mercoledì 19 giugno 2013

LE TRE GIORNATE DI NAPOLI DEL 1799



Agli inizi del mese di gennaio del 1799, l’armata francese agli ordini del brillante generale Championnet, si ritrova, senza colpo ferire, libera la strada per piombare su Napoli, grazie all’improvvisa rit...irata, dal munitissimo campo trincerato di Capua, delle truppe avversarie guidate dal generale Mack, il quale, peraltro, nell’operazione di sganciamento, perde oltre la metà dei suoi uomini. Praticamente una disfatta senza combattere. La notizia rapida si sparge per la capitale indifesa, e si parla apertamente di tradimento. Di ciò ne è fermamente convinta quella parte del popolo napoletano più fiera e combattiva, che è rappresentata dai lazzari. La devozione di quest’ultimi ai Borbone è eguagliata da un’altrettanta smisurata devozione per Napoli. Saranno loro l’estrema difesa della città. La trama del tradimento è stata vasta e con diverse fasi nel tempo, per cui i lazzari ricordano al popolo le proteste del loro amato re Ferdinando, che alle interessate insistenze delle camarille di Corte, che gli consigliavano, per la sua sicurezza, l’immediata partenza per la Sicilia, opponeva la certezza che nessuna guarnigione potesse garantirgli la salvezza meglio dei suoi fedelissimi lazzari, ed indicava la colonna di 1200 armati guidati dal capo-lazzaro "De Simone", che aveva scelto per vessillo la bianca bandiera dei Borbone, contrassegnata dal cristianissimo segno della croce. Un’insegna del tutto simile alzerà qualche tempo dopo l’armata sanfedista del cardinal Rufffo. Purtroppo alla fine gli intrighi dei cortigiani l’avevano spuntato sulla volontà del monarca, che il 21 dicembre 1798 aveva firmato un proclama con il quale informava il suo amatissimo popolo che si recava a Palermo a preparare la riscossa. Altri luttuosi eventi confermano poi, a detta dei lazzari, la trama del tradimento, il 28 dicembre una parte della flotta napolitana, all’ancora nella cala di Mergellina, era stata dolosamente incendiata. Il successivo 8 gennaio 1799 spetterà alla rimanente parte della flotta alla fonda nel porto. Bruciano come torce gli splendidi vascelli orgoglio della marineria napoletana, quali il Tancredi, il Guiscardo, il Partenope, il Pallade. Infine la ritirata di Mack da Capua. Il tradimento è dunque certezza. La borghesia, come sempre, pensa a difendere i suoi interessi in pericolo e negozia sotto banco con i giacobini e i francesi. Il vicario del re, come se niente fosse, tratta un’armistizio vergognoso con Championnet. Ma ormai la Lazzaria è un fiume in piena che nessuno può più fermare. Risuona terribile l’antico grido del "serra serra" per chiamare a raccolta ed alle armi tutti quelli che hanno a cuore la difesa di Napoli contro il nemico alle porte. Senza strateghi, armati all’inizio delle sole mani o al più delle rudimentali "peroccole" (sorta di mazza nodosa con la cima a forma di pera), che roteate con perizia sono un’arma micidiale, che ferisce ed uccide, i lazzari, al grido di "viva San Gennaro" e " viva ‘o Rre nuosto", percorrono le strade della capitale alla caccia dei giacobini. Nella notte tra il 14 e 15 gennaio 1799 avviene spontanea la mobilitazione del popolo napoletano. Ai lazzari si uniscono i cavatori di tufo della Sanità, i conciapelli dei vicoli delle Concerie, gli scaricanti del Porto, gli ortolani e i fruttaioli del Mercato, i marinai e i pescatori di Santa Lucia, il più borbonico dei quartieri cittadini. Nella giornata del 15 la folla in tumulto, pur senza la guida di veri capi militari, occupa tutti i punti strategici di Napoli. S’impadronisce così delle porte e delle fortificazioni, inalberando il vessillo reale a castel Nuovo, castel Sant’Elmo, forte del Carmine, castello dell’Ovo. Poi disarma i 12.000 uomini della milizia civica, rifornendosi quindi di fucili, munizioni e perfino di cannoni. Infine dà l’assalto alle carceri, liberando 6.000 prigionieri, in gran parte ladri. Nella logica dei lazzari quest’ultimi meritano la libertà perché hanno rubato ai borghesi, che sono tutti traditori, prima verso il re ed ora verso la città. Nei giorni seguenti viene presidiata l’altura di Capodichino e la zona di Poggioreale, ingressi obbligati, fin dai tempi antichi, per un esercito che voglia invadere Napoli. La borghesia e la maggioranza dell’aristocrazia assistono terrorizzate al susseguirsi degli eventi. Solo il partito giacobino, su imbeccata dello stesso Championnet, ha un piano preciso: impadronirsi, al momento opportuno, di castel Sant’Elmo, chiave di volta delle difese della città per la sua posizione dominante, e dar così man forte ai francesi quando attaccheranno. Il 20 gennaio è la vigilia di quelle tre storiche giornate, in cui la stragrande maggioranza del popolo napoletano, e per esso la Lazzaria in prima linea, rivendicherà, per propria scelta, con un grosso tributo di sangue e un eroismo che meritava miglior sorte, il diritto alla dignità di essere nazione e di scegliersi liberamente i propri ordinamenti politici. In questa giornata una folla di 40.000 lazzari giura alla presenza delle sante reliquie di san Gennaro, di morire in difesa della comune patria. Loro insegna sarà una bandiera con l’effigie di un teschio e la scritta "evviva il Santo Ianuario nostro generalissimo". Nel frattempo l’armata francese, forte di ben ventiduemila uomini, resi euforici dalle recenti facili vittorie, è ferma nella piana tra Sarno e Pomigliano, ad essa si ricongiunge la mezza brigata del colonnello Broussier, proveniente da Benevento e che alle forche Caudine si è scontrata duramente con alcune bande legittimiste, che , pur disperdendole, ha avuto oltre 400 morti. Gli invasori cominciano ad assaporare la collera dei popoli meridionali e a rendersi conto che entrare in Napoli non sarà poi una passeggiata. Alle prime luci dell’alba del 21 gennaio 1799, i francesi iniziano col radere al suolo il villaggio di Pomigliano d’Arco. Da questo crudele segno si capisce che non concederanno nessuna tregua ai napoletani! Sarà battaglia all’ultimo sangue. Scrive di quel momento il Colletta: "Napoli non ha bastioni, o cinta di muri, o porte chiuse; ma la difendevano popolo immenso, case l’una all’altra addossate, fanatismo di fede, odio ai francesi". Il piano di Championnet prevede la disposizione dell’armata su quattro colonne: la prima agli ordini del generale Dufresne dirigerà su Capodimonte; la seconda, sotto il generale Kellerman, al castello del Carmine; la terza, guidata dal generale Duhesme, attaccherà porta Capuana; la quarta colonna al comando di Broussier sarà di riserva, e ciò anche per concedere riposo ai suoi uomini provati dal precedente scontro. Le colonne entrano subito in contatto con gli avamposti dei lazzari, che contrattaccano impavidi con la fronte serrata da colorati fazzoletti, sotto cui è riposta l’immagine miracolosa da San Gennaro. È l’inizio di una spaventosa mattanza. Fare un resoconto dettagliato della battaglia, che durerà per tre giorni, è difficile perché moltissimi sono gli episodi degni di menzione. A Capodimonte, a Capodichino, al ponte della Maddalena i francesi non passano. Le baionette dei loro battaglioni s’infrangono letteralmente contro un muro di carne umana. I corpi dei caduti diventano barricate per i lazzari superstiti. Anche per gli attaccanti il tributo in morti e feriti è altissimo. Dappertutto si spande l’acre odore della polvere da sparo, e, tra il denso fumo, s’intravede lo scintillìo terribile delle armi bianche, che squarciano, mutilano. La punta di lancia del dispositivo d’attacco è la colonna Duhesme, che con la sua avanguardia, guidata dal generale Monnier, riesce a sloggiare, dopo ripetuti assalti, le bande di lazzari a guardia della strada di Poggioreale. Dopo di che il grosso dei francesi carica alla baionetta le barricate di porta Capuana. Ma ci sono a difesa duemila napoletani, spalleggiati da alcune centinaia di svizzeri della Guardia Reale Borbonica. Il coraggioso Monnier si rende conto che di qui non si passa, se non sul corpo dei difensori. La lotta è asprissima. L’eroismo dei lazzari contagia gli svizzeri, che si battono anch’essi come leoni. La disciplina e l’esperienza dei soldati francesi riescono ad aver ragione per un momento di tanta intrepidezza, d’un balzo essi sono al di là della porta e sbucano nell’omonima piazza. Dalle finestre e dai tetti delle case tutt’intorno è fuoco a volontà. Il generale Monnier cade colpito a morte, i suoi soldati sono decimati. I superstiti indietreggiano, per poi ritirarsi precipitosamente, presi d’infilata dal tiro di alcuni cannoni, messi immediatamente in posizione dai napoletani. A questo punto se cedono i battaglioni di Duhesme è la fine per l’intera armata. La situazione è critica, quando sopraggiunge una forte colonna di tremila lazzari. Ma essi purtroppo non conoscono l’arte militare e ignorano cosa significhi lo sfruttamento del successo, pertanto si attardano a festeggiare la momentanea vittoria. Il sangue freddo di un Thìebault dello stato maggiore francese fa poi il resto e le sorti della giornata, già compromesse per le armi repubblicane, si riequilibrano. Infatti, con i suoi uomini impegna i sopraggiunti lazzari, poi, d’accordo con Duhesme, simula una ritirata. I realisti si gettano con foga all’inseguimento e s’infilano nella trappola loro tesa. Vengono così presi di fianco da un nutrito fuoco di fucileria; sono i granatieri che sparano ordinatamente e ad ondate successive, come fossero alle manovre. Sotto questa grandinata di proiettili i lazzari cadono a fila serrate. Intanto, nelle stesse ore, si è consumato un altro tradimento alle spalle degli insorti. I traditori giacobini napoletani, con uno stratagemma, si sono impadroniti di Sant’Elmo, disarmando i popolani di guardia. I cannoni del forte, che dominano la città, da ora in avanti tuoneranno per i francesi. Per il generale Championnet è un grosso punto a suo favore, d’altronde per ottenere tale scopo ha brigato non poco nei giorni precedenti. Sul finire della giornata la truppa di Duhesme, a conclusione di una serie di reiterati feroci assalti, espugna porta Capuana. I francesi, incattiviti dalla testarda resistenza e timorosi che possa ripetersi quanto accaduto in mattinata, danno fuoco a tutti i palazzi circostanti, trucidandone gli occupanti. I sinistri bagliori degli incendi illuminano così tragicamente quella notte da tregenda. Lo spirito combattivo dei lazzari però non è per nulla fiaccato. Dufresne è ancora fermo a Capodimonte, mentre Kellerman è riuscito soltanto ad oltrepassare il ponte della Maddalena. La mattina del 22 i combattimenti, mai del tutto cessati, riprendono con più accanimento. Championnet, con Sant’Elmo in suo potere, procede rapidamente alla modifica del primitivo piano di operazioni, che prevedeva, una volta sfondato a porta Capuana, la conversione della colonna Duhesme in direzione di piazza Mercato e del forte del Carmine, prendendo di fianco il grosso dell’armata dei lazzari di circa ottomila combattenti, tenuti a bada nel frattempo dalla colonna Kellerman, proveniente dal ponte della Maddalena. Il piano, valido dal punto di vista militare e già a buon punto per il successo di Duhesme, sarebbe però costato troppo in termini di vite umane ai francesi, vista la caparbia resistenza ad oltranza dei lazzari. Quest’ultima considerazione muove dunque Championnet ai cambiamenti operativi. Dà ordine alle truppe di riserva, al comando di Broussier, di avanzare al ponte della Maddalena, con la consegna di tenere soltanto le posizioni; mentre Kellerman, il più brillante dei suoi generali, viene spedito celermente a Capodimonte a trarre d’impaccio Dufresne in grosse difficoltà, per poi piombare alle spalle dei difensori delle barricate del Carmine. I lazzari comprendono subito che la battaglia è ad una svolta decisiva. Ora combattono alla disperata, con selvaggia determinazione. Un ufficiale francese, che li invita alla resa, viene fatto a pezzi. Comincia il cecchinaggio dei fautori del partito giacobino, che dai palazzi sparano alle spalle dei difensori. Gli agguati fanno incrudelire i lazzari, che si vendicano incendiando le case dei simpatizzanti giacobini e massacrando sul posto i sospettati. È la guerra civile ancor più rabbiosa di quella contro i francesi. Due battaglioni, agli ordini di Kellerman, occupano le colline di Capodimonte e del Vomero, stabilendo quindi un definitivo contatto con il castello di Sant’Elmo. Da quest’ultimo si cominciano a tirar cannonate sui punti della città, dove è più forte la resistenza. Lo sventolio del tricolore francese gela il cuore degli insorti che soltanto in quel momento apprendono del tradimento consumato ai loro danni, ma non per questo scema la loro determinazione alla lotta, tanto che gli uomini di Kellerman, appoggiati da gruppi di giacobini napoletani in armi, e che scendono baldanzosi dalle colline, vengono fermati dai lazzari di Foria e di Chiaia, che li inchiodano sul posto. Soltanto l’intervento di un altro battaglione, che cala da Capodichino, sblocca la situazione nella zona di Foria, prendendo di fianco i difensori. I francesi non fanno prigionieri, un gruppo di quaranta lazzari viene, seduta stante, fucilato sul posto. I capi-lazzari infine danno ordine a quel che resta delle bande di riparare nel vasto pianoro di Largo delle Pigne (ora piazza cavour), che diviene un’unica immensa barricata. Ci vogliono sette ore di reiterati attacchi per aver ragione di quella eroica testarda resistenza. Eroismo disperato anche a Santa Lucia e alla Madonna dei Sette Dolori. Per la notte Championnet dà ordine ai suoi di accamparsi nell’appena conquistato Largo delle Pigne. Sono i cannoni di Sant’Elmo, all’alba di quel livido 23 gennaio 1799, a dare il segnale d’inizio per la spallata conclusiva dei repubblicani. Le forze della Lazzaria controllano ormai solo il cuore della vecchia Napoli, cioè l’intricato quartiere Mercato e parte di via Toledo, con i capisaldi di castello del Carmine, castel Nuovo e castello dell’Ovo. È ancora una volta Kellerman, giovanissimo generale di soli 27 anni, a risolvere brillantemente la situazione. È a maggior gloria dei capi-lazzari aver tenuto testa, per giorni, a strateghi di tale statura. In quella tragica giornata del 23 la colonna Kellerman prende di fianco i lazzari, attestati a difesa di via Toledo, e li ricaccia fino a Largo Castello. Castel Nuovo è preso d’assalto ed espugnato. Ciò consente a Kellerman di battere alle spalle con i cannoni di questo castello, gli ottomila lazzari, che appoggiati tatticamente alle fortificazioni del Carmine, tengono in scacco le forze di Broussier. Soltanto nel pomeriggio viene conquistato alla baionetta dagli uomini del generale Rusca il castello del Carmine. Salvo piccoli focolai, è la fine di ogni resistenza organizzata. I francesi di Championnet sono ormai padroni di Napoli. Ma il prezzo pagato è altissimo: duemila di loro non festeggeranno la vittoria; i loro corpi giacciono ancora insepolti per le strade. I lazzari superstiti, vinti, ma non domi, si eclissano con le armi nell’intricato dedalo di vicoli. Saranno presenti, di lì a pochi mesi, all’appello di Ruffo per la liberazione della città. In questo stesso giorno si compie lo scempio di Palazzo Reale, allorchè il capo-lazzaro Paggio abbandona con i suoi il palazzo, la plebaglia lo invade saccheggiandolo. Sembra sia stato lo stesso Championnet, ad incitare, la canaglia al saccheggio. Dovunque, nelle strade, nei vicoli, nelle piazze, nei vecchi palazzi anneriti dagli incendi, dovunque si inciampa nei corpi dei lazzari caduti. Alcuni luoghi, dove il combattimento è stato più aspro, sono dei veri e propri carnai. Diecimila di loro, (ma non si conoscerà mai l’esatto numero), sono morti, per testimoniare ai posteri che la Nazione Napoletana non è un’invenzione. Financo i vincitori devono ammettere l’eroismo dei lazzari in difesa della Napoletanità. Scrive il generale Championnet nella sua relazione per Parigi: "...si combatte in ogni strada; il terreno è disputato palmo a palmo; i lazzari sono guidati da capi intrepidi. I lazzari, questi uomini meravigliosi (ètonnants) sono degli eroi...". Il capo di stato maggiore, il generale Bonnamy, scriverà poi, al termine del suo rapporto, queste lapidarie parole "...l’azione del lazzari farà epoca nella Storia!". Soltanto il malcostume autolesionista di certa storiografia, che ha sempre allignato dalle nostre parti, ha avuto l’improntitudine di stracciare questa splendida pagina di Storia nostra.

 di: Orazio Ferrara
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