘o mare tutto cummugliato ‘e vele! Veneva ‘a voce, da li pparanzelle: «Aonna, ‘o mare! Aonna!...». E li ccannele s’appicciavano nnanza a li Ssant’Anne, p’ ‘a pruvverenzia «eh’è venuta aguanne!» Te redevano ll’uocchie comm’ ‘o sole!
III
Io mo so’ bbiecchio, tengo sittant’anne, a sbentura mm’ha fatto ‘o core tuosto, embè, affruntasse pure ad malanne Pe’ vede ancora ‘a faccia d’ ‘o Rre nuosto!
Ferdinando Sicondo. E che ne sanno?! Coppola ‘nterra! N’ ‘o ttengo annascuosto! E nce penzo, e me sento n’ato ttanto! So stato muzzo, a buordo ‘o Furminanto ! ‘O Rre me canusceva e me sapeva! Cchiù de na vota, (còppola e denocchie!) m’ha fatto capì chello che vuleva! E me sàglieno ‘e llacreme int’all’uocchie! ‘A mano ncopp’ ‘a spalla me metteva: «Tu nun si’ pennaruto e nun t’arruocchie! Va ccà! Va Uà! Fa chesto! Arape ‘a mano!». E parlava accussì: napulitano! Quanno veneva a buordo! Ma che vita! Trattava a tuttuquante comm’a frato! Sapeva tutt’ ‘e nomme: Calamita , Mucchietiello, Sciatone, ‘o Carpecato... Erano gente ‘e core! E sempe aunita! «Murimmo, quann’ ‘o Rre l’ha cumannato!» Mo che nce resta, pe’ nce sazzià? Ah!... Me scurdavo ‘o mmeglio!... ‘A libbertà! ‘A libbertà! Chesta Mmalora nera ca nce ha arredutte senza pelle ‘ncuolle!... ‘A libbertà!... Sta fàuza puntunera ca te fa tanta cìcere e nnammuolle!... Po’ quanno t’ha spugliato, bonasera! Sempe ‘a varca cammina e ‘a fava volle, e tu, spurpato comm’a n’uosso ‘e cane, rummane cu na vranca ‘e mosche mmane!... ‘A libbertà’. Mannaggia chi v’è nato! ‘A chiammàsteve tanto, ca venette! Ne songo morte gente! S’è ghiettato a llave, ‘o sango, sott’ ‘e bbaiunette!... Mo, vulesse vere risuscitato a ‘o Rre ca n’ ‘a vuleva e n’ ‘a vulette! E isso, ca passai pe’ ttraritore, se ne facesse resatune ‘e core!
IV
Comme lle piaceva ‘a capunata! Quase ogne juorno na capunatella! Se ne faceva justo na scialata, e doppo, ‘o bicchierino e ‘a pastarella. Po’, cu na bona tazza ‘e ciucculata, se pastiggiava sempe ‘a marennella... Ah, chella tazza! Chella tazza fuie, ca, comm’a mo, nce ha rruvinato a nuie! Ce nce mettete ‘a rinto, chillo mpiso ca, pe’ farlo muri, l’avvelenaie? Meglio era s’isso nce mureva acciso! Isso, ch’è stato ‘a causa ‘e tutt’ ‘e guaie! ‘ORre nuosto ‘o ssapette, ‘nparaviso, e certo, ‘o ggiurarrìa, nce ‘o pperdunaie! Ma si nun era ‘o ttuòsseco ‘e sta tazza, n'avriamo viste tanta cane 'e chiazza! Lassammo sta’! Nun ricurdammo niente! Quanno nce penzo me sento malato! Se verèvano a sciumme, ‘e ppèzze ‘argiente! Mo è raro pure ‘o sordo scartellato! Trasètteno?... Ma a botte ‘e trademiente! Nun me dicite ca me so’ ngannato! Trasèttemo, gnorsì!... Senza cammise! E ‘o ddicevano stesso ‘e piamuntise! Mo lloro stanno ‘a coppa!... Mo sta bene! Ma, p’arrivà, n’hanno magnato sivo!... A Palazzo Riale, ‘e ccasce chiene! Nce hanno spurpato anfino all’uosso vivo! M’aggia sta’ zitto, è ove? Nun ve cummene ‘e me sentì parla?... Ve fa currivo?! Llà s’avriano jucato a paro a sparo pure ‘o Santo Tesoro ‘e San Gennaro! So’ biecchio? So’ gnurante? Nun capisco? Me sustenite ch’è tutt’ ‘o ccuntrario? Embè... voglio sapé che fosse ‘o Fisco! Nun fui n’aggrisso ‘o cchiù straurdinario? tengo ‘a rrobba, tu m’ ‘o mmiette, nfrisco, po me rice ca serve pe’ l’Arario! parole nove!... Io nun cumbino cchiù! St’Arario fui ca t’ ‘o mmagnaste tu! Chi ne sapeva niente, ‘e chesti ttasse? L’oro jeva accussì... comm’ ‘e lupine! gnuno, a gusto suio, magnava ‘e grasse, cu ‘e ssacche chiene ‘e rurece-carrine! Mo manco cu ‘e patane uno se ngrasse, ca vann care comm’ ‘e tagliuline!... Songo gnurante? Avraggio tutt’ ‘e tuorte! Ma quann mai, io jastemmavo ‘muorte ?! Me so’ mparato mo!... È ‘o sango stesso ca se revota e nce scumbina ‘e ccape!... Ah, tiempo bello!... Si’ squagliato ampresso! Nui simmo addeventate tanta crape! Ah, so’ gnurante?... Nce ‘o scuntammo appriesso! Po’ verimmo sta porta chi l’arape! ‘E palazze?... So’ belle!... ‘E strate?... Pure! Ma s’è perza ‘a semmenta d’ ‘e signure! Addò stanno, Statella e Muliterno, nu meo r’ ‘a Riggina o n’Uttaiano! Fosse cchiù certo ‘e vengere nu terno! Nun m’avantasse cchiù: « So’ luciano!». È stata vuluntà d’ ‘o Pat’Eterno, si no v’ ‘o scummettesse a piezzo ‘nmano, ca, si nun era munzignor Caputo, chillo’ ‘o Sissanta, nun sarria venuto!
V
So’ stato marenaro mmiezo ‘a scorta d’ ‘o Rre, malato ‘e chella malatia! Tutte pronte a vigliarlo! Arreto ‘a porta, nnanz’ ‘a carrozza, sulo, ‘ncumpagnia... Mai na parola! Mai na faccia storta! Mai nu suspetto, pe’ Santa Lucia ! Era sicuro ‘e ji, venì, resta... ‘E lucianne suoi stevano llà!... Stevano Uà! Na squatra pronta a tutto! Ogne parola, ogne guardata, ogn’atto! Viaggio tristo assai! Viaggio brutto! Cchiù de na vota s’è purtato ‘nquatto! Isso, ca ne vulea tira ‘o ccustrutto, n’arrivava a sapé che s’era fatto pe’ chella malatia misteriosa, accussì nfama a tantu mai schifosa! Vi’ c’anno fui, chello Cinquantanove cu chillo spusalizzio ‘e Francischiello! L’otto ‘e Jennaro, chiove, chiove e chiove! C’aveva fa’? Partette, ‘o puveriello! Lampe e saette, mmiezo ‘e strate nove, e pigliaimo nu bello purpetiello... Già, ‘o Rre, ca nce credeva, ‘a jettatura, se ll’era ntruitata, sta sbentura! Partennp aveva ritto: «Si ncuntrammo monaco, nu zuoppo o nu scucciato, partenno rrànu malauno! Cammenammo!...» E da nu piezzo se sentea malato. Mun fui parola ritta, nui guardammo, già ‘o penziero suio s’era avverato! Chi ncuntrammo? Tre muònece! ‘O ddicette! Escatasciàino trònole e saette! A Mugnano, cu ‘o friddo dint’all’ossa, scennette e jette a Santa Filumena. I sso, ‘e figlie, ‘a Riggina, rossa rossa, sott’anu viento ca ‘o Signore ‘o mmena! Se sape! ‘O sango Ile fa tal mossa, cadintt’ ‘a cchiesia se riggeva appena! Doppo, s’abbatte ncopp’a nu cuscino, e che nuttata cana, anfi’ ‘Avellino! Meno male ca po’ se repigliaie e’ojuorno appriesso, all’unnece, partette! Macredite ca "o tiempo s’accunciaie? ‘O nfierno pure Uà nce se mettette! Amunno mio, nun m’è succiesso maie! Fui tanta e tanta ‘a neva che cadette, ch’io nun v’abbasto a dicere: zeffunno! Uà nce cadette ‘a neva ‘e tutt’ ‘o munno!... Nu cielo ‘e chiummo, na campagna janca, ennanz’all’uocchie nu lenzuolo ‘e neva! Tu vai cecato... ‘A zoza ca te stanca, ‘eddete ‘e fierro... E ‘a forza, chi t’ ‘a deva?
Po' cierti vventecate , a dritta e a manca , ca sulamente Dio nce manteneva... -Che facimmo?... Fermammo, Maistà? E isso: - Jammo nnanza a cammenà! Ma ch’era ‘acciaro, o steva ‘nfrennesìa? avevamo tre passe ogne doj’ ore! E duraie e duraie, chesta pazzia, nfi’ a quanno nun turnaie ‘o battitore. -Maistà nun è pussibbele, p’ ‘a via... Cvà passammo perìcule e mmalore... E, cunzigliato da ‘o barone Anzano, isso urdinaie: - Vutammo p’Ariano! E jettemo add’ ‘o Vescovo! Capite? E ‘o vescovo era Munzignor Caputo! Doppo nu miglio a ppede, me crerite? ‘o Rre arrivai nu straccio! Nterezzuto! E no sul’isso! Stevamo sfenite! Nun tenevamo ‘a forza ‘e chiammà ajuto! ‘A Riggina, pe’ farve perzuvaso, jeva int’ ‘a neva cu ‘e scarpine ‘e raso!... Che nce vulette, pe’ piglia calimma! ‘A sera, ‘a bbona ‘e Dio, votta e magnammo! Llà fuie ‘o mbruoglio! ‘O ppriparàino apprimma chello vveleno, o che?... Nun ne parlammo! Dicetteno ca no!... Bella zuzzimma! Quant’è certo stu juorno ca sciatammo, stu Munzignore ca v’annummenaie, dopp’ ‘o Sissanta , po’... se n’avantaie! Embè, chesto se fa?... Pròssemo tuio, ca 1’ ‘e cercata ‘a mitria e te l’ha data, ca vene a’ casa toia, pe’ gusto suio, ‘o vaie a ntussecà cu ‘a ciucculata!... Ma s’io songo tentato, io me ne fuio, nun già ca sceglio justo ‘a mala strata sulo pecche vene ‘o Demmònio e dice: «Avvelenarne a chisto, e simm’amice!...». S’era perduto ogni timore ‘e Ddio! Putive suspettà ‘e nu saciardote? Va buono, se mpattai!... Ma ve rich’io ca l’avarrìano acciso ciento vote! Chisto, verite, è razziucinio mio! Nce n’addunàimo! Ch’èramo, carote? E po’... si parie ca nun si’ birbante, che vene a di’ ca doppo te n’avante?!
VI
‘O Rre, ca già nun se senteva buone, pecche già ncuorpo serpiava ‘o mmale, se sape! quann’avette ‘o calatone se sentette cchiù peggio! È naturale! Rasta; nun ‘o mettimmo ‘n custione, nun c’è scurdammo ‘a cosa princepale! Comme vulette Ddio, llà dintu llà, aanàjemo... e nce ne jettemo a cuccà. Ma ‘a notte, all’antrasatto, nu remmore nce mena tutte dint’ ‘a stanza ‘o Rre... Vedennolo, accussì, cu ll’uocchie ‘a fore, l ‘addimannammo: - «Neh! Maistà... Che r’è?». _ «Llà... Uà... chill’ommo... Nu cuspiratore... Se vuleva accustà... vicino a me... Da nu spurtiello... dint’ ‘o muro... llà...» E nui cercàimo... Ma che vuò truvà! S’era sunnato, e overo se credeva d’ave vist’uno ca l’assassenava, quanno ca pe’ sti suonne che faceva chell’era ‘a malatìa che cammenava! E chi durmette cchiù?! Nun te teneva! Arbava juorno e se chiacchiariava... All’otto, n’ata vota ‘a stessa renza! Nce sentettemo ‘a messa, e po’: partenza! Che precepizzio ‘e via dopp’Ariano, jenno pe’ Foggia e Andria e pe’ Canosa! ‘O Rre malato, chillo tiempo cano, nu mbruoglio pusetivo ‘e tuttecosa! Ogne vivò , isso cacciava ‘a mano... (‘A veco sempe, chella mana nfosa...) E po’ a Bitonto, pe’ Ruvo e Trellizze, e gente c’aspettava a tutte pizze... Aspetta, aspetta! O Rre passava ‘e trotte, pe’ tuccà Manferònia ampressa ampressa! E p’Acquaviva nce passàimo ‘e notte, è doppo n’ora, cu ‘a truttata stessa, duine, stracque, ammatuntate ‘e bòtte, cammina, pe’ ghì ncontra ‘a Princepessa! A Tarante, spezzate dinto ‘e mmecce, tu qua’ fermata! Nce fermammo a Lecce! E a Lecce se nchiummai! Nun pare overo, pecchè, che saccio... s’era repigliato... Parlai cu tutte, ricevette ‘o Clero, a sera stessa vulett’i ‘o triato! Anze, vedite quanto steva allero, ca cu nu Truvatore appriparato, isso alluccai: « Che Truvatore ! A chi? Fate Don Checco! M’aggia divertì!...». Ma ‘o juorno appriesso, (e chi s’ ‘o suppuneva?) nun se partette!... ‘A cosa s’aggravava... ‘o duttore Lione ca curreva, ‘o nzagnatore37 ca m’ ‘o salassava... Apprimma, miccia miccia, chella freva se nc’era misa ncuollo e n’ ‘o lassava; e ‘a Riggina, gialluta corani’ ‘a paglia, fa correre, da Napule a Ramaglia. Vene Ramaglia cu Capozze, vene ll’anema ‘e ll’urzo, vene tutt’ ‘o munno! Se po’ sapé che r’è?! Chi te sustene
ca se va a galla ; chi ca se va 'nfunno ; chi se stregne int’ ‘e spalle; chi cummène ca nun ‘o ssape, e ‘o ddice chiaro e tunno... Eppure, chillo, ‘o Rre, l’aveva ditto! «Tengo ‘o presentimento ca so’ fritto!...»
VII
Già, quanno stu Ramaglia fui chiammato, primma ca stu viaggio se facesse, dicette’o Rre: - «Rama, si’scienziato? E vedimmo sta scienza che dicesse!». Ramaglia ‘o vesetai. - «State malato! È niente, ma però... ve prupunesse...» ‘O Rre ‘o guardai. - «Che prupunisse, di’?» - «Maistà... ve prupunesse... ‘e nun partì.» - Pecche? dicette ‘o Rre; ch’è funnarale? - No... nient’ ‘e chesto! Mill’anne ‘e saluta! Ma che facimmo? Pe’ scanzà nu male, mettimmo ncopp’a cuotto acqua vulluta? E ‘o Rre: - Ramaglia mio, si’ n’animale! Sta cosa ‘ncapo chi te l’ha mettuta? Nun me vuò fa’ partì? Pe’ chi me piglie? Ouant’ ‘e avuto, pe’ darme stu cunziglie? p villette partì! nu cuoccio tuosto, ‘O simmelo comm’isso, nun ce steva! Tu 1’ ‘e chiammato? E chillo t’ha rispuosto… Na cosa bona pure t’ ‘a diceva! Ma che buò fa? Pe’ malaurio nuosto, quanno ncucciava, niente nce puteva! ‘A pigliai storta, se mettette ‘ntuono, e villette partì, malato e buono! Che v’aggia di’? Chi sa!... Si nun parteva, ferneva tuttecosa a ppazziella, e chella sfenetezza che senteva sarrìa passata cu na misturella... Ariano aspettava, isso nun jeva, e scumbinava buono ‘a jacuvella, e te lassava comm’a statue ‘e sale a Munzignore e a tutt’ ‘e libberale! Pirciò fui smaleditto, stu viaggio cu ‘a jettatura ‘e trònole e saette! E pirciò, pe’ sta causa ‘e stu rammaggio, anfino a Manferònia nun se jette! Jettemo a Bare... Già traseva Maggio... Era ‘o vintotto ‘Abbrile... o vintisette... E nce arrivàimo mmiezo a spare e suone, e na gran folla ‘e pupulazzione. Ma n’ato malaurio l’attuccava! Te pareva na cosa fatt’apposta! Sott’ ‘e balcune ‘a folla aumentava, (genta tutta fedele a’ causa nosta) e lle sbatteva ‘e mmane, e l’accramava: Vivò!... Vivò!... Vivò!... Botta e risposta... Embè, o cereri te? Justo mmiezo ‘a via, O’ Rre a chi vede? Na cunfrataria! Cosa ca, si se conta, uno te dice: “A chi l’assigne? Va ncujeta a n’ato!». (ca ‘o Signore ‘o benedice!) nce rummanette troppo spaventato! Ogne mumento sunnava nemice, e, p’ ‘a paura, sempe cchiù malato, ve putite penzà cu che allegrìa ricevette, accussì, Maria Sufia! Nun se gudette niente, ‘e chelli ffeste! Parlava appena, passanno ‘e paise! Quatto, cinco parole, lestu-leste, addò ca chillo ne facea fa’ rise! Ch’argentana! Ch’adduobbe e frusce ‘e veste! ‘E Ppuglie ne spennettero turnise! Triate, balle, serenate, sciure, e isso ncopp’ ‘a branda cu ‘e delure! Ogge, nu poco meglio, e respirava; dimane, verde peggio d’ ‘e ccutogne! A tavula, penzava e nun magnava... Cu ‘a capa sotta, se guardava ll’ogne... Mutriuso, accussì, sfarnetecava, penzanno certo a chelli gran carogne c’aveano armato contr’a isso ‘a mano e ‘a bbajunetta ‘e Gisalao Milano... E venette 'o scatascio! Se sapeva!... Gesù! Chili’uocchie suoi!... Comme guardava! Vivo, senteva ‘a morte, e nun mureva, vedenno ‘o cuorpo ca se nfracetava!... delure dint’ali’osse, friddo, freva, nu tremmulicchio ca te spantecava, na smània ‘e sete, senza arrepusarte, e vierme ca ll’ascéano ‘a tutte parte...
VIII
Bare era proprio na galantaria, cu tutte chilli princepe Tignante c’accumpagnàino ‘a sposa! E p’ ‘allegria tu te sentive overo n’ato ttanto! Chesto, pe’ dint’ ‘e ccase e mmiezo ‘a via, pecche add’ "o Rre se ne faceano chi ante! Po’ avevano urdinato: - Lengua ‘mmocca! - Comme sta ‘o Rre? - Sta buono... ma se cocca. Aviveve ‘a vede chella Riggina! Pe’ da’ sullievo ‘o Rre, facev’ un’arte! Jeva essa stessa pure int’ ‘a cucina! Na santa ‘n cielo m’ ‘a mettite ‘e parte! Senza vulé, durmì, sera e matina, a priparà dicotte, a firma carte... E parlava cu miedece e dutture, danno curaggio a ‘e stesse prufessure! Passava ‘o tiempo... ‘O mmale aumentava... Nisciuno cchiù diceva na parola... Nisciuno cchiù durmeva o risciatava, nfra nu silenzio ‘e quanno ‘a mosca vola... Lampe allumate, gente ca pregava, e ll’uoglio santo, e l’acqua ‘e San Nicola, e l’abbetiello ‘e Sant’Affonzo... Che!... Mo era n’ombra ‘e Rre, nun era ‘o Rre...!
IX
Comm’ ‘o portàimo, a buordo ‘o Furminanto ? Comme jette da Puortece a Caserta? Erano mise, e chi assaggiava tanto!? Erano mise, ch’io durmevo allerta! Doppo priato a Dio santo pe’ santo, ‘a povera Riggina, amara e sperta, dice: - Tentammo st’urdema speranza, e mannammo a chiammà Vicienzo Lanza! Chisto era gran duttore e libberale, macurrette, dicìmmola comm’è! Surtanto, le fui ditto, tale e quale, ch’isso, ‘o malato nun l’avea vede! S’era penzato ca pareva male fa’ trasì stu nemico nnant’ ‘o Rre; e Lanza se strignette dint’ ‘e spalle: «A saluta d’ ‘o Rre nun va tre calle!». - Comme, nun va tre calle? - V ‘o ddich’io! Einutele, sta vìseta add’ ‘o Rre! Io so’ chi so’ ! Faccio ‘o mestiero mio! Maè troppo tarde, mo! Sentite a me!... p’ ‘o desto, nu miracolo ‘o fa Dio; ma… si ‘o facesse... ‘o vvularria vede! ‘O fatt è chiaro comm’acqua ‘e funtana! Dàtele latte ‘e femmena, e se sana! ‘O medieco curante era Rusato, e se mettette a ridere. - N’ ‘o ccrire? Lanza; fai e’aggio sbagliato? Nnanza a Vicienzo Lanza nun se rire! E certo, o scienza, o c’ato fosse stato, nui simmo jute cu ‘e vestite nire! Speravamo, nce dévamo curaggio, ma ‘o Rre murette ‘o vintiduie ‘e Maggio... Chest’è, quann’ ‘a Furtuna è na zuzzosa! Si tu ‘o rilorgio ‘o guaste int’ ‘o cungegno, hai voglia ‘e l’accuncià, ca nun è cosa! E accussì fui! Muort’isso, muorto ‘o Regno! ‘A strata se facette ntruppecosa, Galibbarde aspettava e avette ‘o segno; cade Gaeta, doppo quatto mise, e nui... natàimo ttutte int’ ‘e turnise! Ah! Ah! Me vene a ridere, me vene! Ogneruno sperava ‘ave na Zecca, tanta renare quanto so’ ll’arene, ‘a gallenella janca, ‘a Lecca e ‘a Mecca! Faciteme ‘e bere, sti ppanze chiene! Seh, seh! Quanno se ngrassa ?a ficusecca! Comme scialammo bello, dint’a st’oro! Sciù pe’ la faccia vosta! A vuie e a lloro! Ccà stammo tuttuquante int’ ‘o spitale! Tenimmo tutte ‘a stessa malatia! Simmo rummase tutte mmiezo ‘e scale, fora ‘a lucanna d’ ‘a Pezzentaria! Che me vuò di’? Ca simmo libberale? E addò l’appuoie, sta sbafantaria? Quanno figlieto chiagne e vo’ magna, cerca int’ ‘a sacca... e dalle ‘a libbertà!
Ferdinando Russo
Fonte:
www.editorialeilgiglio.it