Isabella I di Castiglia. |
La conversione dei mori e il rilascio degli schiavi fatti da Cristoforo Colombo. Dalla corrispondenza di Isabella di Castiglia esce il ritratto di una sovrana tollerante. E non di una pazza sanguinaria.
La salvezza delle anime di tutti i sudditi «secondo la nostra santa fede cattolica». Fu questa una delle più grandi preoccupazioni, durante tutto il suo regno (1474-1504), della regina Isabella di Castiglia, considerata da insigni storici spagnoli «la più grande donna mai apparsa sulla terra, dopo la Madre di Dio». Ma quali elementi hanno avuto studiosi come Vicente Rodriguez Valencia, Antonio de la Torree y Cedro, Antonio Rumen y Armas e Suarez Fernandez, tutti titolari delle cattedre di Storia più prestigiose di Spagna, per azzardare giudizi così eclatanti?
Tutto comincia nel '58, quando la diocesi spagnola di Valladolid, sollecitata proprio da questi studiosi, inzia un'investigazione per accertare se il materiale storico esistente riveli qualità spirituali della regina altrettanto grandi quanto quelle politiche, già universalmente riconosciute. Si presenta quindi l'occasione per setacciare gli Archivi di stato spagnoli e quelli delle maggiori città dell'America latina e delle Filippine. La ricerca produce circa centomila documenti inediti che rivelano aspetti sconosciuti agli stessi storici. Si collezionano così ventisette volumi nella fase investigativa ('58-'70) e altri due in quella processuale ('70-'72). Nel novembre del '72 l'immenso materiale giunge alla Congregazione dei Santi in Vaticano. La commissione storica impiega diciotto anni per verificare l'autenticità dei documenti. Fino al 6 novembre del 1990. Data in cui i sei storici ecclesiastici esprimono il loro voto positivo sull'immane lavoro preliminare. La questione dovrebbe passare di mano alla commissione teologica per accertare se la fede, la speranza e la carità di Isabella siano presenti in maniera sufficiente per proseguire la causa. E giungere alla "venerabilità" della regina.
Da circa un anno, da quando cioè si è diffusa la notizia della conclusione dei lavori della commissione storica, la causa di beatificazione di Isabella è stata oggetto di violente polemiche. Si è mossa la comunità ebraica internazionale, in questa occasione alleata con i cugini islamici e sostenuta da grandi organi di stampa. L'eventuale beatificazione di Isabella, sostengono alcuni gruppi, soprattutto americani e francesi, arrecherebbe un'offesa «alla sensibilità ebraica» per l'Editto di espulsione di tutti i sudditi non cattolici, firmato dalla regina e da suo marito Ferdinando, il 30 marzo del 1492. Anche all'interno della Chiesa si registrano due fronti contrapposti. Chiaramente schierati pro Isabella, oltre a buona parte dell'episcopato spagnolo, sono alcuni tra i più influenti porporati latino-americani: il cardinale venezuelano Rosalio Castillo-Lara, presidente dell'Apsa; il colombiano Alfonso Lopez-Trujillo, presidente del Pontificio Consiglio per la famiglia e l'arcivescovo di Porto Rico, Luis Aponte. Favorevoli alla beatificazione sono anche il vicepresidente del Celam, il vescovo Cipriano Calderon e il prelato dell'Opus Dei, Alvaro del Portillo. Preoccupati invece per i destini del dialogo ecumenico sono il cardinale di Parigi, Jean-Marie Lustiger; il presidente del Pontificio Consiglio per l'unità dei cristiani, l'australiano Edward Cassidy e, più in generale, gli episcopati francese ed inglese.
Ma i documenti inediti hanno ridisegnato il profilo della regina di Castiglia. Soprattutto su due "capitoli" della sua vita: l'evangelizzazione dei mori, dopo la riconquista di Granada, e quella degli indios d'America dopo la scoperta del Nuovo Continente. Pubblichiamo qui alcuni frammenti delle sue lettere ad autorità ecclesiastiche e politiche dalle quali emerge l'atteggiamento della regina nei confronti dei popoli sottomessi alla Corona di Spagna dopo il fatidico 1492.
La conversione dei mori secondo Isabella
Dopo la riconquista di Granada, ultimo baluardo moresco in terra spagnola, avvenuta il 2 giugno 1492 dopo dieci anni di guerra la regina cattolica promosse in tutta la Spagna una intensa campagna di evangelizzazione dei mori. Questi frammenti della lettera inviata il 5 ottobre del 1500 a tutti i prelati e le chiese del Regno, dove emergono preoccupazioni di ordine pratico della regina per favorire al meglio tali conversioni. «Già sapete come prego nostro Signore affinché i mori di queste città di Granada e di Alvaicin si convertano alla nostra santa fede, così come hanno fatto pochi giorni fa i mori di Alpuxarras e di altri luoghi, e speriamo in Dio che in breve si convertano tutti quelli del nostro regno. E avendo ricevuto il santo battesimo per la salvezza delle loro anime, è necessario che vengano aiutati e istruiti affinché possano diventare dei buoni cristiani. A questo proposito sono necessari tanti chierici e sacerdoti, poiché quelli che risiedono in questo arcivescovado e nel regno di Granada non bastano. E poiché è giusto che non bastando questi, intervengano ad aiutarli quelli delle altre chiese, abbiamo deciso di scrivere a tutti i prelati e alle chiese del nostro regno affinché possano inviare persone idonee che assolvano questo compito per lo meno per un anno e che vengano provvisti di tutto il necessario per questo tempo».
È del 12 marzo del 1500 la lettera al governatore della città di Segovia. Isabella la scrive da Valladolid. «La conversione degli infedeli deve avvenire con dolci esortazioni e opere buone affinché, attratti da esse, siano desiderosi di conoscere la vera fede cattolica. A questo scopo vi preghiamo affinché non si creino situazioni in cui i mori siano costretti né con imposizione di qualche pena, né in nessun'altra maniera ... ad ascoltare prediche dal suddetto prete o canonico, né da nessun'altra persona senza la propria volontà o consenso, né alcun predicatore si rechi alla loro moschea a predicare senza la loro richiesta e consenso».
Il 26 settembre 1501 Isabella scrive al commendatore Diego Lopez de Alvaos, governatore di Cordova da Granada: «... Prima di tutto è necessario trattarli molto bene, con molte esortazioni, facendo capire che, oltre che salvare le anime, desideriamo di tutto cuore la loro conversione e avremmo molto piacere che ciò avvenga... Perciò vi raccomandiamo che mettiate molta diligenza in ciò e vi comportiate in modo tale che si possano convertire nel più breve tempo possibile per loro propria volontà, senza che sia fatta alcuna pressione, perché in ciò ci farebbero molto piacere e servizio». Non mancano le rassicurazioni ai mori delle città di Axarquìa e di Garbia, vicino a Malaga e alla regione montuosa di Ronda. Questa voltala lettera, del 26 gennaio del 1500, è firmata da Isabella e da suo marito, il re Ferdinando d'Aragona. Il destinatario è la massima autorità giuridica musulmana, il Cadì Maior, Ali Dordux: «C'è stato detto che vi è stato riferito che la nostra volontà sarebbe quella di convertirvi per forza in cristiani e siccome la nostra volontà non è mai stata e non è che alcun moro sia fatto cristiano per forza, con la presente vi assicuriamo e vi promettiamo con la nostra fede e la parola reale che non permetteremo che nessun moro sia fatto cristiano per forza». A Granada agisce don Hernando de Talavera, l'arcivescovo della città. È consigliere della regina e miglior interprete delle sue idee e della volontà di Isabella. In questa città il problema dei mori è di una gravità particolare: non tutti sono d'accordo con la liberalità della regina nei confronti dei musulmani. È il caso di Fernando de Zafra, che incarna perfettamente la mentalità castigliana: poche idee, ma estremamente chiare: obbedienza alla corona e rispetto della legalità. Ma riguardo ai mori, non condivide la liberalità della regina nei loro confronti: li considera vassalli del Re e non dei compatrioti. Alla stessa maniera la pensa Alonso de Toledo. La regina non si lascia impressionare dai timori dei suoi consiglieri e concede ulteriori facilitazioni e garanzie ai suoi sudditi mori. Un vivace scambio di idee si ha ad un certo punto tra de Talavera e l'arcivescovo di Toledo Cisneros. Il primo è con la regina; l'altro vuole usare la mano pesante con i mori. Isabella si trova in un certo imbarazzo perché ha molta stima di entrambi. Ad un certo punto decide di scrivere ad un suo consigliere: «Già sapete come l'arcivescovo di Toledo non sia d'accordo con le nostre idee... desideriamo che egli venga qui, affinché con pieno accordo si possa vedere la forma che in questa situazione si debba mantenere... E poiché abbiamo saputo che tra l'arcivescovo di Toledo e l'arcivescovo di Granada esistono alcune divergenze e che vi sono alcuni che vanno mettendo discordia tra i due arcivescovi... Vi preghiamo di... lavorare... affinché nella questione della conversione si raccolgano tutti i frutti che è possibile ottenere senza pressione e senza uso della forza e senza atteggiamenti di questo tipo... Perché, sebbene l'arcivescovo di Toledo dica che alcuni mori gli mandavano a dire che desideravano diventare cristiani, ma non osavano farlo per vergogna degli altri, e che mandasse lui a prenderli, non desideriamo che questi né altri metodi siano usati, ma che siano ricevuti solo quanti vengono di loro volontà».
La questione degli schiavi inviati da Colombo
Nella questione della schiavitù degli indios d'America, Isabella di Castiglia risolse il problema anticipando la teologia del suo tempo e le disposizioni pontificie sulla questione degli indigeni delle Canarie. Il problema si pose quando, alla fine dell'anno 1494, vennero inviati per la prima volta da Cristoforo Colombo ai re cattolici un certo numero di indios catturati in azione di guerra. Nei documenti ritrovati non viene menzionato il numero esatto. Ma Bartolomeo de Las Casas, raccontando l'episodio nel suo Historia de las Indias, parla di 500. Il grande frate domenicano, che spese tutta la vita nella difesa degli indios, scrive che l'ammiraglio genovese aveva preso l'iniziativa di spedire schiavi «senza l'autorizzazione del re e della regina», anche se lo riconosce «uomo cristiano, virtuoso e di buoni desideri», spinto più che altro dal desiderio di compensare le spese della corona di Spagna per le sue spedizioni. I primi di aprile del 1495, un uomo di Colombo, Antonio de Torres, approda a Cadice, portando con sé appunto gli schiavi, alcune lettere e un lunghissimo memoriale con data 30 gennaio 1494, scritto dal navigatore genovese ai re di Spagna. Pochi giorni dopo, il vescovo di Badajoz, don Juan Rodriguez de Fonseca, chiede istruzioni ai sovrani, che erano a Madrid, sulla sorte degli indios. In un primo tempo la corte e la cancelleria castigliana trovano normale questo invio e quindi l'eventuale commercio, benché accadesse per la prima volta. Il 12 aprile giunge al Fonseca una "cedola" reale che consente il commercio. Il 16 aprile, sorprendentemente, un nuovo dispaccio ordina al vescovo di sospendere la vendita degli schiavi. La regina è assalita da dubbi e chiede l'aiuto ad una consulta di teologi e canonisti per avere chiarimenti. Nella cedola infatti si legge: «Perché vogliamo informarci tra i letterati, i teologi e i canonisti se con buona coscienza si possano vendere questi indios». Intanto il memoriale e le lettere portate da Torres ancora non arrivano nelle mani di Isabella e di Ferdinando. I sovrani quindi non ne conoscono il contenuto e non sanno neppure quale potrebbe essere la norma giuridica per vendere gli indios come schiavi. Di quei cinquecento, Colombo ne aveva destinati nove all'armatore Juanotto Berardi per far apprendere loro la lingua castigliana e farne quindi degli interpreti una volta tornati nelle Indie. Il vescovo non consegna neppure quelli e quindi Berardi scrive ai re, che a loro volta scrivono al vescovo: «Lo stesso Juanotto afferma che l'ammiraglio Cristoforo Colombo gli inviò nove indios affinché fossero consegnati ad alcune persone per apprendere la lingua castigliana; quindi questi nove non sono destinati ad essere venduti. Quindi d'ora in avanti sarà permesso portare degli indios a patto che vengano solo per questo scopo e che poi vengano fatti tornare liberamente nella loro terra per fare gli interpreti e vivere come uomini liberi». Intanto la risposta della consulta tarda ad arrivare. La regina è stanca di aspettare e decide, come fa quasi sempre davanti alle questioni più importanti, da sola, secondo la propria intuizione. Si giunge così alla cedola risolutiva della libertà degli indios, datata Siviglia 20 giugno 1500, in cui si legge: «Già sapete come per nostro mandato avete alcuni indios in deposito, i quali noi ora vi chiediamo di mettere in libertà». Senza alcun riferimento giuridico, la regina anticipa di trentacinque anni la Formulazione del diritto delle genti di Francisco Vitoria y Domingo Soto. Isabella in sostanza ordinava di riunire tutti gli indios e di affidarli a Pedro de Torres perché questi li riconsegnasse ai loro familiari. E tutto a sue spese. Per quanto riguarda Colombo, nelle Istrucciones per il quarto e ultimo viaggio nelle Indie, riferendosi alle clausole finali del suo ritorno, la regina ammonirà: «E non portate schiavi. Ad eccezione di qualcuno che voglia venire per apprendere la lingua e quindi fare l'interprete al suo ritorno». Tre anni più tardi, il 30 ottobre del 1503, in una lettera di cui però non è stato possibile sapere il destinatario, Isabella scrive: «Sappiate che il re nostro signore ed io... abbiamo ordinato che nessuna delle persone da noi mandate a dette terre osino prendere o catturare alcun indios per essere portato nei miei regni, né per essere portato in nessun'altra parte e che non venga fatto nessun danno a persone o a beni, e chiediamo che tutti gli indios che sono stati catturati vengano rimessi in libertà». Lo storico Rafael Altamira, nel 1946, scrisse a proposito della decisione della regina: «Data memorabile per il mondo intero che segna il primo riconoscimento del rispetto dovuto alla dignità e alla libertà di tutti gli uomini, incolti e primitivi che siano, principio che fino ad allora non era stato proclamato da nessuna legislazione e ancora meno era stato praticato da nessun Paese».
Fonte:
http://www.storialibera.it/