martedì 18 giugno 2013

Genesi della nobiltà. La sua missione nel passato e nel presente Il punto di massima insistenza di Pio XII (Estratto dall'opera di Plinio Corrêa de Oliveira "Nobiltà ed élites tradizionali analoghe nelle allocuzioni di Pio XII al Patriziato ed alla Nobiltà romana").




Per l'uomo comune del nostro tempo, lo studio delle allocuzioni di Pio XII al Patriziato ed alla Nobiltà romana suscita molte questioni, tanto più in quanto il pubblico si mostra oggi, non di rado, sorprendentemente
disinformato su questa classe sociale, sulle sue origini, sulla sua missione, sulle varie caratteristiche assunte nel corso dei secoli, come pure sul ruolo che essa deve svolgere nei nostri giorni e in futuro.
Ora, nelle sue allocuzioni, quel memorabile Pontefice non intese trattare della nobiltà in tutti i suoi aspetti, in modo da esaurire l'argomento. Né ciò deve meravigliare, dato che il pubblico a cui egli si rivolgeva era prettamente nobile, e conosceva, per sua natura, quei numerosi dati dottrinali e storici sull'istituzione nobiliare, che il grande pubblico di oggi ignora.
I lettori di questo studio potranno essere ecclesiastici o nobili, ma anche membri della grande, media o piccola borghesia.
Abbiamo pertanto ritenuto conveniente offrire in questo capitolo, al lettore perspicace ma non completamente informato, un insieme di dati sulla nobiltà che soddisfino il suo interesse ma che difficilmente avrebbe trovati riuniti in un'opera di facile reperimento. Bisogna poi aggiungere che questo capitolo presenta una visione d'insieme, o meglio, un insieme di visioni panoramiche di vari argomenti di speciale interesse per il nostro lettore.
In questo modo il capitolo contiene numerose considerazioni su temi diversi, il che spiega il fatto che è il più lungo del libro. Per non renderlo ancora più esteso, abbiamo deciso di non includervi che il minimo indispensabile di citazioni.  

1. La sfera privata e il bene comune

a) I gruppi umani - I capi

In qualsiasi gruppo umano esistente nella sfera privata, l'esercizio dell'autorità conferisce un rilievo più o meno grande al suo titolare. È quanto succede, ad esempio, con il capofamiglia - e, per partecipazione, con sua moglie - con il presidente di una associazione, con il professore, con il dirigente di una squadra sportiva, etc.

* Requisiti intellettuali del detentore dell'autorità

L'esercizio di tale autorità esige essenzialmente che il suo titolare abbia una nozione chiara e precisa delle finalità e del bene comune del gruppo sul quale opera, nonché una lucida conoscenza dei mezzi e delle tecniche di azione necessarie al raggiungimento di questo bene.
Non basta tuttavia che il detentore di tale potere, nella sfera privata, sia dotato di queste qualità che risiedono tutte nell'intelligenza.
Certo, egli deve sapere. Ma deve anche comunicare quello che sa e convincere, nella misura del possibile, quelli che dissentono. Per quanto ampi siano i poteri di un tale capo, per quanto drastiche possano essere le penalità istituite dalle norme del gruppo sociale per chi gli disubbidisca, per quanto onorifici e remunerativi possano essere i compensi offerti a chi gli ubbidisca, tutto questo non basterà al capo per farsi ubbidire. È imprescindibile che esista un consenso profondo e stabile, fra lui ed i suoi subordinati, sulle mete che egli mira a raggiungere e sui metodi che sceglie; come anche deve esistere, da parte dei subordinati, una seria fiducia nella sua capacità di impiegare efficacemente questi metodi e di raggiungere queste mete, il tutto al fine di conseguire il bene comune.

* Requisiti della volontà e della sensibilità

Neppure basta al capo che sappia solo persuadere con argomentazione logica impeccabile. Gli sono necessarie altre qualità che appartengono al campo della volontà e della sensibilità.
Innanzitutto il capo, dirigente o leader - quale che sia il titolo col quale viene designato dal gruppo - deve essere provvisto di un penetrante senso psicologico. Questa qualità richiede l'esercizio simultaneo dell'intelligenza, della volontà e della sensibilità. Una persona superintelligente, ma abulica e insensibile, normalmente manca di senso psicologico persino per conoscere i dati elementari della sua stessa mentalità; quanto più di quella degli altri: coniuge, figli, allievi, impiegati, etc.
Ora, per un capo privo di senso psicologico è difficile persuadere e coordinare, in vista del bene comune, non solo le intelligenze ma anche le volontà.
Eppure nemmeno questo senso psicologico basta. Bisogna che il detentore dell'autorità, o semplicemente della leadership, disponga anche di una ricchezza di sensibilità sufficiente per dare a quello che dice il sapore del reale, del sincero, dell'autentico, dell'interessante, dell'attraente, insomma di tutto quanto spinge quelli che gli devono obbedienza a seguirlo volentieri.
Questo, molto sommariamente tratteggiato, è l'elenco delle qualità senza le quali chi dirige un gruppo sociale privato non possiede le condizioni normali per svolgere fruttuosamente la sua missione.

* Il capo nelle circostanze eccezionali, sia propizie che avverse

Ma il buon senso ci mostra che talvolta il retto ordine viene alterato nei gruppi privati per via di circostanze eccezionali, sia propizie che avverse.
Il capo di valore medio rischia di perdere - per incapacità di essere alla loro altezza - ottime occasioni che ha scorto in modo incompleto o che non ha scorto affatto. Perciò le lascia sfuggire o ne approfitta solo parzialmente.
Inoltre egli rischia di danneggiare seriamente il gruppo che dirige, o persino di rovinarlo, se non sa discernere il pericolo non appena esso si affaccia all'orizzonte, valutarne il grado di dannosità ed eliminarlo definitivamente il più presto possibile.
L'ottimo capo è quello che, nelle situazioni eccezionali, favorevoli o sfavorevoli, e da queste stimolato, cresce in tutte le sue qualità a misura della grandezza di tali eccezionalità, mostrandosi così superiore alle circostanze.

* Utilità e opportunità di questa sistematizzazione di nozioni

Nulla di nuovo in quanto detto. Ma la sommaria sistematizzazione di queste nozioni di mero buon senso giace sepolta in numerose mentalità in questi giorni di confusione. Essa era quindi preliminarmente necessaria per comprendere facilmente quanto diremo.

b) Primato e nobiltà del bene comune - Come si distingue dal bene individuale . Gruppi privati il cui bene comune ha carattere trascendente, regionale o nazionale

Quanto ai gruppi di qualsiasi tipo esistenti nella sfera privata, il loro bene comune non consiste solo in ciò che è bene per questo o quell'individuo, ma in ciò che è bene per la totalità delle persone che costituiscono il gruppo.
Indubbiamente, questo bene, essendo di ordine più elevato del mero bene individuale, è ipso facto anche più nobile.

* Importanza delle società di sfera privata per il bene comune della regione, della Nazione e dello Stato

Vi sono tuttavia casi in cui il bene di una società di diritto privato non si limita soltanto a procurare il proprio bene, ma si eleva a un livello più alto.
Un esempio può illustrare questa verità.
In un'Università, appartenente non allo Stato ma ad una fondazione o associazione secolare - come ce ne sono state e ce ne sono ancora tante nell'Europa e nelle Americhe - è frequente che si configuri uno stile di vita, di ricerca, di pensiero, di parlare e d'insegnare, un insieme di peculiarità intellettuali modellate specificamente nello stesso stile, gli stessi impulsi religiosi, patriottici, artistici e - nel senso più ampio del termine - culturali. Insomma, un identico e stabile patrimonio di valori che una generazione di professori e di alunni riceve dalla precedente, conserva, perfeziona e trasmette alla successiva. La tradizione universitaria, conservata in questo modo, costituisce un preziosissimo bene spirituale per le successive generazioni di maestri e alunni; essa segna profondamente la vita degli ex-alunni e forma un tipo umano specifico che, a sua volta, può caratterizzare l'intero ambiente della città la cui vita gira intorno all'Università.
È ovvio che una tale istituzione, per quanto appartenga al mero campo privato, costituisce un bene comune della regione e, secondo i casi, perfino del Paese in cui opera.
L'esempio di certe istituzioni private, come nel caso di un'Università, aiuta a capire pienamente ciò che è il bene comune regionale o nazionale. Infatti, la loro stessa rilevanza, ipso facto, le avvicina a questo bene comune, del quale ricevono una certa quale nobiltà che non si confonde con la mera, e d'altronde indiscutibile, dignità delle istituzioni integranti del settore esclusivamente privato.

* Una particolarissima società nella sfera privata: la famiglia

Beninteso, tra tutte le società private, nessuna ha carattere così fondamentale, nessuna è, per la nazione e per lo Stato, fonte di vita così autentica ed effervescente quanto la famiglia. Non abbiamo detto nulla su di essa fino a questo punto, rinviando ad ulteriori considerazioni. (1)
Vediamo dunque come la forza d'impatto e l'influenza delle istituzioni private possono segnare profondamente la vita politica della nazione - e perfino lo stesso ordinamento internazionale - impedendo, in questo modo, che il Paese cada in mano a meri gruppi di avventurieri. Questa influenza e forza d'impatto risultano, in larga misura, dall'intensità, dalla vitalità, dalla coesione e dalla continua tendenza al miglioramento che animano queste istituzioni.

b) La nazione e lo Stato nascono dalla sfera privata - La pienezza del bene comune

* La formazione delle nazioni e delle regioni

Quando un insieme di persone fisiche, di gruppi sociali e di persone giuridiche dediti al bene privato - o contemporaneamente al bene privato e a quello comune - giungono a coagularsi in un tutto nettamente distinto da quanto ne rimane estraneo, e giungono a costituire una realtà autonoma di carattere etnico, culturale, sociale, economico e politico; e quando, a sua volta, questo complesso non si lascia assimilare o federare da altri gruppi più ampi, questo tutto costituisce ipso facto una nazione. E il bene comune di questa nazione - che, politicamente organizzata, costituisce uno Stato - aleggia (2) sul bene comune di ciascuno dei gruppi che la costituiscono, come a sua volta il bene di ciascuno di questi aleggia sul bene di ogni individuo.
Analoga affermazione si potrebbe fare sulla regione. Essa è una realtà territoriale e, allo stesso tempo, un insieme di elementi costitutivi, simili a quelli della nazione. Da questo punto di vista, la differenza tra regione e nazione sta nel fatto che la regione non comprende la globalità degli elementi costitutivi di una nazione, ma solo una importante parte di questi elementi. La differenza tra le varie regioni di una nazione sta nel fatto che tali elementi costitutivi sogliono variare, ora più, ora meno, da una regione all'altra.
Un paragone può forse contribuire a chiarire l'argomento. Le regioni si differenziano tra loro e dalla Nazione come i bassorilievi si differenziano nel blocco di pietra in cui sono scolpiti. Una nazione si differenzia dall'altra come una statua da un'altra.
Alle nazioni spetta la sovranità; alle regioni, l'autonomia. Ne sono esempio gli Stati federali che sono sovrani, e si costituiscono in unità federative autonome.

* Lo Stato come società perfetta - la sua sovranità e maestà - la sua nobiltà suprema

Come abbiamo già detto, il bene comune, così inteso, comprende tutti i beni subordinati, senza assorbirli e neanche comprimerli. Il fatto di inglobarli comporta, per lo Stato, una supremazia di missione, di potere e pertanto di intrinseca dignità, adeguatamente espressa dalla parola maestà. (3) È normale, per una nazione, costituirsi in un tutt'uno, in società perfetta, (4) e quindi sovrana e maestatica, qualunque sia la sua forma di governo.
Questo potere maestatico è, a sua volta, sommamente nobile. Lo stesso fatto di essere sovrano, ossia supremo, gli conferisce una naturale intrinseca nobiltà, superiore a quella dei corpi intermedi situati tra l'individuo e lo Stato.
Ne dà prova tutto quanto abbiamo prima detto.  

2. La famiglia di fronte all'individuo, ai corpi intermedi e allo Stato

A questo punto bisogna domandarsi qual'è la relazione della famiglia con i vari corpi situati nella fascia intermedia tra l'individuo e lo Stato; più particolarmente, con i corpi attinenti in diverse forme al bene comune; e soprattutto con il corpo che ingloba tutti gli altri, abbracciandoli, collegandoli e governandoli, come fa col resto della nazione: cioè lo Stato, e il suo organo direttivo supremo che è il governo del Paese.
Abbiamo già fatto riferimento alla famiglia come uno di tali corpi intermedi. Bisogna qui aggiungere che la sua posizione davanti a questi organi è del tutto peculiare. Infatti questi ultimi tendono a differenziarsi tra loro, mentre al contrario la famiglia tende a penetrare in tutti, e nessuno di tali organi è in grado di esercitare sulla famiglia un'influenza uguale a quella che, a sua volta, essa può esercitare su di loro, quali che siano.

a) Dall'individuo alla famiglia, da questa alla gens, e infine alla tribù - nella direzione della fondazione della civitas nasce lo Stato

Essendo lo stato matrimoniale la comune condizione dell'uomo, è facendo parte della propria famiglia, in qualità di capo o di membro, che egli si inserisce nell'immenso tessuto di famiglie che integra il corpo sociale di un Paese.
Al pari della famiglia, la società è costituita anche da altri corpi intermedi, e l'inserimento di un individuo in uno di questi gruppi è un modo di integrarlo nel corpo sociale. Questo avviene per esempio nelle corporazioni di artigiani o dei mercanti, nonché nelle Università, o anche negli organi direttivi che costituiscono il potere municipale urbano o rurale.
Se si considera la nascita dello Stato, si vedrà che, in un modo o nell'altro, esso è derivato da società preesistenti la cui "materia prima" era la famiglia. Infatti questa ha dato origine a grandi insiemi famigliari che i greci chiamavano génos e i romani gens. Questi ultimi, a loro volta, formavano grandi complessi anch'essi di tonus famigliare, ma le cui correlazioni genealogiche si perdevano nella notte dei tempi e tendevano a dissolversi nella confusione: erano le fratrias tra i greci e le curias tra i romani. "Il processo di associazione - dice Fustel de Coulanges - continuò naturalmente a crescere, e secondo lo stesso metodo. Molte curie o fratrie si raggrupparono e formarono una tribù". (5)
A sua volta, l'associazione delle tribù formò la città, o meglio la civitas; e con ciò lo Stato. (6)

b) Nell'individuo e nella famiglia, i fattori più essenziali al bene comune dei corpi intermedi, della regione e dello Stato - La famiglia feconda, un microcosmo

L'esperienza dimostra che abitualmente la vitalità e unità di una famiglia sta in relazione naturale con la sua fecondità.
Quando la prole è numerosa, essa vede i genitori come dirigenti di una collettività umana di un certo peso, per via del numero che la compongono e anche - normalmente - per i preziosi valori religiosi, morali, culturali e materiali inerenti alla cellula famigliare, il che aura di prestigio l'autorità paterna e materna. Essendo i genitori in un certo modo un bene comune a tutti i figli, è normale che nessuno di questi pretenda assorbire tutte le attenzioni e tutto l'affetto dei genitori, strumentalizzandoli a vantaggio del proprio bene individuale. La gelosia tra fratelli trova terreno poco propizio nelle famiglie numerose, mentre il contrario può nascere facilmente nelle famiglie con pochi figli.
In queste ultime, inoltre, si crea non di rado una tensione genitori-figli, per cui uno del due poli tende a vincere l'altro e a tirannizzarlo.
I genitori, ad esempio, possono abusare dell'autorità, sottraendosi alla convivenza domestica per utilizzare tutto il tempo disponibile nelle distrazioni della vita mondana, relegando i figli alle cure mercenarie delle baby-sitters o disperdendoli nel caos di certi collegi turbolenti e privi di legittima sensibilità affettiva.
Possono tirannizzarli anche - è impossibile non accennarvi - con varie forme di violenza famigliare, così crudeli e frequenti nella nostra società scristianizzata.
Nella misura in cui la famiglia è più numerosa, diventa più difficile che si formi una qualche tirannia domestica. I figli si rendono meglio conto di quanto pesino ai genitori, tendono perciò ad esser loro grati e ad aiutarli con rispetto - quando giungerà il momento - nella conduzione degli affari famigliari.
A sua volta, il numero considerevole di figli dà all'ambiente domestico un'animazione, una giovialità effervescente, un'originalità incessantemente creativa nel modo di essere, di agire, di sentire e di analizzare la realtà quotidiana all'interno e all'esterno della casa, che fanno della convivenza famigliare una scuola di saggezza e di esperienza, causata interamente dalla tradizione trasmessa sollecitamente dai genitori e accresciuta rispettosamente e cautamente dal prudente e graduale rinnovamento prodotto dai figli. La famiglia è così un piccolo microcosmo, allo stesso tempo aperto e chiuso alle influenze esterne.
La coesione di questo microcosmo risulta da tutti i fattori sopra ricordati e viene rinforzata principalmente nella formazione religiosa e morale data dai genitori in consonanza col parroco, come pure nell'armonica convergenza delle varie ereditarietà fisiche e morali che, tramite i genitori, abbiano contribuito a modellare le personalità dei figli.

c) Famiglie, microcosmi che convivono fra loro in modo analogo alle nazioni ed agli stati

Questo microcosmo si differenzia da altri microcosmi analoghi, ossia da altre famiglie, a causa di qualità caratteristiche che ricordano in piccola scala le differenze tra le regioni di uno stesso Paese, o di diversi Paesi in una stessa area di civiltà.
La famiglia così costituita ha abitualmente un certo qual temperamento comune, aspirazioni, tendenze e avversioni comuni, modi comuni di convivenza, di riposo, di lavoro, di risolvere i problemi, di affrontare avversità e di trarre profitto dalle circostanze favorevoli. In tutti questi campi, le famiglie numerose hanno princìpi di pensiero e di azione corroborati dall'esempio delle opere dei loro antenati, non di rado mitizzati dalla nostalgia e dalla lontananza temporale.

d) La famiglia e il mondo delle attività professionali o pubbliche - Lignaggi e professioni

Ora, succede che questa grande e incomparabile scuola di continuità - incessantemente arricchita dall'elaborazione di aspetti nuovi modellati secondo una tradizione ammirata, rispettata e amata da tutti i membri della famiglia - influenza molto gli individui nella scelta delle loro attività professionali, o delle responsabilità che vogliano esercitare in favore del bene comune.
Ne deriva che, frequentemente, vi sono lignaggi di professionisti provenienti dallo stesso ceppo famigliare, per cui l'influenza della famiglia penetra nell'àmbito professionale.
In realtà, nel consorzio così formato tra attività professionale o pubblica, da un lato, e famiglia, dall'altro, anche questi vari tipi di attività esercitano la loro influenza sulla famiglia. Si stabilisce così una simbiosi naturale e altamente auspicabile.
Importa però soprattutto notare che, il più delle volte, lo stesso corso naturale delle cose fa sì che l'influenza della famiglia sulle attività ad essa estrinse che sia maggiore di quella esercitata da tali attività sulla famiglia.
In altri termini, quando la famiglia è autenticamente cattolica, e si affida non solo alla sua naturale e spontanea forza di coesione, ma anche alla soprannaturale influenza della mutua carità che le proviene dalla grazia, l'organismo famigliare raggiunge le condizioni ottimali per segnare con la sua influenza tutti o quasi tutti i corpi intermedi tra l'individuo e lo Stato, e infine anche lo stesso Stato.

e) I lignaggi formano élites perfino nei gruppi o negli ambienti professionali più plebei

A partire di queste considerazioni, è facile comprendere che l'influenza benefica di lignaggi pieni di tradizione e di forza creativa, in tutti i gradi della gerarchia sociale, dai più modesti ai più elevati, costituisce un prezioso e insostituibile fattore di ordine, sia nella vita individuale che nel settore sociale privato che nella vita pubblica. Per la stessa forza dei costumi, la direzione effettiva dei vari corpi privati finisce nelle mani di lignaggi che spiccano come i più dotati per conoscere il gruppo sociale, coordinarlo, zavorrarlo con una robusta tradizione e dargli la spinta vigorosa di un continuo miglioramento nel modo di essere e di agire.
In questa prospettiva, è legittimo che, nell'ambito di alcuni fra questi gruppi, si formi una élite para-nobiliare, un lignaggio preponderantemente para-dinastico, etc. Questo fatto contribuisce anche, nelle provincie e nelle regioni rurali, a formare "dinastie" locali, in qualche modo analoghe alle dinastie regali.

f) Società gerarchica, e come tale partecipativa - Padri regali e re paterni

Tutto questo quadro ci descrive una Nazione come un insieme di corpi i quali sono costituiti, a volte, da corpi minori; e così, in graduale linea discendente, fino a giungere al semplice individuo.
Seguendo all'inverso lo stesso percorso, si percepisce chiaramente il carattere graduale, e in quanto tale anche gerarchico, dei vari corpi che mediano tra il semplice individuo e il più alto governo dello Stato.
Tenendo presente che il tessuto sociale è costituito da tutto un ampio ordito di individui, famiglie e corpi intermedi, se ne conclude che, da un certo punto di vista, la stessa società è un insieme di gerarchie di diverse indoli e nature che coesistono, si sostengono a vicenda e si correlano e sopra le quali aleggia appena, nella sfera temporale, la maestà della società perfetta, ossia lo Stato; e, nella sfera spirituale - la più elevata - la maestà dell'altra società perfetta, ossia la Santa Chiesa di Dio.
Così concepita, questa società di élites è altamente partecipativa. In essa, cioè, classe, influenza, prestigio, ricchezza e potere sono partecipati dall'alto al basso, in diverse maniere secondo ogni grado, da corpi con peculiarità proprie. In questo modo, un tempo si poteva dire che nella famiglia, anche quella più modesta, il padre era re dei figli e, al vertice, il re era padre dei padri. (7)
Si veda anche, su questo stesso argomento, il testo di mons. Henri Delassus, in Documenti IX.
  
3. Origini storiche della nobiltà feudale - Genesi del feudalesimo

Nel contesto di questo quadro, è possibile comprendere meglio ciò che è la nobiltà, la classe che, diversamente da alcune altre, non ha soltanto tracce di nobiltà, ma è pienamente nobile, interamente nobile; è la nobiltà per eccellenza.
Qualche parola sulle sue origini storiche abbrevierà questa spiegazione.

a) La classe dei proprietari terrieri si costituisce come nobiltà militare e anche come autorità politica

Mentre il grandioso Impero Carolingio era ridotto in macerie, vi si lanciarono in nuove e devastanti incursioni i barbari, i normanni, gli ungheresi e i saraceni. Non potendo le popolazioni, così attaccate da tutti i lati, resistere a tante calamità ricorrendo solo al potere centrale dei re, già tanto indebolito, esse si rivolsero, naturalmente, ai rispettivi proprietari terrieri, alla ricerca di qualcuno che li comandasse e li governasse in circostanze così calamitose. Accondiscendendo alla richiesta, i proprietari costruirono fortificazioni per sé e per i suoi.
Secondo lo spirito del tempo, profondamente cristiano, per "suoi" si intendeva includere, paternamente, non solo i famigliari, ma anche la cosiddetta società erile, formata da domestici, manovali e dalle rispettive famiglie, che abitavano nelle terre del proprietario. Per tutti c'era protezione, cibo, assistenza religiosa e comando militare in queste fortificazioni, che, col tempo, si vennero trasformando nei superbi castelli signorili, di cui oggi sopravvivono tanti esemplari. Nel recinto di questi castelli, erano contenuti talvolta perfino i beni mobili e il bestiame che ogni famiglia di contadini riusciva a sottrarre alla cupidigia degli invasori.
Nella difesa militare, il proprietario terriero i suoi famigliari erano i primi combattenti. Il loro dovere era di comandare, stare nell'avanguardia, nella pericolosa direzione delle offensive più rischiose, delle difese più ostinate.
Alla condizione di proprietario si aggiunse così quella di capo militare e di eroe.
Negli intervalli di pace, con molta naturalezza, tutte queste circostanze gli conferivano potere politico locale sulle terre circostanti, il che faceva del proprietario un signore, un dominus nel senso pieno della parola, con funzioni di legislatore e di giudice. In quanto tale, egli rappresentava un elemento di unione con il re.

b) La classe nobiliare: partecipazione subordinata del potere regio

La classe nobiliare si formò così come una partecipazione subordinata del potere regio.
Riassumendo quanto detto, essa aveva a carico il bene comune della sfera privata, ossia la conservazione e l'incremento dell'agricoltura e della pastorizia, delle quali vivevano tanto i nobili che i plebei. Era a suo carico anche il bene comune della sfera pubblica - per il fatto di rappresentare il re nella zona - bene più elevato, di natura più universale e pertanto intrinsecamente nobile. Infine, la nobiltà aveva una certa partecipazione nell'esercizio dello stesso potere centrale del monarca, in quanto i nobili di categoria più elevata erano, di solito, abituali consiglieri dei re. Nobili erano, per la maggior parte, i ministri di Stato, gli ambasciatori e i generali, cariche indispensabili all'esercizio del governo supremo del Paese. Il nesso tra le alte funzioni pubbliche e la condizione nobiliare era tale che, perfino quando conveniva al bene comune che elementi della plebe fossero elevati a queste funzioni, generalmente giungevano a ricevere dal re titoli nobiliari che innalzavano loro, e a volte anche i loro discendenti, alla condizione di nobile.
Il proprietario, spinto dalla forza delle circostanze ad una missione più elevata di quella della mera produzione fondiaria, ossia a una certa tutela della salus publica tanto in guerra che in pace, si trovava investito di poteri normalmente di governo, a livello locale. In questo modo, egli saliva ipso facto ad una condizione più alta, nella quale gli spettava essere in un certo qual modo una miniatura del re. La sua missione, dunque, partecipava intrinsecamente della nobiltà della stessa missione regia.
La figura del proprietario-signore nobile nasceva così dalla spontanea realtà dei fatti.
Questa missione, insieme privata e nobile, comportò un graduale ampliamento quando le circostanze - più alleggerite da preoccupazioni e da pericoli esterni - andarono permettendo all'Europa cristiana di conoscere più lunghi periodi di pace; e per molto tempo non cessò di ampliarsi.

c) Si delineano le regioni - Il bene comune regionale - Il signore della regione

Infatti, nelle nuove situazioni, gli uomini potevano estendere le loro vedute, i loro pensieri e le loro attività a campi gradualmente più vasti. Si costituirono allora regioni modellate frequentemente da vari fattori locali, come ad esempio le caratteristiche geografiche, le necessità militari, gli scambi d'interesse, l'affluenza di moltitudini di pellegrini a santuari di grande attrazione, perfino in zone lontane; come pure l'affluenza di studenti ad università di grande fama e di mercanti alle fiere più rinomate.
Contribuirono inoltre a caratterizzare queste regioni affinità psicologiche peculiari, derivanti dai più svariati fattori: l'eredità di lotte fatte in comune, a volte per molto tempo, contro un avversario esterno; le somiglianze di linguaggio, di costumi, di espressioni artistiche, etc.
Il bene comune regionale comprendeva in questo modo i vari beni comuni più strettamente locali; per ciò stesso, esso era più elevato e più nobile.
Le redini del comando di questo bene comune regionale capitavano normalmente nelle mani di un signore dai più ampi dominii, più potente, più rappresentativo dell'intera regione, e quindi più capace di coagularne le varie parti, riunendole in un tutt'unico senza pregiudizio per le rispettive autonomie; tutto ciò, sia per la guerra che per le attività inerenti alla pace.
A questo signore della regione - anch'egli una miniatura del re nella regione, così come il semplice signore proprietario lo era nella località più ristretta - spettava in tal modo una posizione con un insieme di diritti e doveri intrinsecamente più nobili.
Così, il signore feudale - il proprietario-signore nobile, del cui diritto di proprietà partecipava un gran numero di manovali attraverso un legame abbastanza simile all'attuale enfiteusi - doveva al suo rispettivo signore un vassallaggio analogo, sebbene non identico, a quello che quest'ultimo, a sua volta, prestava al re.
Al vertice della gerarchia sociale si andava così formando una gerarchia nobiliare.

d) Il re medioevale

Beninteso, di principio nulla di ciò operava staccato o contro il re, simbolo supremo del popolo e del Paese; al contrario, restava al di sotto del monarca, sotto la sua egida tutelare e sotto il suo potere supremo, per conservare in suo favore questo grande insieme organico di regioni e di autonomie locali che era allora una Nazione.
Perfino nelle epoche in cui lo sfacelo de facto del potere regio si aggravò ulteriormente, mai fu contestato il principio monarchico unitario. Una nostalgia dell'unità regia - e perfino, in molti luoghi, dell'unità imperiale carolingia, comprensiva di tutta la Cristianità - mai cessò di esistere nel Medioevo. Così, man mano che i re andarono recuperando i propri mezzi per esercitare un potere che abbracciasse effettivamente l'intero regno e ne rappresentasse il bene comune, cominciarono a farlo.
Chiaramente, questo immenso processo di stabilizzazione, di ridefinizione dei compiti e di organizzazione, al livello locale e poi regionale, seguito da un non minore processo di riarticolazione unificatrice e centralizzatrice della nazione, non avvenne senza che apparissero qui o là rivendicazioni eccessive, formulate unilateralmente e appassionatamente, da parte di coloro che rappresentavano giuste autonomie o promuovevano necessarie riarticolazioni. Tutto questo portava, in genere, a guerre feudali a volte lunghe e intrecciate con conflitti internazionali.
Questo era il duro tributo così pagato dagli uomini per via del peccato originale, dei peccati attuali, della mollezza o della maggiore o minore compiacenza con la quale resistono o si abbandonano allo spirito del male.
Nonostante tutti questi ostacoli, il senso profondo della storia del feudalesimo e della nobiltà non si spiega se non si prende in considerazione quello che abbiamo detto; e in questo modo si modellarono la società e lo Stato medioevali.
In realtà, le origini e lo sviluppo del regime feudale e della gerarchia che lo caratterizzava ebbero qui o là caratteristiche diverse, anche per via di circostanze differenti, applicandosi non a tutti gli Stati europei ma a molti di questi. A titolo di esempio, tuttavia, il processo costitutivo di questo regime può essere descritto come abbiamo detto.
Molti tratti di questo quadro li ritroviamo nella storia di più di un regno che, tuttavia, non ebbe un regime feudale nel senso pieno del termine. Ne sono rilevanti esempi le due nazioni iberiche, Portogallo e Spagna. (8)

e) Il regime feudale: fattore di unione o di disunione? - L'esperienza del federalismo contemporaneo

Molti storici vedono nel feudalesimo istituito in certe regioni d'Europa, e nelle situazioni fondiarie para- feudali formatesi in altre, pericolosi fattori di disunione.
Tuttavia, l'esperienza ha dimostrato che l'autonomia, considerata in se stessa, non è necessariamente fattore di disunione.
Per esempio, oggi nessuno considera le autonomie degli Stati integranti le repubbliche federali esistenti nel Continente americano, come fattori di disunione; al contrario, come modi di collegamento agili, plastici, fecondi, per un'unione intelligentemente intesa. Infatti, regionalismo non vuol dire ostilità tra le componenti, o tra queste e il tutto, ma autonomia armonica, come anche ricchezza di beni spirituali e materiali, sia nei tratti comuni a tutte le regioni che nelle caratteristiche peculiari di ognuna di esse.  

4. Il nobile e la nobiltà: interazione modellatrice

a) Origini - Un processo consuetudinario

Considerando la nobiltà descritta come era nei secoli del suo pieno vigore, nei diversi Paesi dell'Europa medioevale e post-medioevale, e l'immagine che se ne formano oggi i suoi componenti o ammiratori, - sia nell'Europa che nelle nazioni nate dalle scoperte geografiche, dal ripopolamento, dal genio organizzatore dei popoli europei, nonché dallo zelo missionario della Chiesa - si nota che la nobiltà, ieri come oggi, si basa su certi princìpi coerenti fra loro. Questi compongono così una teoria che, nelle sue linee essenziali, si è conservata semper et ubique la stessa, nonostante presentasse notevoli varianti secondo i tempi ed i luoghi.
Questo sistema dottrinale di fondo lo vediamo germinare nella mentalità dei popoli europei dell'alto Medioevo, modellando l'istituzione nobiliare quasi sempre per via consuetudinaria; dimodoché, storicamente, questa dottrina giunse alla sua più ampia e coerente applicazione all'apogeo dell'Età Media. Questo accadde pari passa con la piena e armonica espansione del feudalesimo e delle sue conseguenze, sia in campo politico che in quello sociale ed economico.
Bisogna rilevare che questa elaborazione teorico-consuetudinaria, dai vasti orizzonti e dai lineamenti sottilmente polimorfici, ha avuto come agenti simultanei e armonici non solo le famiglie nobiliari, ma anche il resto del corpo sociale, soprattutto il clero, le università e altri corpi intermedi, cioè gli intellettuali, la cui riflessione spaziava nelle più alte lande del pensiero umano, fino ai modesti piccolo-borghesi e ai semplici manovali. Era un processo così naturale che, in vari campi, continua in qualche misura ad essere lo stesso, fino al nostro tormentato secolo.

b) Esempi nei diversi campi

Così, l'esercito tedesco anteriore alla prima Guerra Mondiale fu ampiamente modellato dall'idea che se ne faceva l'opinione pubblica profondamente influenzata dal militarismo prussiano. Analoga influenza giunse a "scolpire" la Gestalt del Kaiser Guglielmo II, simbolo contemporaneamente dell'esercito e della Nazione. Affermazione analoga si potrebbe fare - con nota militare meno accentuata - sull'idea che l'opinione pubblica
di altri Paesi, nella stessa epoca, si faceva dei propri rispettivi monarchi e delle forze armate, come ad esempio Francesco Giuseppe in Austria ed Edoardo VII in Inghilterra.
Risaliamo a questi esempi storici per essere indiscutibili in questa prospettiva... se c'è qualcosa di indiscutibile in questo tipo di argomenti.
Ma, per dimostrare la perennità del processo cui alludiamo, basta ricordare l'ondata universale di entusiasmo sollevata dal vetusto e splendente cerimoniale del matrimonio tra Carlo e Diana, Principe e Principessa di Galles. Questo esempio serve anche per verificare quanto ha guadagnato in stabilità, in quell'occasione, il profilo psicologico e morale ormai classico, che, secondo antiche aspirazioni dell'Inghilterra, devono avere il principe ereditario e la sua sposa. In quella cerimonia apparvero anche gli aggiornamenti accidentali che quel Paese vuole introdurre in questo profilo, e ipso facto nella fisionomia generale della nazione.
Questo esempio lascia chiaramente intravedere in cosa consiste la forza consuetudinaria spontanea, creatrice, conservatrice o restauratrice, che una nazione intera, considerata nella sua globalità e senza scontri notevoli tra correnti, può sviluppare nel modellare, in genere in modo lento, prudente, ma tuttavia rinnovatore, istituzioni come la nobiltà.  
5. La monarchia assoluta, ipertrofia della regalità tendente allo Stato totalitario populista
Il risultato armonico ottenuto nella società feudale cominciò a dissolversi con la diffusione dei principi dei legisti (9) e anche in conseguenza di altri fattori. A partire da ciò, e fino alla Rivoluzione del 1789, in tutta Europa il potere regio si mosse nella prospettiva di assorbire sempre più le antiche autonomie, diventando sempre più centralizzatore.

a) La monarchia assoluta assorbe i corpi e i poteri subordinati

Molto diversa da quel sistema di élites sovrapposte, nobili o meno, che potevano trovarsi disseminate nelle più diverse nazioni, era l'indole della regalità assoluta che, in quasi tutte le monarchie europee, andò riunendo nelle mani del re (che a sua volta si identificava sempre più con lo Stato: "L'Etat, c'est moi", è una massima generalmente attribuita a Luigi XIV) la pienezza dei poteri prima disseminati tra i corpi intermedi, come abbiamo visto.
Al contrario del monarca feudale, il monarca assoluto del tempi moderni, ha intorno a sé una nobiltà che lo accompagna notte e giorno; essa gli serve principalmente da elemento decorativo, ma priva di un qualsiasi potere effettivo. In questo modo, il sovrano assoluto si trova separato dal resto della nazione da un solco profondo, o meglio da un abisso. Questa era la situazione tipica del re di Francia nei tempi moderni, che ha avuto in Luigi XIV, il "Re Sole", il suo più perfetto prototipo. (10)
Alla realizzazione di un tale modello tendevano, con maggiore o minore ansia, i vari monarchi alla fine del secolo XVIII. Questo tipo di sovrano suscitava nell'osservatore un primo impatto di ammirazione per la sua onnipotenza, che tuttavia restava appena alla superficie della situazione. Ma poi, quest'apparenza di potere illumitato non faceva che velare l'impotenza profonda in cui si collocavano i re assoluti per via del loro stesso isolamento.

b) Non restava loro che appoggiarsi alle burocrazie civili e militari - Le pesanti 'stampelle' della regalità assoluta

Infatti, sempre più sciolti dai legami vitali con tutti i corpi intermedi che costituivano la Nazione, questi monarchi assoluti avevano perduto i propri appoggi naturali, o li avevano indeboliti per la condizione di crescente asfissia provocata dal loro stesso assolutismo.
Incapace quindi di mantenersi in piedi, di muoversi e di lottare con il sostegno dei propri elementi costitutivi naturali - e cioè i gruppi intermedi - la monarchia assoluta era obbligata ad appoggiarsi a reti burocratiche, sempre maggiori. Questi organismi burocratici costituivano le pesanti stampelle, luccicanti ma fragili, di questa regalità della fine del secolo XVIII. Infatti il funzionarismo, quanto più è grande, tanto più è pesante; e quanto più è pesante, tanto più grava su quegli stessi che, pur di rimanere in piedi e muoversi, sono obbligati ad appoggiarvici.
Così, la regalità assoluta e burocratica divorò nel corso del tempo lo Stato paterno, famigliare e organico.
Ricorderemo ora alcuni esempi storici che illustrano come questo processo si formò in certi Paesi europei.

c) Centralizzazione del potere in Francia

In Francia, i grandi feudi vennero riassorbiti dalla Corona, soprattutto per effetto delle alleanze matrimoniali tra membri della Casa Reale ed eredi delle grandi unità feudali. Contemporaneamente, una sorta di forza centripeta coagulava a Parigi le principali leve di comando e di influenza del regno. Luigi XIV sviluppò questa politica in tutte le sue conseguenze.
L'ultimo assorbimento di un territorio feudale effettuata dalla Corona francese, portata a termine mediante negoziati diplomatici che ancora avevano apparenze di accordi di famiglia, ebbe per oggetto il ducato di Lorena. Nel Trattato di Vienna (1738) fu sancito l'accordo tra Francia e Austria per cui la Lorena passava a titolo vitalizio a Stanislas Leszczinski, Re detronizzato di Polonia e padre della Regina Maria Leszczinska, sposa di Luigi XV. Alla morte del suocero del Re francese, il ducato di Lorena sarebbe stato incorporato automaticamente al regno di Francia. E fu quello che realmente avvenne.

* Debolezza della farraginosa onnipotenza bonapartista

L'archetipo farraginoso e terribile della monarchia burocratica, che non aveva più nulla di paterno, fu lo Stato, completamente militare, finanziario e amministrativo, del Bonaparte.
Dopo aver vinto gli austriaci a Wagram (1809), Napoleone occupò Vienna per alcuni mesi. Quando alla fine le truppe francesi si ritirarono, l'Imperatore Francesco I d'Austria poté tornare alla sua capitale. In questa occasione, i viennesi gli offrirono un'accoglienza festosa per consolarlo della pesante sconfitta e degli infortuni a cui lui e il Paese erano andati soggetti. (11) Risulta che, nel venire a conoscenza di questo fatto, il despota corso non poté trattenersi dall'emettere un gemito: "Che monarchia forte!" Così egli avrebbe qualificato la monarchia degli Asburgo, forse la più paterna e organica dell'Europa di quel tempo...
Il seguito della storia dimostrò che Bonaparte aveva ragione. Alla fine dei "centogiorni", sconfitto definitivamente a Waterloo, nessuno in Francia pensò a offrirgli un festoso omaggio in riparazione dell'immensa tragedia che si era abbattuta su di lui.
Al contrario, quando il conte di Artois, futuro Carlo X, entrò a Parigi ufficialmente, per la prima volta dopo la Rivoluzione, come rappresentante di suo fratello Luigi XVIII, fu grande la festa compiuta per celebrare la dinastia legittima, la quale tornava dall'esilio senza gli allori di nessuna vittoria militare, ma soltanto col prestigio di un'immensa sventura sopportata con maestosa dignità. (12)
Dopo la sua seconda e definitiva abdicazione, isolato nel suo fallimento, Napoleone venne ridotto all'impotenza, al punto di dover chiedere asilo al re dell'Inghilterra, cioè al capo di uno degli Stati che gli erano fra i più implacabili nemici. Nemmeno l'imminente prospettiva della distruzione del suo trono suscitò nei suoi più vicini seguaci il coraggio di sollevare in suo favore una qualsiasi guerriglia o rivoluzione, ispirata all'amore filiale di sudditi leali verso il loro monarca.
Guerriglie o rivoluzioni in difesa dei loro principi, invece, furono sollevate dalla lealtà monarchica in Vandea e nella penisola iberica, (13) o sollevate dal ferreo lealismo dei valorosi contadini del Tirolo capitanati da Andreas Hofer, contro Napoleone, in difesa della Chiesa cattolica e della Casa d'Austria. A questi difensori della fede - come pure della corona e della indipendenza portoghese e spagnola, del trono francese e della
monarchia asburgica - toccò versare il sangue per dinastie che ancora avevano sensibili tratti della paternalità di un tempo. In questo, come in molte altre cose, esse erano radicalmente diverse dal despotismo duro e arrogante di Napoleone, come anche da quello molle e timoroso di suo fratello Giuseppe, da lui "promosso" autoritariamente a "Re" di Napoli e "Re" de Spagna.
Ad eccezione dell'avventura dei "cento giorni", l'esercito francese, per sua parte, accettò disciplinatamente la caduta di Napoleone. Infatti, per quanto epiche e brillanti fossero le memorie che l'univano al Corso, non avevano la forza di coesione dei vincoli famigliari. Napoleone non poteva dire dei suoi eserciti quello che avrebbe affermato la Regina Isabella di Castiglia, non senza una certa gelosia, del leale e combattivo popolo portoghese. Il segreto di questa lealtà e dedicazione, secondo lei, stava nel fatto che i valorosi combattenti portoghesi "sono figli e non vassalli" del loro re. (14)

d) La dissoluzione del Sacro Romano Impero.

Il Sacro Romano Impero, elettivo fin dalle origini, diventò ereditario di fatto nel 1438, quando venne eletto Alberto II l'Illustre, della Casa d'Austria. Da allora in poi, il collegio dei Prìncipi elettori designò sempre il capo della stessa casa al trono imperiale. Una eccezione, solo apparente, fu rappresentata dall'elezione di Francesco di Lorena nel 1745, giacché questi in verità sposò l'erede della Casa d'Austria, l'arciduchessa Maria Teresa. Si costituì cosi la Casa degli Asburgo-Lorena, legittima continuatrice della Casa d'Austria, alla testa del Sacro Impero. (15)
Ma il carattere fortemente federale sopravvisse nel Sacro Impero fino alla sua dissoluzione, nel 1806, in forza della rinuncia fatta dall'Imperatore Francesco II (Francesco I d'Austria) per le pressioni di Napoleone. Questi ridusse drasticamente il numero delle unità sovrane dell'Impero imponendo, nello stesso anno, la Confederazione Renana.
La successiva Confederazione Germanica (1815-1866), che aveva l'Imperatore d'Austria come presidente ereditario, svolse in questo processo centripeto un ruolo di carattere conservatore. Essa fu tuttavia sciolta per colpa della guerra austro-prussiana e della battaglia di Sadowa (1866). Allora si formò, sotto l'egemonia prussiana, la Confederazione Germanica del Nord, dalla quale vennero esclusi l'Austria e altri Stati della Germania del Sud.
Dopo la sconfitta di Napoleone III, nel 1870, la suddetta Confederazione diventò il Reich tedesco, molto più centralizzato, che riconobbe come sovrani solo 25 Stati integranti.
Non doveva fermarsi qui l'impulso centripeto. L'Anschluss dell'Austria e poco dopo l'annessione dei Sudeti al III Reich (1938) portarono quell'impulso a un culmine dal quale scaturirà la II Guerra Mondiale. L'annullamento di queste conquiste centripete di Adolf Hitler, come la reincorporazione della Germania Orientale all'attuale stato tedesco, segnano forse il punto finale di queste successive modifiche della geografia germanica.

e) L'assolutismo nella penisola iberica

Analogo fu lo scorrere degli eventi in Portogallo e in Spagna, verso l'assolutismo regio.
Col declino del Medioevo, in entrambi i regni iberici, l'organizzazione politica e socio-economica tese gradualmente verso la centralizzazione. Questa tendenza fu sfruttata con abilità dai rispettivi sovrani, con l'intenzione di ampliare e consolidare continuamente il potere della Corona sui vari corpi dello Stato, in particolare sulla grande nobiltà. In questo modo, quando scoppiò nel vecchio Continente la Rivoluzione francese, il potere dei re portoghese e spagnolo era giunto al suo culmine storico.
Ciò non accadde, naturalmente, senza numerosi attriti tra il re e la nobiltà.
Questa tensione ebbe episodi notevoli e drammatici in Portogallo, sia durante il regno di Giovanni II - con l'esecuzione capitale del duca di Braganza e di altri grandi nobili del regno, nonché con la morte del duca di Viseu, fratello della regina, accoltellato alla presenza del monarca - sia durante il regno di Giuseppe I, con l'esecuzione pubblica del duca di Aveiro e di personaggi fra i più notevoli dell'aristocrazia, soprattutto dell'illustre casato dei Távoras.
In Spagna, durante il regno dei re cattolici Ferdinando di Aragona e Isabella di Castiglia, si delinea pienamente questa tendenza accentratrice, che si era fatta notare in diversi monarchi del casato di Trastamara e che andò crescendo lungo i regni successivi, giungendo al suo culmine con i re della casa dei Borbone nel secolo XVIII. Il divieto di costruire nuovi castelli, la distruzione di molti altri, la limitazione dei privilegi nobiliari, come pure il trasferimento alla Corona di Castiglia del dominio dei porti marittimi, furono alcune delle misure iniziali prese dai re cattolici che provocarono la diminuzione del potere della nobiltà. Contemporaneamente, il Magistero dei principali Ordini militari fu incorporato dalla Corona.
Alla fine di questo processo - ancor prima del 1789 - la cosiddetta nobiltà storica si mostrava sempre più appagata nel gravitare attorno al monarca, dimorando nella capitale e non di rado ospitata nelle stesse reggie, a somiglianza di quanto accadeva in altri Paesi dell'Europa, soprattutto in Francia ad opera del Re Sole e dei suoi successori, circondati dalle ineguagliabili magnificenze del castello di Versailles.
La vita di corte, in cui questa nobiltà svolgeva alte funzioni, assorbiva buona parte del loro tempo ed esigeva da essa un tenore di vita fastoso, per il quale spesso non bastavano i proventi derivati dalle terre di famiglia. Di conseguenza, i re retribuivano le cariche auliche di buona parte di questa nobiltà. Ma, anche così, non era raro che la somma di questa retribuzione e dei proventi terrieri non bastasse. Ne derivavano in più di una corte rovinosi indebitamenti, risolti a volte mediante mésalliances con l'alta borghesia, o riparati da sussidi dispensati dai re a titolo di favore.
· Conseguenza dell'assolutismo: infiacchimento della nobiltà e dello stesso potere regio
Dopo le sfortunate invasioni napoleoniche nel Portogallo (1807-1810) e nella Spagna (1808-1814), i relativi regimi monarchici vennero sempre più liberalizzandosi. In questo modo, le Corone persero molto in influenza non solo politica ma anche socio-economica, e i titoli nobiliari, che i sovrani portoghesi e spagnoli andavano distribuendo con crescente larghezza, giunsero a includere molte persone che non appartenevano alla nobiltà, ma che l'ottennero o per mera preferenza personale del monarca o per servizi prestati allo Stato o alla società nei più svariati campi di attività. (16)
Questo ampiamento dei quadri nobiliari - escludendo gli eccessi che ogni tanto si verificavano nel conferimento dei titoli - corrispondeva alla necessità di rispondere alle equilibrate esigenze di trasformazioni socio-economiche, riconoscendo l'utilità, spesso effettiva, di queste attività per il bene comune. Tuttavia, numerosi di questi ampiamenti mancavano di criterio e di discernimento, sminuendo la considerazione di cui un tempo la nobiltà godeva. Diventava così meno significativo il premio che alcuni autentici promotori del bene comune ricevevano nell'essere introdotti in un corpo sociale che, come la nobiltà, ha tutto da perdere con la mancanza di una intelligente e discreta selezione: nobiltà e selezione sono infatti concetti correlati.
Dopo la proclamazione della repubblica in Portogallo, nel 1910, vennero aboliti titoli nobiliari, distinzioni onorifiche e diritti di nobiltà. (17)
A sua volta, la proclamazione della Repubblica in Spagna nel 1873 e nel 1931, con le successive restaurazioni monarchiche, diedero origine ad altrettante estinzioni e restaurazioni dei diritti e privilegi della nobiltà; il tutto con evidenti traumi per il corpo nobiliare.

f) La strapotenza dello Stato borghese - L'onnipotenza dello Stato comunista

In sintesi, e anche come rapido sguardo prospettico sullo stato attuale del processo accentratore, bisogna dire che già nel secolo XIX si delineava lo strapotere dello Stato borghese in nazioni, alcune delle quali solo residualmente monarchiche, altre già apertamente repubblicane.
Durante la Belle Epoque, come pure nel periodo tra le due guerre mondiali, o nell'ultimo dopoguerra, le Corone andarono sempre più cadendo e gli strapotenti Stati democratici aprirono le vie storiche all'onnipotente Stato proletario.
La narrazione della storia dell'assolutismo dello Stato proletario - allo stesso tempo furioso detrattore e lontano prosecutore dell'assolutismo monarchico del Secolo dei Lumi - e del sorgere della perestrojka, della
glasnost e dell'autogestione socialista - come reazioni che a loro volta accusano e proseguono l'assolutismo proletario - è evidentemente estranea alla tematica del presente lavoro.  

6. Genesi dello Stato contemporaneo

a) Il declino delle regioni - Il processo verso l'ipertrofia del potere regio

Come abbiamo detto precedentemente, all'inizio dell'epoca moderna il modello feudale si trovava in un'accentuato processo di decadenza politica. Infatti il potere regio andava consolidandosi fino aggiungere all'ipertrofia nei secoli XVII e XVIII. Cominciava così a nascere lo Stato contemporaneo, basato sempre meno sull'aristocrazia rurale, sull'autonomia e sull'impulso creativo delle regioni, e sempre più su organi burocratici mediante i quali si va estendendo l'azione dello Stato in tutto il Paese.
Parallelamente, le vie di comunicazione, sempre più transitabili e più protette dal banditismo endemico dei secoli anteriori, favorivano scambi di vario genere tra le diverse regioni del Paese. A loro volta, l'estendersi del commercio e il sorgere di nuove industrie uniformava il consumo. I regionalismi di ogni genere entravano in decadenza, e la formazione di centri urbani sempre maggiori andavano spostando il centro di gravitazione dalle microregioni alle macroregioni, e da queste alle metropoli nazionali.
La capitale di ogni Paese andava sempre più diventando il grande polo di attrazione delle energie centripete di tutto il territorio, nonché il fuoco d'irradiazione del comando emanato dalla Corona. Pari passu, la corte attraeva sempre più la nobiltà, un tempo prevalentemente rurale; essa si cristallizzava intorno al re, che è il punto di partenza del comando, ossia dell'irradiazione di tutto quanto si fa nel Paese.

b) Sotto il regime democratico-rappresentativo, l'assolutismo regio si trasforma nell'assolutismo statale

Se si presta attenzione a questo graduale e implacabile processo centripeto, si vedrà che esso continua a progredire nelle successive, e sempre più assorbenti, forme di Stato nati infine nei secoli XIX e XX. Così, lo Stato repubblicano e borghese del secolo XIX era, nonostante i suoi aspetti liberal-democratici, più accentratore dello Stato monarchico della fase precedente. Esso subì un incontestabile processo di democratizzazione (18) che aprì le porte del potere alle classi non nobili, ma venne escludendo gradualmente da questo stesso potere le classi nobili; modo peraltro discutibile di praticare l'uguaglianza. Quanto alla libertà, essa diventò sempre più rara per i cittadini, sull'insieme dei quali andò pesando la mole crescente di legislazioni in continua espansione. Questo, dal punto di vista dello Stato.

a) La piramidizzazione centripeta - La superpiramidizzazione - Due esempi: la banca e i mass-media

Per avere un quadro globale del declino effettivo delle libertà nel secolo XIX, bisogna dire che nel suo decorso si manifestò, anche nella sfera dell'iniziativa privata, una tendenza alla piramidizzazione. Si tratta cioè dell'intrecciarsi di istituzioni o imprese congeneri per formare blocchi sempre più ampi, assorbendo qualsiasi unità autonoma che si mostrasse renitente a integrarsi nella piramide che le compete. Queste piramidi, com'è ovvio, avevano - o hanno ancora - al loro apice grandi fortune che controllavano nell'insieme piramidale le fortune gradualmente minori. In questo modo, i proprietari di piccole e medie imprese perdevano una buona parte della loro libertà di azione davanti alla concorrenza e alle pressioni del macrocapitalismo.
A sua volta, per la stessa natura delle cose, a questo insieme piramidale si sovrapponevano, al vertice, alcune istituzioni ancora più dotate di forza di comando. A titolo di esempio basti citare il sistema bancario e i mass- media.
Tale processo, a sua volta, s'incrementò accentuatamente nel nostro secolo grazie alle nuove invenzioni, al continuo progredire delle scienze e delle tecniche.
D'altra parte, questa concentrazione di capitali privati in mano di pochi proprietari di grandi fortune poteva portare ad un'altra conseguenza, distinta dalla diminuzione di libertà dei piccoli proprietari. Alludiamo alla posizione del macrocapitalismo davanti allo Stato.
Effettivamente, nel mondo borghese - in apparenza festosamente liberal-democratico, eppure sempre più democratico e livellatore sotto un certo punto di vista, e sempre meno liberale sotto un altro - venne a prodursi, in un certo modo, uno strano rovesciamento di valori. Per esempio, le banche e i mass-media sono normalmente proprietà di privati; appartengono quindi ad individui. Tuttavia, nel mondo odierno, non di rado queste grandi forze - diciamolo di passaggio - possiedono un potere nettamente maggiore di quello che aveva la nobiltà nel secolo XIX, o perfino prima della Rivoluzione. Va soprattutto notato che queste forze finiscono per avere spesso sullo Stato un potere maggiore di quello che questo ha su di loro.
Infatti, le banche e i mass-media hanno più mezzi per influenzare profondamente l'occupazione degli incarichi elettivi della maggior parte delle democrazie moderne, di quelli che lo Stato ha nella scelta dei vertici delle banche e dei mass-media privati.
Ciò è tanto noto che, a sua volta, in molteplici casi concreti, lo Stato si sentirebbe sguarnito se non svolgesse esso stesso la funzione della grande impresa bancaria o giornalistica, invadendo in questo modo la sfera privata... la quale a sua volta aveva invaso la sfera statale.
Convergenza? No; diremmo piuttosto processo verso il caos.
Tuttavia, per quanto riguarda la piena libertà di azione e lo sviluppo, questo confronto tra lo Stato e il macrocapitalismo non porta al comune cittadino nessun vantaggio economico o politico.
Basta considerare, ad esempio, il quadro che frequentemente ci si presenta davanti nei giorni delle elezioni. Una moltitudine di persone sfila davanti agli scrutatori che in ogni stanza della sezione elettorale presiedono e tutelano l'ordine. Tra questi passa, come un qualsiasi cittadino, confuso tra gli altri elettori, il magnate della "nobiltà antitetica" (19) del secolo XX e deposita il suo voto nell'urna, consapevole del fatto che questo varrà tanto quanto quello del più oscuro dei cittadini.
Qualche giorno dopo vengono pubblicati i risultati elettorali. E il magnate li commenta nel suo club, esattamente allo stesso modo di un cittadino qualsiasi, come se il suo contributo a questo risultato elettorale fosse stato quello di un qualsiasi votante. Ma possono forse nutrire nel loro intimo questa illusione quegli interlocutori che, mentre lo ascoltano, sanno che da lui dipende, ad esempio, una catena di organi pubblicitari che può notevolmente condizionare il voto delle masse amorfe e disorientate dei nostri giorni?

d) Il capitalismo di Stato: continuazione della linea centripeta ed autoritaria anteriore -tomba di quanto lo ha preceduto.

Detto questo, che cosa ha portato di nuovo il capitalismo di Stato ai paesi nei quali si è impiantato? Esso ha accentuato all'infinito la linea centripeta precedente e ha fatto dello Stato un "Leviatano", davanti alla cui onnipotenza i poteri del re e dei nobili dei tempi anteriori appaiono ora come piccoli, se non microscopici. Nella sua divoratrice forza di attrazione, il collettivismo di Stato, assorbendo completamente ogni cosa, ha seppellito ipso facto nello stesso abisso, nello stesso nulla, come in una tomba, re e nobili, come anche, non molto tempo dopo, le "aristocrazie antitetiche" (20) giunte all'apice del loro percorso storico.
Tutto per colpa, in ultima analisi, dell'influenza, in alcuni casi prossima, in altri remota, dell'ideologia del 1789. (21)

e) Una tomba - due trilogie

Ma sono state solo queste le vittime di tale cancrena collettivista?
No! Lo sono state anche, successivamente, i ceti inferiori della borghesia. Il potere di assorbimento del Leviatano collettivista non ha risparmiato un solo uomo né un solo diritto individuale. Perfino i diritti più elementari di qualsiasi uomo - diritti spettanti non in virtù di una qualche legge elaborata dallo Stato, ma in forza dell'ordine naturale delle cose, espresso con divina sapienza e semplicità nel Decalogo sono stati
immancabilmente negati dal collettivismo ad ogni popolo sul quale ha esercitato il suo potere, così come ad ogni infelice individuo di questo popolo. È quanto ha reso evidente a tutto il genere umano l'esperienza storica, portata alla luce dal sinistro panorama rivelato dal crollo della Cortina di Ferro. Lo Stato collettivista ha assorbito perfino il diritto alla vita, negando all'uomo quanto la moda ecologica contemporanea si sforza di garantire al più fragile passerotto, all'infimo e più ripugnante verme.
Così gli operai, i servitori più insignificanti dello Stato, sono stati i più recenti ospiti di questa tomba. Nella sua lapide mortuaria, un'iscrizione potrebbe segnalare la qualifica globale di queste vittime dell'altro ieri, di ieri e di oggi. Questa qualifica potrebbe riassumersi nei tre grandi princìpi negati dal collettivismo:
TRADIZIONE - FAMIGLIA - PROPRIETÀ,
la cui negazione ha provocato la coraggiosa e polemica contestazione da parte del maggior insieme di associazioni anticomuniste di ispirazione cattolica del mondo moderno.
E come, secondo certe leggende popolari, le tombe delle vittime di ingiustizie molto flagranti sono sorvolate da confusi e tormentati vortici di spiriti maligni, si potrebbe immaginare un'altro trinomio sovrastante questa agitata, febbricitante e rumorosa ronda,
MASSIFICAZIONE - SCHIAVITÙ - FAME

f) Ciò che resta oggi della nobiltà - La risposta di Pio XII

Una volta estinte le autonomie sotto il peso del totalitarismo rivoluzionario; e parallelamente aboliti anche, a causa del crescente egualitarismo dell'età contemporanea, gli incarichi speciali e i relativi privilegi che facevano della nobiltà - nel Medioevo come nell'Ancien Régime - un ben definito corpo sociale e politico, dobbiamo chiederci che cosa resta oggi di questa classe.
A tale domanda, Pio XII risponde categoricamente: "Una pagina della storia è stata voltata; un capitolo è stato chiuso; è stato messo il punto, che indica il termine di un passato sociale ed economico". (22)
Tuttavia, il pontefice auspica che questa classe, a cui non resta nulla di tangibile, eserciti un'alta funzione per il bene comune. Questa funzione egli la descrive con precisione ed evidente compiacimento nelle sue varie allocuzioni, comprese quella del 1952 e quella successiva del 1958, poco prima della sua morte. E il pensiero del defunto pontefice sopravvive chiaramente nelle allocuzioni di Giovanni XXIII e Paolo VI rivolte sia al Patriziato e alla Nobiltà romana, che alla Guardia Nobile Pontificia.
Per comprendere interamente questa delicata, sottile e importante materia, occorre innanzitutto considerare il quadro storico qui esposto, analizzando il corso degli avvenimenti da una peculiare angolazione.  

7. Il profilo morale del nobile medioevale

In tutto il corpo sociale costituito dai professionisti di un stesso ramo specifico è facile notare quanto l'attività professionale influenzi la mentalità, la formazione morale e intellettuale di quelli che la esercitano e di conseguenza anche le relazioni domestiche e sociali estranee all'ambito professionale.
Nel Medioevo e nell'Ancien Régime lo status nobiliare non poteva essere strettamente paragonato a una professione. Era, sotto un certo punto di vista, un modo di guadagnarsi la vita e, sotto un altro, qualcosa di molto più elevato. Di conseguenza, esso segnava profondamente il nobile, nonché tutta la sua famiglia, mediante la quale la condizione nobiliare doveva trasmettersi, nel corso dei secoli, alle generazioni successive. Il titolo di nobiltà si incorporava al nome di famiglia e talvolta lo sostituiva. Lo stemma raffigurava l'emblema di famiglia e il più delle volte la terra sulla quale il nobile esercitava il potere, portava il
suo stesso nome, quando non accadeva il contrario, ed egli incorporava nel suo titolo il nome della contrada. (23)

a) Nella guerra come nella pace, un esempio di perfezione

Due principi fondamentali definivano la fisionomia del nobile:

1. Essendo un uomo da prendere a modello, posto al vertice del feudo come la fiamma sulla lampada, doveva per definizione dimostrare di essere un eroe cristiano disposto ad ogni olocausto in favore del bene del suo Re e del suo popolo e un braccio temporale armato in difesa della Fede e della Cristianità, nella frequente guerra contro i pagani e gli eretici.
2. Ma, pari passu, egli, come tutta la sua famiglia, doveva dare in tutto il resto il buon esempio, o meglio un ottimo esempio, ai suoi sudditi e ai suoi pari. Nella virtù come nella cultura, nell'esimio tratto sociale, nella finezza dei gusti, nella decorazione della casa e nelle feste, il suo esempio doveva trascinare tutto il corpo sociale affinché analogamente ognuno migliorasse in tutto.

b) Il cavaliere cristiano - la dama cristiana

Come vedremo più avanti, questi due princìpi, avevano una mirabile portata pratica. Durante il Medioevo, essi furono applicati con autenticità di convinzioni e di sentimenti religiosi. Così prese forma nella cultura europea, e poi in quella di tutto l'occidente, la fisionomia spirituale del cavaliere cristiano e della dama cristiana. Cavaliere e dama, due concetti che nel corso dei secoli, e nonostante i successivi annacquamenti di contenuto provocati dalla progressiva laicizzazione dell'Ancien Régime, hanno sempre designato l'eccellenza del tipo umano. Ciò vale anche nei giorni nostri, in cui entrambi i qualificativi sono diventati deprecabilmente obsoleti.
Avendo la nobiltà perso, non soltanto in Italia (che Pio XII teneva particolarmente presente) ma in tanti altri paesi, tutto quanto abbiamo descritto, le è rimasta principalmente il suo eletto tipo umano. Tale tipo, supremo e ultimo tesoro, non può essere conosciuto in profondità senza tenere presente come andò formandosi nel corso del processo generatore del feudalesimo e della gerarchia feudale.

c) Olocausto, buone maniere, etichetta e protocollo - Semplificazioni e mutilazioni imposte dal mondo borghese

Olocausto. La parola merita di essere sottolineata, poiché l'olocausto aveva, nella vita del nobile, un'importanza centrale. In un certo senso, esso si faceva sentire perfino nella vita sociale, sotto forma di un'ascesi che la segnava profondamente. Infatti, le buone maniere, l'etichetta e il protocollo prendevano forma secondo modelli che esigevano da parte del nobile una continua repressione di ciò che v'è di volgare, di grossolano e perfino di prepotente in così tanti impulsi umani. La vita sociale era, sotto certi aspetti, un sacrificio continuo che andava diventando sempre più esigente man mano che la civiltà progrediva e si raffinava.
Quest'affermazione potrà suscitare un sorriso di scetticismo in non pochi lettori. Perché costoro possano ben valutare quanto c'è in essa di reale, basterà che considerino le mitigazioni, le semplificazioni e le mutilazioni che il mondo borghese, nato dalla Rivoluzione francese, ha gradualmente imposto alle etichette e ai cerimoniali sopravvissuti nei nostri giorni. Invariabilmente tutte queste alterazioni sono state fatte per offrire spensieratezza, comodità, conforto borghese ai magnati dell'arrivismo, decisi a conservare per quanto possibile, nel seno della loro recente opulenza, la volgarità delle loro anteriori condizioni di vita. Così, l'erosione di ogni buon gusto, di ogni etichetta e bella maniera obbediva al desiderio di laissez-faire, di rilassamento, e a favorire il dominio del capriccio inopinato e stravagante dell'hippismo, che giunse al suo apice nella folle ribellione della Sorbona, nel 1968, e nei movimenti giovanili tipo punk, dark, etc., che ne sono seguiti.

a) Varietà armonica nella pratica delle virtù evangeliche: nell'annientamento di se stesso nello stato religioso - in mezzo alle grandezze e agli splendori della società temporale

Bisogna qui menzionare un profilo morale che spicca in modo accentuato in numerosi nobili.
Molti santi, nati nobili, rinunciarono interamente alla loro condizione sociale per praticare la perfezione della virtù nell'annientamento terreno dello stato religioso. E che splendidi esempi hanno dato così alla Cristianità e al mondo!
Ma altri santi, anch'essi nati nobili, rimasero fra le grandezze terrene, mettendo così in rilievo agli occhi delle altre categorie sociali, col prestigio inerente alla loro condizione socio-politica, tutto quanto c'è di ammirevole nelle virtù cristiane, e dando un buon esempio morale a tutta la collettività al vertice della quale si trovavano. Questo, con grande vantaggio non solo per la salvezza delle anime, ma anche per la stessa società temporale. In questo senso, niente è più efficace per lo Stato e la società che l'avere nei loro gradini superiori persone aureolate con l'alta e sublime rispettabilità che s'irradia dalla personalità dei santi della Chiesa cattolica.
Inoltre, questi santi - così degni di rispetto e ammirazione per la loro condizione gerarchica - diventavano particolarmente amabili agli occhi delle moltitudini per la pratica costante ed esemplare della carità cristiana.
Effettivamente sono innumerevoli i nobili beatificati o canonizzati che - senza rinunciare a quegli onori terreni cui avevano diritto per la loro origine nobiliare - eccelsero per il loro particolare amore agli sventurati: ossia per la loro spiccata opzione preferenziale per i poveri.
In questo stesso servizio sollecito ai poveri, brillarono frequentemente i nobili che preferirono gli ammirevoli sacrifici della vita religiosa per farsi poveri con i poveri, in modo da alleggerire loro le croci della vita terrena preparandoli per il Cielo.
Allungheremmo troppo questo studio se facessimo qui menzione dei così numerosi nobili, di entrambi i sessi, sia fra coloro che praticarono le virtù evangeliche in mezzo alle grandezze e gli splendori della società temporale, che fra coloro che le praticarono nella rinuncia alla vita secolare, per amore di Dio e del prossimo. (24)

e) Come non governare - come governare

Governare non significa solo, né principalmente, promulgare leggi e punire coloro che le trasgrediscono, costringendo la popolazione ad obbedire mediante una burocrazia tanto più efficace quanto più onnicomprensiva, ed una forza poliziesca tanto più coercitiva quanto più invadente e intimidatoria. In questo modo si può governare, nella migliore delle ipotesi, una prigione, ma non un popolo.
Come abbiamo osservato all'inizio di questo capitolo, per governare gli uomini è necessario innanzitutto conquistarne l'ammirazione, la fiducia e l'affetto. A questo risultato non si giunge senza una profonda consonanza di princìpi, di aspirazioni, di ripulse, senza un sistema di cultura e di tradizioni comuni a governati e governanti.
Quest'obiettivo, i signori feudali l'ottennero in genere nei rispettivi feudi, stimolando continuamente le popolazioni verso la perfezione in tutti i campi.
Perfino per avere il consenso popolare alle guerre provocate dalle condizioni dell'epoca, la nobiltà usò mezzi di persuasione, dando ad esempio ogni priorità ad un totale appoggio alle prediche della gerarchia ecclesiastica sulle circostanze morali che potevano far diventare legittima una guerra intrapresa sia per motivi religiosi che temporali.

f) Il bonum e il pulchrum della guerra giusta - i cavalieri li sentivano fin nel fondo dell'anima

Il bonum della guerra giusta, la nobiltà lo faceva risplendere, insieme al pulchrum, nella forza espressiva del cerimoniale bellico, nel brillare degli armamenti, nell'addobbamento dei cavalli, etc.
La guerra, per il nobile, era un olocausto per la esaltazione della Chiesa, per la libera diffusione della Fede, per il legittimo bene comune temporale. Era un olocausto al quale egli era ordinato, analogamente al modo in cui chierici e religiosi erano ordinati agli olocausto morali inerenti ai rispettivi stati.
Il bonum e il pulchrum di questo olocausto, i cavalieri - che del resto non sempre erano nobili - lo percepivano fin nel fondo dell'anima, e in questo stato d'animo partivano per la guerra. La bellezza di cui circondavano la loro attività militare era ben lungi dal rappresentare, per loro, un semplice mezzo di sedurre e persuadere alla guerra gli uomini validi della plebe. Nonostante ciò, produceva concretamente quest'effetto sulle popolazioni. (Notiamo di passaggio che per il popolo non esisteva una leva obbligatoria, con l'ampiezza e durata indefinita delle mobilitazioni dei nostri giorni).
Beninteso, molto più delle brillanti apparenze, influiva sulla popolazione, in quei tempi di Fede ardente, l'insegnamento della Chiesa. Essa non lasciava dubbi sul fatto che, oltre ad essere semplicemente lecita, la guerra santa poteva costituire un dovere per tutto il popolo cristiano, compresi sia i nobili che i plebei. (25)  

8. La nobiltà nei nostri giorni - Grandezza della sua missione contemporanea

a) Fondamento essenziale di ogni nobiltà, qualunque sia la sua nazionalità

Posto tutto ciò, qual'è l'essenza del tipo umano caratteristico della nobiltà? Per rispondere a questa domanda, l'erudizione storica va accumulando dati, sia sull'origine di questa classe, sia sulla funzione politica, sociale ed economica che le è successivamente toccata, sotto varie forme e in diverse misure, nel corso dei secoli; sia anche sulla specifica influenza avuta su moralità, usi e costumi della società; sia finalmente sulla sua azione nell'esercizio del mecenato in favore delle arti e della cultura.
Che cos'è un nobile?
È colui che fa parte della nobiltà. Ma questa partecipazione implica che il nobile corrisponda a un determinato tipo psicologico e morale che, a sua volta, modella l'uomo intero. In questo modo, per quanto siano state considerevoli le trasformazioni subite da questa classe durante i secoli, o le varietà che presenta nei diversi Paesi in cui esiste, la nobiltà finisce per essere sempre una. Così, per quanto un magnate ungherese sia differente da un grande di Spagna, o un duca e pari di Francia possieda caratteristiche diverse da un duca del Regno Unito, dell'Italia, della Germania o del Portogallo, agli occhi del pubblico un nobile è sempre un nobile. Più specificamente, un conte è sempre un conte, un barone è sempre un barone, un hidalgo o gentiluomo è sempre un hidalgo o gentiluomo.
Le vicende storiche attraversate dalla nobiltà hanno modificato, in modo per così dire incommensurabile, la situazione di questa classe; in modo che oggi, se non pochi dei suoi membri sono rimasti al vertice delle ricchezze e del prestigio, altri si trovano nell'abisso della povertà, obbligati a duri ed umili lavori per mantenere la propria esistenza. Vengono anche visti con sarcasmo e disprezzo da molti nostri contemporanei imbevuti di spirito ugualitario e borghese diffuso dalla Rivoluzione francese; quando non vengono spogliati dei loro beni, calpestati e ridotti ad una condizione proletaria dai regimi comunisti, alla cui dominazione dispotica non riuscirono a sottrarsi per tempo.

b) Nobiltà: modello di eccellenza - impulso per tutte le forme di elevazione e di perfezione (26)

Privata di qualsiasi potere politico nelle repubbliche contemporanee, e conservando nelle monarchie appena i resti di questo potere; scarsamente rappresentata nel mondo della finanza, quando lo è; svolgendo nella diplomazia, come pure nel mondo della cultura e del mecenatismo, un ruolo di evidenza quasi sempre inferiore a quello della borghesia, la nobiltà di oggi non è che un residuo. Residuo prezioso che rappresenta la tradizione e che consiste essenzialmente in un tipo umano.
Questo tipo umano, come definirlo?
Il corso degli eventi ha fatto sì che, durante secoli, e ancora nella nostra società intossicata di egualitarismo, di volgarità, di bassa corruzione morale, la nobiltà abbia costituito un modello di eccellenza per edificare tutti gli uomini e, in un certo senso, per dare un meritato rilievo a tutte le cose esimie, che ne sono degne. Infatti, quanto più si dice di un oggetto che è nobile, aristocratico, tanto più si sottolinea che è eccellente nel suo genere.
Ancora nelle prime decadi del nostro secolo, la tendenza dominante della società temporale, almeno nelle sue linee generali, consisteva in un impulso al continuo perfezionamento, nei più svariati campi e dai più diversi punti di vista. Questa affermazione, meriterebbe di essere ulteriormente precisata, trattandosi di religiosità e di moralità, sia pubblica che privata.
Oggi, al contrario, è impossibile nascondere che una tendenza generale verso la volgarità, la stravaganza delirante, e non di rado il brutale e sfacciato trionfo dell'orrido e dell'osceno, sta guadagnando terreno. In questo senso la rivoluzione della Sorbona, nel 1968, ha costituito un'esplosione di portata universale, che ha accelerato i malsani germi da molto tempo sotto incubazione nel mondo contemporaneo. Si può dire che l'insieme di questi fenomeni presenti un sintomo accentuatissimo di proletarizzazione, assumendo questo termine nel suo senso peggiore.
Eppure, non per questo è morto il vecchio impulso verso tutte le forme di elevazione e di perfezione, nato nel medioevo e, sotto certi aspetti, sviluppato nei secoli successivi. Al contrario, questo impulso prende in certa misura la velocità di espansione dell'impulso opposto. In vari ambienti, esso raggiunge perfino una certa quale preponderanza.
In passato, fu missione della nobiltà, in quanto classe sociale, coltivare, alimentare e diffondere quest'impulso di tutte le classi verso l'alto. Il nobile era per eccellenza votato a questa missione nella sfera temporale, così come il clero lo è nell'ordine spirituale.
Simbolo di quest'impulso, personificazione di esso, in un certo qual modo libro vivente in cui l'intera società poteva "leggere" tutto quanto i nostri antenati, desiderosi di elevazione in tutti i sensi, anelavano e andavano realizzando: questo era il nobile.
Sì, era questo; e di tutto quanto è stato in passato, la cosa migliore che conserva è questo prezioso impulso. In numero crescente, uomini del nostro tempo si rivolgono a lui, per scrutare con muta ansietà se la nobiltà saprà conservare quest'impulso e perfino ampliarlo coraggiosamente, contribuendo così a salvare il mondo dal caos e dalle catastrofi in cui va sprofondando.
Se il nobile del secolo XX si mantenesse consapevole di questa missione, e se, animato dalla Fede e dall'amore per la vera tradizione, facesse di tutto per esserne all'altezza, otterrebbe una vittoria di grandezza non minore di quella conseguita dai suoi antenati quando contennero i barbari, respinsero l'Islam oltre il Mediterraneo, e sotto il comando di Goffredo di Buglione abbatterono le mura di Gerusalemme.

c) Il punto massimo d'insistenza di Pio XII

Come abbiamo visto, di tutto quanto fu o ebbe un tempo, alla nobiltà è rimasta "soltanto" questa eccellenza pluriforme, con un residuo insieme di condizioni indispensabili perché essa, nella maggior parte dei casi, non decada in una situazione specificamente proletaria o proletarizzante.
"Soltanto", abbiamo detto. E veramente, quant'è poco, rispetto a quello che erano o avevano i nobili! Ma quant'è migliore della volgarità grossolana e tracotante di tanti altri nostri contemporanei!
Infatti, nelle volgari e danarose corruzioni non rare nel jet-set; nelle stravaganze di alcuni miliardari che ancora esistono; negli egoismi, nella sfrenata mania per le comodità e per la sicurezza sanciopanzesca di certi medio - o perfino piccolo - borghesi; quante manchevolezza e lacune, in paragone a quello che ancora resta di eccellenza alle vere aristocrazie.
Qui troviamo il massimo punto d'insistenza delle allocuzioni di Pio XII al Patriziato ed alla Nobiltà romana. Il Pontefice mostra agli eminenti membri di questa categoria, e tramite loro al mondo intero, che questa eccelsa caratteristica della nobiltà conferisce loro un posto inconfondibile tra le classi dirigenti che vanno emergendo dalle nuove condizioni di vita. Posto di inconfondibile portata religiosa, morale e anche culturale, che la costituisce preziosa barriera alla torrenziale decadenza del mondo contemporaneo.

d) La nobiltà: fermento, non mera polvere del passato - missione sacerdotale della nobiltà per l'elevazione, purificazione e pacificazione del mondo

Già Benedetto XV (1914-1922), poco dopo la fine della prima guerra mondiale, nell'allocuzione del 5 gennaio 1920, rivolse al Patriziato ed alla Nobiltà romana parole di ardente elogio per la condotta di eroismo e di abnegazione tenuta nei giorni drammatici del conflitto, facendo vedere tutta l'importanza della missione che apriva loro il successivo periodo di pace.
In quell'occasione, il Pontefice disse: "(…) simile al Sacerdozio della Chiesa, ravvisammo un altro Sacerdozio: quello della Nobiltà."
In queste parole, il Pontefice non si riferiva soltanto al buon esempio concretamente dato dal Patriziato e dalla Nobiltà romana durante la guerra. Egli si elevava un piano più alto di quello di una encomiastica narrazione storica, per affermare che, nell'essenza della missione della nobiltà esiste qualcosa di sacerdotale. Soprattutto sulle labbra di un Papa, quest'elogio della nobiltà come tale non potrebbe essere maggiore.
È ben chiaro che il Pontefice non ha intenzione di equiparare la condizione del nobile a quella del sacerdote, né di affermare l'identità tra l'una e l'altra missione, ma soltanto una vigorosa somiglianza. Sviluppa questo principio con citazioni di san Paolo, come più avanti si vedrà.
Ma per dare tutto il rilievo all'autenticità dei doveri del nobile nel campo della Fede e della moralità, il suo insegnamento si riveste di impressionante forza d'espressione:
"Accanto al 'regale Sacerdotium' di Cristo, voi pure, o nobili, adergeste 'gens electum' della società; e l'opera vostra fu quella che sopra ogni altra rassomigliò ed emulò l'opera del Clero. Mentre il sacerdote assisteva, sosteneva, confortava col la parola, col esempio, col coraggio, col le promesse di Cristo, la Nobiltà compiva, anche'essa, il suo dovere nei campi di battaglia, nelle ambulanze, nelle città, nelle campagne; e pugnando, assistendo, prodigando e morendo, teneva fede, tra i vecchi e tra i giovani, tra gli uomini e tra le donne, alle tradizioni delle avite glorie, ed agli obblighi che nobiltà vuole imporre.
"Se, pertanto a Noi riesce gradito l'elogio fatto ai sacerdoti della nostra Chiesa per l'opera compiuta durante il periodo della guerra, è cosa giusta che da Noi si renda la dovuta lode anche al sacerdozio della nobiltà. L'uno e l'altro sacerdozio apparì ministro del Papa, perché in ora tristissima ne ha interpretato bene i sentimenti..."
Benedetto XV passa quindi a parlare dei doveri della nobiltà nel periodo di pace che allora si apriva:
"E non dovremo Noi dire che il sacerdozio della nobiltà, come quello che proseguirà la sua benemerenza anche in tempo di pace, sarà perciò da Noi riguardato con particolare benevolenza! Ah! dall'ardore dello zelo dispiegato in giorni nefasti piace a Noi argomentare la costanza dei propositi col la quale i Patrizi ed i Nobili di Roma continueranno a compiere, in ore più liete, le sante imprese onde si alimenta il sacerdozio della nobiltà!
"L'apostolo San Paolo ammoniva i nobili dei suoi tempi, affinché fossero, o diventassero, quali la loro condizione li richiedeva; imperocché, non pago di aver detto anche per essi che avrebbero dovuto mostrarsi modelli di benfare, nella dottrina, nella purità dei costumi, nella gravità e, 'in omnibus te ipsum oraebe exemplum bonorum operum in doctrina, in integritate, in gravitate'(Tim. 2, 7). San Paolo considerava più direttamente i nobili quando scriveva al suo discepolo Timoteo di ammonire i ricchi 'divitibus huius saeculi praecipe', che facciano il bene e diventino ricchi di buone opere 'bene agere, divites fieri in bonis operibus' (la. Tim. 6, 1 7).
"A ragione si può dire che questi ammonimenti dell'Apostolo convengono in mirabile guisa anche ai nobili dell'età nostra. Anche voi, o dilettissimi figli, quanto più elevata è la vostra condizione sociale tanto maggiore è l'obbligo di andare innanzi agli altri colla luce del buon esempio 'in omnibus te ipsum praebe exemplum bonorum operum'."
Ma, dirà qualche lettore, questi doveri toccano alla nobiltà anche nei nostri giorni così mutati? Non sarà più oggettivo dire che questi doveri, oggi, incombono ai nobili non più che ai comuni cittadini? L'insegnamento di Benedetto XV risponde appunto a questa obiezione. Infatti egli prosegue:
"In ogni tempo strinse i nobili il dovere di agevolare l'insegnamento della verità 'in doctrina'; ma oggi, quando la confusione delle idee, compagna alla rivoluzione dei popoli, ha fatto smarrire, in tanti luoghi e in tanti persone, le vere nozioni del diritto, della giustizia e della carità, della religione e della patria, oggi è cresciuto anche più l'obbligo dei nobili, di adoperarsi a far tornare nel patrimonio intellettuale dei popoli quelle sante nozioni, che li devono dirigere nella quotidiana attività. In ogni tempo strinse i nobili il dovere di non ammettere nulla di indecente nelle parole e negli atti, affinché la loro licenza non fosse eccitamento al vizio nei subalterni, 'in integritate, in gravitate': ma anche questo dovere oh! quanto è diventato più forte e più grave per il malvezzo dell'età nostra! Non solo i cavalieri, ma anche le dame sono obbligate a stringersi in santa lega contro le esagerazioni e le sconcezze della moda, allontanando da se, e non tollerando negli altri, ciò che non è consentito dalle leggi della cristiana modestia.
"E per venire all'applicazione di ciò che abbiamo detto aver S. Paolo raccomandato più direttamente ai nobili del suo tempo, (... ) a Noi basta che i Patrizi ed i Nobili di Roma continuino, in tempo di pace, ad informarsi a quello spirito di carità di cui hanno fatto bella prova in tempo di guerra. (...)
"La vostra nobiltà, allora, non sarà ritenuta come sopravvivenza inutile di tempi tramontati, ma come lievito serbato per la risurrezione della corrotta società: sarà faro di luce, sale di preservazione, guida degli erranti; sarà non solo immortale in questa terra, dove tutto, anche la gloria delle più illustri dinastie appassisce e tramonta, ma sarà immortale nel cielo, dove tutto vive e si deifica coll'Autore di ogni cosa bella e nobile."
Alla fine dell'allocuzione, nel concedere la benedizione apostolica, il Pontefice manifesta il desiderio "affinché ciascuno cooperi col sacerdozio proprio della sua classe alla elevazione, alla purificazione del mondo e, facendo del bene agli altri, assicuri anche per sé l'accesso al regno dell'eterna vita 'ut aprehendant veram vitam!'". (27)

a) Ammiratori della nobiltà nel tempo corrente

Di fatto, conviene ripeterlo, per quanto disprezzato e odiato, il nobile che sappia mantenersi degno dei suoi antenati è pur sempre un nobile, oggetto speciale di attenzione - e non di rado di attenzioni - da parte di coloro che hanno rapporti con lui.
Effettivamente, un esempio di questa attenzione destata dalla nobiltà è il fatto che ancora nei nostri tempi - e oggi più che nei decenni passati - vi sono, in tutte le società, ammiratori della nobiltà che le consacrano un elevato rispetto e un emozionato interesse che potrebbe quasi definirsi romantico. Sarebbe interminabile la menzione di fatti sintomatici della presenza sempre più marcata, ai nostri giorni, di questo compatto filone di coloro che consacrano alla nobiltà una tale ammirazione.
Due fatti parlano da sé. Uno - già riferito - è l'entusiasmo gioioso e ammirato col quale folle, che sarebbe impossibile calcolare con precisione, hanno seguito nel mondo intero, alla televisione, la cerimonia del matrimonio del Principe di Galles con la Principessa Diana. Un altro è la costante crescita della diffusione della rivista parigina "Point de Vue - Images du monde", che dedica speciale attenzione a quanto accade negli ambienti aristocratici dei popoli di tutto il mondo, siano essi monarchici o repubblicani. La tiratura di questa rivista, che nel 1956 era di circa 180.000 copie, è giunta nel 1991 a 515.000. Questa rivista trova lettori perfino tra gli abitanti di piccole cittadine dell'interno del Portogallo, come pure nei quartieri popolari di varie megalopoli moderne. (28)

f) Nobiltà; tesi e antitesi

Quanto alle élites arricchite che, invece di cercare di coltivare qualità confacenti alla loro condizione economica, si vantano di restare nella volgarità delle loro abitudini e dei loro modi di vita, ci sembra bene formulare alcune considerazioni.
È inerente alla proprietà privata la tendenza a fissarsi nella discendenza dei proprietari. L'istituzione famigliare preme con tutte le sue forze in questa direzione.
Si sono quindi formati, certe volte, lignaggi o perfino "dinastie" commerciali, industriali o pubblicitarie; ciascuno di questi gruppi famigliari può esercitare sul corso degli avvenimenti politici un potere incomparabilmente maggiore di quello di un semplice elettore... per quanto tutti i cittadini siano uguali davanti alla legge.

Costituiscono forse queste dinastie una nuova nobiltà?

Dal punto di vista meramente tecnico, talvolta si potrebbe dire di sì. Ma questo punto di vista non è l'unico e nemmeno necessariamente il principale. Questa nuova "nobiltà", considerata non in tesi ma in concreto, di solito non è né può essere una nobiltà, innanzitutto perché gran parte dei suoi membri non vuole esserlo. Infatti, i preconcetti ugualitari, che molte di queste dinastie coltivano e ostentano fin dalle loro origini, li portano a differenziarsi sempre più dall'antica nobiltà, a diventare insensibili al suo prestigio, e non di rado a farlo deprezzare agli occhi delle folle. Questo avviene non perché vengano liquidate con la forza le caratteristiche che differenziano l'antica nobiltà dalla massa, ma perché questa nuova "nobiltà" ostenta una caratteristica che le serve da strumento per coltivare una demagogica popolarità: la volgarità.
Se la nobiltà storica era e voleva essere una élite, quest'odierna antitesi della nobiltà si qualifica appunto, e con una certa frequenza, nel non differenziarsi dalla massa e nel camuffarsi con i modi di essere e le abitudini di questa per sfuggire alla vendetta dello spirito ugualitario e demagogico, generalmente favoreggiato fino all'esasperazione... dagli stessi mass-media, i cui dirigenti e responsabili paradossalmente appartengono, non di rado, alla stessa "nobiltà" antitetica.
In altri termini, in forza del naturale ordine delle cose, è proprio della nobiltà il formare un tutto organico col popolo, come la testa col corpo. E caratteristica della nobiltà antitetica una tendenza ad evitare, per quanto possibile, questa distinzione vitale, sforzandosi al contrario - almeno in apparenza - di integrarsi in quel grande insieme amorfo e inerte che è la massa. (29)
Sarebbe esagerato dire che tutti i plutocrati contemporanei sono così, ma è innegabile che lo sono un gran numero di essi: spesso lo sono i più ricchi fra loro, particolarmente notevoli d'altronde, come un osservatore attento non potrà negare, per dinamismo, potere e per l'archetipicità delle loro caratteristiche.  

9. Il fiorire delle élites analoghe: forme contemporanee di nobiltà?

Parlando della società borghese, della vita borghese e della loro peculiarità, non pretendiamo riferirci a quelle famiglie della borghesia che hanno visto costituirse nella loro atmosfera interiore, col succedersi delle generazioni, una genuina tradizione famigliare ricca di valori morali, culturali e sociali.
La fedeltà alla tradizione del passato e l'impegno al continuo perfezionamento rendono queste famiglie vere élites, al contrario della nobiltà antitetica.
In una organizzazione sociale aperta a tutto quello che l'arricchisce di veri valori, tali famiglie, trasformandosi a poco a poco in una classe aristocratizzata, finiscono col fondersi gradualmente e soavemente all'aristocrazia, oppure vengono a costituire - pari passu e in forza dei costumi, a fianco dell'aristocrazia propriamente detta e già esistente - una nuova aristocrazia con peculiarità specifiche. Spetta a chi sta al vertice del potere politico, e allo stesso tempo dell'influenza sociale - come è il caso dei monarchi - guidare in modo accogliente, misurato e pieno di tatto, tali perfezionamenti, altamente rispettabili, della struttura politico-sociale; ascoltando
aspirazioni che animano il corso delle sane trasformazioni sociali e definendo le ansie della società organica, piuttosto che tratteggiando il cammino geometricamente, a colpi di decreti.
In questa prospettiva, l'esistenza di élites aristocratiche, anziché escludere gelosamente, meschinamente, la fioritura piena di altre élites, al contrario serve loro di modello per feconde analogie e fraterni perfezionamenti.
Il senso peggiorativo della parola "borghesia" è ben meritato da settori di quella categoria sociale che, noncuranti di formare tradizioni famigliari proprie nonché di prolungarle e perfezionarle lungo le generazioni, si impegnano solo a galoppare verso la più scapestrata modernità. Difatti, anche quando contano nel loro passato alcune generazioni di opulenza o di semplice benessere, nondimeno costituiscono una certa quale categoria di arrivisti... in stato di permanente mutazione causato dalla determinazione autofagica di non accumulare abitudini nel corso delle generazioni!

a) Un argomento che i Pontefici non hanno trattaro: vi sarebbero forme 'aggiornate' di nobiltà?

Le precedenti considerazioni conducono ad un aspetto della presente problematica che Pio XII, i suoi predecessori e successori non hanno trattato, forse per ragioni prudenziali.
Come abbiamo esposto lungo i capitoli di quest'opera, Pio XII attribuì alla nobiltà dei nostri giorni un ruolo importante. A questo scopo, il Pontefice vuole conservarla come una delle classi dirigenti del mondo attuale. Pertanto, le apre gli occhi su quello che le resta, e per l'uso che ad essa tocca fare di questo residuo mezzo di sopravvivenza e di azione, affinché essa non solo difenda con successo la sua attuale posizione, ma possa anche magari recuperare per sé un posto al sole più ampio, ai vertici dell'organismo sociale odierno.
Ma la funzione che così è riconosciuta alla nobiltà è di una tale importanza, che ad essa non basta normalmente disporre dell'esiguo, e d'altronde così contestato, residuo di ciò che deteneva. Bisognerebbe escogitare i mezzi per ampliare gradualmente la sua base di azione. In che modo farlo? Fino a che punto questo desiderabile sarebbe fattibile nelle condizioni odierne?
Perché non pensare, per esempio, a una società che fornisca largamente alla nobiltà sotto forme però eventualmente "aggiornate" e che non consistano solo nella proprietà immobiliare urbana o soprattutto rurale - una base per la sua sopravvivenza e per la sua azione benefica? Per esempio, perché non riconoscere ufficialmente la nobiltà, incarnando un fattore così prezioso qual'è la tradizione, fra i consiglieri più ascoltati e rispettati da coloro che hanno in mano le leve del potere del mondo di oggi?
Non si può escludere l'ipotesi che Papa Pio XII abbia pensato approfonditamente a questo, sebbene, per motivi di prudenza, non sia giunto a manifestare le conclusioni alle quali forse giungeva il suo pensiero.
Sarebbe logico che Pio XII, che aveva analizzato con attenzione così sollecita i problemi contemporanei della nobiltà, avesse ponderato quanto detto.

b) Nobiltà autentiche, per quanto di minor splendore - Esempi storici

Col tempo, specialmente a partire dalla fine del medioevo, a fianco della nobiltà per eccellenza, guerriera, signorile e rurale, vennero a costituirsi nobiltà, anch'esse autentiche, ma di minore splendore. Non ne mancano esempi nei vari Paesi europei.
In Portogallo, la condizione di intellettuale apriva le porte per entrare nella nobiltà. Erano nobili a titolo personale e vitalizio, per quanto non ereditario, tutti coloro che si laureavano in teologia, filosofia, diritto, medicina o matematica nella famosa Università di Coimbra. Ma se, di padre in figlio, tre generazioni di una stessa famiglia si laureavano a Coimbra in queste materie, diventavano nobili per via ereditaria tutti i loro discendenti, anche se questi non seguivano i corsi nella citata Università. (30)
In Spagna, l'investitura a determinate cariche civili, militari o di cultura, o persino semplicemente l'esercizio di certe forme di commercio e d'industria utili in particolar modo alla nazione, conferiva ipso facto la nobiltà, a titolo personale e vitalizio, o anche a titolo ereditario. (31)
In Francia, oltre alla nobiltà togata, noblesse de robe, che veniva reclutata nella magistratura, sarebbe da rilevare la piccola nobiltà di campanile, o più correttamente noblesse de cloche, cioè di campana. Questa denominazione si riferisce alla campana del campanile, utilizzata dal municipio per convocare il popolo. La noblesse de cloche era abitualmente costituita da famiglie di borghesi che si erano distinte nel servizio del bene comune delle collettività urbane di minor dimensione. (32)

c) Neo-ricchi, neo-nobili

Queste nobilitazioni non accadevano senza suscitare problemi degni di attenzione che si mostrano con speciale chiarezza in certe situazioni.
Per esempio, il Re di Spagna Carlo III (1759-1788), nel considerare la nascita industriale che cominciava a prodursi in varie altre nazioni del continente europeo, e il nocivo scompenso nel quale, in questo campo, si trovava la Spagna, decise, con una Cedola reale del 18 marzo 1783, di stimolare fortemente la comparsa dell'industria nel suo regno. A questo scopo egli adottò, tra le altre misure, quella di elevare in certo modo automaticamente alla condizione nobiliare quei sudditi che, a vantaggio del bene comune, investissero con successo capitali e sforzi per fondare industrie nuove o sviluppare quelle esistenti. (33)
La decisione del monarca attrasse alle attività industriali numerosi candidati alla nobiltà. Ora, come abbiamo visto, l'autenticità della condizione nobiliare non consiste soltanto nell'uso di un titolo conferito per regio decreto, ma anche e specialmente nel possesso di quello che si può chiamare il profilo morale caratteristico della classe aristocratica. Tuttavia, è comprensibile che certi neo-ricchi promossi dalla Cedola reale a neo- nobili avessero una speciale difficoltà nell'acquisire questo profilo morale, giacché, come si sa, tale profilo si acquista soltanto mediante una lunga tradizione famigliare, che manca solitamente sia al neo-ricco che al neo- nobile, e della quale si possono tuttavia trovare importanti tratti nelle élites borghesi tradizionali meno ricche.
L'iniezione di questo sangue nuovo nella nobiltà tradizionale potrebbe in certi casi procurarle una crescita di vitalità e creatività. Tuttavia, potrebbe comportare il rischio di procurarle anche tratti di volgarità e di un certo arrivismo sdegnoso di vecchie tradizioni, con evidente pregiudizio per l'integrità e coerenza del profilo nobiliare. E così potrebbe restare pregiudicata la stessa autenticità della nobiltà.
Un fatto analogo, derivante da situazioni anch'esse analoghe, accadde in più di un Paese europeo, ma in generale rimase circoscritto nei suoi effetti per diversi fattori.
Innanzitutto, nell'ambiente generale della società europea dell'epoca, l'influenza aristocratica era ancora profonda e il neo-nobile/neo-ricco si sentiva a disagio nella condizione sociale in cui era entrato, se non s'impegnava ad assimilare almeno in buona parte il profilo e le maniere di questa. Le porte di molti salotti difficilmente gli si spalancavano del tutto, il che svolgeva su di lui una pressione aristocratizzante, a sua volta rafforzata dall'atteggiamento del popolino. Questo, infatti, percepiva l'aspetto comico della situazione di un conte o di un marchese di recente sfornatura, e lo faceva capire con scherzi sgradevoli alle orecchie di chi ne era lo sventurato bersaglio. Perciò il neo-nobile, lungi dal criticare le peculiarità dell'ambiente al quale era eterogeneo, faceva in genere tutto il possibile per adattarsi e soprattutto per assicurare alla sua progenie un'educazione genuinamente aristocratica.
Queste circostanze facilitarono l'assorbimento di elementi nuovi da parte della nobiltà antica, in modo che, alla fine di una o più generazioni, scomparvero le differenze tra i nobili tradizionali e i neo-nobili. Accadeva che questi cessavano di essere "nuovi" a causa dello stesso graduale scorrere del tempo, e il matrimonio di giovani nobili, portatori di nomi storici, con figlie o nipoti di neo-ricchi/neo-nobili, serviva a molti di loro come mezzo per evitare la decadenza economica e di dare nuovo lustro al proprio blasone.
Qualcosa del genere accade anche ai nostri giorni. Tuttavia, a causa del tonus fortemente egualitario della società moderna e di altri fattori esposti in altre parti di questo studio, una mobilitazione in certo modo automatica, come quella stabilita da Re Carlo III, guasterebbe la nobiltà molto più di quanto la favorirebbe, giacché i neo-ricchisi mostrano sempre meno desiderosi di diventare neo-nobili.

d) Nel attuale contesto politico, si potrebbero costituire nuove forme di nobiltà?

Rimane tuttavia il problema: non ci sarebbe oggi il modo di costituire nuove nobiltà, con gradi gerarchici e modalità diverse che corrispondano a funzioni a loro volta differenti, purché tutte tendenti a raggiungere un certo grado in quella pienezza di eccellenza legata alla continuità ereditaria, che ancor oggi caratterizza la nobiltà propriamente detta?
D'altra parte, che modi ci sarebbero, nel quadro delle forme politiche attuali, indipendentemente dalla successione ereditaria, per dare accesso a nuove forme di nobiltà a persone che hanno reso al bene comune servizi di grande rilievo, sia per la brillantezza del talento, sia per il fulgore di una spiccata personalità, sia ancora per abnegazione eroica e cavalleresco coraggio, sia infine per la spiccata capacità di azione?
È certo che nel medioevo come nell'Ancien Régime, ci fu sempre posto per ricevere nella nobiltà persone che, per quanto nate nella più umile plebe, dessero prove inconcusse di possedere in grado eroico ed eccellente tali qualità. Era questo il caso di molti guerrieri che spiccavano per il loro coraggio e per la loro competenza strategia.

e) Un nuovo grado gerarchico nella scala sociale

L'orizzonte ampliato da queste riflessioni rende un poco più elastica di prima la distinzione tra nobiltà e borghesia, dando luogo eventualmente ad un tertium genus qualificato anch'esso di nobiltà, ma di una nobiltà diminutae rationis, come lo furono in Francia la nobiltà togata e la nobiltà di campanile.
Bisogna ora farsi una domanda sull'uso della parola "nobiltà".
Come la feconda vitalità del corpo sociale di un Paese può dare origine a nobiltà nuove, così può anche suscitare in classi sociali inferiori la formazione di fasce nuove non nobili. E quanto va accadendo, ad esempio, nel mondo del lavoro manuale, nel quale certe tecniche moderne esigono a volte l'utilizzazione di manodopera così altamente qualificata e così piena di responsabilità, da costituire una sorta di terzo genere tra l'intellettuale e il lavoratore manuale.
Questo quadro mette il lettore davanti ad una fioritura di situazioni nuove, in rapporto alle quali solo con molto tatto e con le prudenti lentezze tipiche delle società organiche, sarà possibile strutturare con fermezza di principi, giustizia e oggettività, nuovi gradi nella gerarchia sociale.
Posto tutto ciò, ci chiediamo: in funzione di questa entusiasmante opera gerarchizzatrice, che il corso dei fatti sta chiedendo agli uomini chiave del mondo contemporaneo, qual'è il significato esatto della parola "nobile"? Ossia: perché un nuovo grado della scala sociale meriti la qualifica di nobile, che caratteristiche deve avere? E quali altre sbarrano l'accesso a questo illustre qualificativo?
La domanda include tante situazioni complesse ed in stato di continua evoluzione, che non è possibile dare ad essa per ora una risposta perentoria e semplice. Questo è particolarmente vero se consideriamo che la soluzione dei problemi di questa natura molte volte viene data con più precisione dall'azione combinata di uomini di pensiero e dalla retta evoluzione consuetudinaria della società, piuttosto che dalle elucubrazioni di meri teorici, tecnocrati, etc.
Dato che qui non intendiamo che sfiorare l'interessante questione, bisogna dire che il qualificativo di "nobile" può essere riconosciuto solo a categorie sociali che conservino significative analogie col modello originario e archetipico di nobiltà, sorto nel medioevo, poiché esso continua ad essere ugualmente, nei nostri giorni, il modello della vera nobiltà.
Così, il nesso - particolarmente vigoroso e stretto - della finalità di una classe sociale col bene comune regionale e nazionale; la spiccata disposizione dei membri di questa classe a un generoso olocausto di diritti e di interessi propri in favore di questo bene comune; la vera eccellenza realizzata dai componenti di questa classe nelle loro attività abituali; la conseguente ed esemplare elevazione del modello umano morale e sociale dei suoi membri; un correlativo tenore di vita proporzionato alla speciale considerazione con cui la società li ricompensa per questa dedicazione al bene comune; e infine le condizioni economiche sufficienti per
conferire adeguato rilievo a tutto l'insieme di questa situazione; tutto ciò, insomma, costituisce una serie di fattori la cui felice convergenza propizia la formazione di nuove forme di nobiltà.
Speranza che il cammino tracciato da Pio XII non venga dimenticato.
Queste riflessioni suscitate dallo studio attento delle allocuzioni di Pio XII sulla nobiltà esprimono speranze. Sì, speranze che il cammino tracciato da quel Pontefice non venga dimenticato né sottovalutato dalla nobiltà, nonché dalle autentiche élites sociali non specificamente nobili ma di posizione paragonabile a quella della nobiltà, che esistono non soltanto in Europa ma anche nelle tre Americhe, in Australia e altrove.
Siano quindi di speranza, e non solo di comprensibile nostalgia, le parole conclusive di questo capitolo.  

Note 

1. Cfr. Capitolo VII, 2.
2. È bene analizzare più dettagliatamente il significato qui attribuito alla parola aleggiare. Essa indica una preminenza che esiste a beneficio di quelli che costituiscono gli ordini successivamente inferiori. Lo Stato si pone in cima a tutta questa struttura sociale, come il tetto che, pur pesando sulle pareti, le protegge dalle intemperie devastatrici, o come il campanile di un santuario che, in un certo modo, aleggia sul complesso di edifici nel quale è inserito, aumentandone la bellezza e facendo da ponte fra ciò che è terreno e ciò che è celeste, incantando, entusiasmando ed elevando ad alte cime l'animo di coloro sui quali aleggia.
Come il tetto o il campanile, la struttura statale deve avere tutta la stabilità necessaria. Tuttavia, questa stabilità deve coniugarsi con tutta la leggerezza possibile: un chilo in meno dell'indispensabile può mandarla in rovina; un chilo di troppo può comunicare a tale struttura un certo aspetto sgraziato e oppressivo.
3. "Maiestas" deriva da "maior", comparativo di "magnus", che significa "grande" nel senso fisico e morale, molte volte col significato accessorio di forza, di potere, di nobiltà, il che fa di "magnus" un epiteto onorifico o laudativo del linguaggio nobiliare. Lo stesso significato va esteso ai derivati e composti (Cfr. A. Emout - A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine - Histoire des mots, Editions Klincksieck, 4 ed., Paris 1979, p. 377). 
4.Dal latino "perfecta", che significa condotta a termine, compiuta, finita.
5. La Cité Antique, Librairie Hachette, Paris, libro III, p. 135.
6. Su questo tema, si vedano i testi di Fustel de Coulanges, di Frantz Funck-Brentano e di mons. Henri Delassus, rispettivamente nei Documenti VII, VIII e IX.
7. A questo proposito, è molto espressiva l'osservazione fatta da Frantz Funck-Brentano (L'Ancien Régime, Americ-Edit., Rio de Janeiro 1936, vol. I, p. 24) nelle memorie - di capitale interesse - del contadino Retif de la Bretonne: "Lo Stato è una grande famiglia, costituita da tutte le famiglie particolari. E il principe [ossia il monarca] è il padre dei padri".
Sempre su questo legame stretto tra la condizione di re e quella di padre, dichiara san Tommaso di Aquino: "Il rettore di una casa non si chiama re, ma padre di famiglia, per quanto abbia una certa somiglianza con il re; ne deriva che a volte i re vengono chiamati padre del popolo" (El régimen político, - Introducción, Versión y comentarios de Victorino Rodríguez, O.P., Fuerza Nueva Editorial S.A., Madrid, 1978, p. 34).
Su questo carattere sacro dell'autorità paterna insegna magnificamente san Paolo: "Piego perciò le ginocchi adinanzi al Padre, da cui deriva ogni paternità sia nei Cieli che sulla terra" (Ef. 3, 14-15).
8.Cfr. ad esempio José Mattoso, A Nobreza Medieval Portuguesa, Editorial Estampa, Lisboa 1981, pp. 27-28; Enciclopedia Universal Ilustrada, Espasa-Calpe, t. XXI, pp. 955 e 958; t. XXIII, p. 1139.
9.Legista: qualifica data ai consiglieri del re, alla fine del medioevo, che si impegnarono a promuovere l'assolutismo regio e a combattere il feudalesimo, basandosi a questo fine sull'antico Diritto romano.
10. Quest'assorbimento della nobiltà ad opera della centralizzazione e rafforzamento del potere regio non colpì nello stesso modo le nobiltà dei diversi Paesi e delle diverse regioni di uno stesso Paese.
Esempio tipico di una nobiltà che resistette a questa influenza demolitrice operata dalla monarchia assoluta fu la nobiltà della Vandea, in Francia, regione che diventò poi uno dei focolai di resistenza alla Rivoluzione francese. Riguardo questa tendenza alla resistenza della nobiltà vandeana al potere centrale, riferisce l'insigne storico Georges Bordonove:
"La nobiltà vandeana forma una casta, non chiusa nelle sue memorie, ma animata dal suo stesso dinamismo. L'esistenza di Versailles non la indebolì, né fisicamente né moralmente. Salvo eccezioni, l'influenza delle idee nuove, il pensiero dei filosofi e i discorsi dei verbosi ripetitori della dottrina del secolo dei lumi la lasciavano indifferente. Al contrario, essa tendeva a ricordare il ruolo che aveva svolto nelle epoche passate, il suo potere e la sua ricchezza, l'antica grandezza e la preminenza del Poitou. Essa indubbiamente soffriva della regressione della nobiltà a profitto dei potere centralizzatone dello Stato. Essa non perdonò mai del tutto a Richelieu la demolizione dei propri castelli feudali, né al Re Sole il suo altezzoso assolutismo" (La vie quotidienne en Vendée, Hachette, Paris 1974, p. 49).
Per bene intendere lo spirito di queste resistenze della nobiltà vandeana all'assolutismo regio (contro il quale, a loro volta, i rivoluzionari dell'89 parlarono così furiosamente e prolissamente), bisogna tener presente che il Trono non ebbe più ardenti difensori di essa, né i rivoluzionari affrontarono oppositori più eroici e orgogliosi.
11. Cfr. Documenti X. 
12.Questa magnifica accoglienza dei parigini al loro futuro re viene descritta con esemplare fedeltà dal già citato storico Georges Bordonove, nella sua opera Les Rois qui ont fait la France - Charles X. In Documenti X riportiamo brani di questa descrizione.
13. Non sospettabile di parzialità al riguardo, il noto storico austriaco Giovanni Battista Weiss narra l'epopea della reazione patriottica portoghese contro le truppe napoleoniche comandata, senza risultato, da successivamente tre fra i più insigni generali del Bonaparte, cioè Junot, Soult e Massena. Ecco, fin dagli inizi, i successi della reazione nazionale contro Junot e le sue truppe:
"I portoghesi spiegarono la loro bandiera nazionale, al suono delle campane, con giubilo festoso e fuochi d'artificio nella città [di Porto]. Questo movimento corse per il Paese come fuoco appiccato all'erba secca; l'11 giugno 1808 l'ex-governatore di Trás-os- Montes proclamò sovrano il principe reggente e chiamò alle armi gli abitanti. Nelle città e nei villaggi rispose il popolo: "Viva il Principe Reggente! Viva il Portogallo! Abbasso Napoleone!".
"Il 17 giugno, la stessa acclamazione risuonò a Guimarães, il 18 a Viana, il 19 l'arcivescovo di Braga fece restituire le prerogative alla Casa Reale di Braganza, con grande concorso di popolo; baciò l'antica bandiera e benedisse il popolo che cantò il Te Deum Laudamus. Venne eletta poi una giunta, della quale fu presidente il vescovo.
"A Coimbra la gioventù studentesca ardeva in favore della liberazione della patria e il tempio della scienza si trasformò in arsenale di guerra. Nel laboratorio di chimica si preparava la polvere da sparo. Gli studenti si sparpagliavano nei villaggi per incitare i lavoratori ad armarsi; erano accolti col suono delle campane, fuochi di artificio e clamori di giubilo. Tutti si armavano; i lavoratori brandivano le loro falci, dissotterravano cannoni tenuti nascosti nell'ultima guerra di Spagna; frati col Crocifisso in mano marciavano davanti alle truppe. Il clero era tutto fuoco e fiamme per la liberazione nazionale, ma impediva le crudeltà che erano state commesse in Spagna contro i nemici.
"La situazione dei francesi diventò grave. Junot era ben conscio della gravità del pericolo: non poteva ricevere aiuti dalla Francia, né via mare, perché gli incrociatori inglesi lo dominavano e vigilavano lungo tutta la costa, né via terra perché la Spagna era tutta in armi e tutti i corrieri venivano intercettati. Con 24.000 uomini non poteva dominare la rivolta di un intero popolo" (Historia Universal, Tipografía La Educación, Barcelona, 1931, pp. 262-263).
14. Cfr. Elaine Sanceau, 0 Reinado do Venturoso, Livraria Civilização Editora, Porto 1970, pp. 205-206.
15. Un'altra eccezione, immediatamente anteriore, fu quella dell'Elettore di Baviera Carlo Alberto, che ottenne la corona imperiale dopo la morte di Carlo VI, padre dell'arciduchessa Maria Teresa. La sua presenza sul trono imperiale, col nome di Carlo VII, fu di breve durata (1742-1745) e la sua morte aprì la strada all'elezione di Francesco di Lorena. In realtà, l'ascesa di questi alla suprema dignità del Sacro Impero rappresentò già di suo una prova del potere politico della Casa d'Austria: infatti Francesco di Lorena fu eletto Imperatore dietro richiesta di Maria Teresa, che in questo modo qualificava suo marito col più alto titolo nobiliare della Cristianità, parificando il matrimonio dell'illustre ereditiera degli Asburgo con chi prima era solo Duca di Lorena e Granduca di Toscana.
16. Forse nessun monarca spinse tanto lontano la tendenza a fare della nobiltà una classe dichiaratamente aperta, come il re Carlo III di Spagna (1759-1788) (Cfr. Capitolo VII, 9 c).
17. Riguardo la situazione dei titoli nobiliari nel regime repubblicano, afferma Rui Dique Travassos Valdez:
"L'articolo della Costituzione del 1911, che abolì le qualifiche nobiliari nel Paese, fu oggetto più tardi di restrizioni basate sulla considerazione dei diritti acquisiti. Così, i titolati i cui titoli fossero stati concessi (allo stesso) vigente la monarchia e avessero pagato i rispettivi diritti di concessione, vennero legalmente autorizzati ad usare i loro titoli, a condizione che fossero preceduti dal loro nome civile. (...)
"Durante la vita del re Manuel II, in esilio, molti si rivolsero al sovrano perché egli, come capo della nobiltà (lo stesso fecero i miguelistas presso il loro capo) li autorizzasse ad usare il titolo. Questa autorizzazione veniva di regola differita (...) e aveva soprattutto il carattere di una promessa nell'ipotesi di una restaurazione monarchica. 
"Morto il re e riconosciuto don Duarte Nuno, duca di Braganza, dalla maggioranza dei monarchici portoghesi, in quanto riuniva in sé i diritti dinastici dei due rami della Casa di Braganza, apparve dapprima la Commissione di Verifica e Registro delle Concessioni, seguita poi dal Consiglio della Nobiltà, organismo al quale quel principe diede potere di trattare questi argomenti.
"Nessuno di questi organismi produsse effetti civili davanti allo Stato. Ciò nonostante, bisogna notare che diversi titolati, i cui titoli furono riconosciuti soltanto durante il regime repubblicano, per una di queste vie sono stati designati dal loro titolo (sempre preceduto dal nome civile) nel 'Diario do Governo' (Gazzetta Ufficiale), come si usa per quelli che godettero di un decreto a loro favore" (Títulos nobiliárquicos, in Nobreza de Portugal e do Brasil, Editorial Enciclopédia, Lisboa 1960, vol. II, pp. 197-198).
18. La parola "democratizzazione" viene qui usata nel significato rivoluzionario di democrazia, che, come già detto, non è l'unico possibile.
19. Cfr. Capitolo VII, 8 f.
20. Cfr. Capitolo VII, 8 f.
21. Cfr. Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, Cristianità, Piacenza 1977, pp. 70-71, 74-75. 
22.PNR 1952, p. 457.
23. Questa simbiosi tra uomo, funzione e terra, fu espressa in modo toccante da Paul Claudel ne L'Otage: "Coufontaine - …. Così come la terra ci dà il suo nome, io le dò la mia umanità. In essa, noi siamo sprovvisti di radici; in me per la grazia di Dio essa non è sprovvista del suo frutto, il quale sono io, suo signore.
"È per questo che, preceduto dal 'de', sono io l'uomo che per eccellenza utilizza il suo nome.
"Come una piccola Francia, il mio feudo è il mio regno; la terra in me e nella mia stirpe, diventa gentile e nobile, come qualcosa che non può essere comperata". (Gallimard, 1952, pp 26-27).
24. Sul numero dei nobili elevati dalla Chiesa all'onore degli altari, Cfr. Documenti XII.
25. In Documenti XI, il lettore potrà trovare gli insegnamenti di Papi, santi, dottori e teologi sulle condizioni di liceità della guerra.
26. Sulla nobiltà come fattore sociale di propulsione della società verso tutte le forme di elevazione e di perfezione, si veda anche l'Appendice III.
27. L'Osservatore Romano, 5/6 gennaio 1920. Si veda il testo integrale di questa allocuzione in Documenti II.
28. Si legge al riguardo nel Dictionnaire Encyclopédique QUID, sezione "Les journaux se racontent" (Robert Laffont, 1991, p. 1218): "La storia di Point de Vue è quella di una rivista che, senza aiuti finanziari e senza il minimo lancio promozionale, è riuscita, anno dopo anno, a raggiungere il livello dei periodici illustrati francesi a diffusione internazionale". E questo avviene, va aggiunto, nonostante che la rivista sia molto discussa in alcuni ambienti di élite francesi. 
29. Cfr. Capitolo III.
30. Cfr. Luiz da Silva Pereira Oliveira, Privilégios da nobreza e Fidalguia de Portugal, Oficina de João Rodrigues Neves, Lisboa, 1806, pp. 67-81.
31. A motivo dell'incarico svolto, potevano accedere alla nobiltà "gli alti servitori della Casa Reale, le governanti e le nutrici degli Infanti reali, i maggiorenti della Casa e della Corte, presidenti, consiglieri e uditori delle Cancellerie Reali" (Cfr. Vicente María Márquez de la Plata e Luis Valero de Bernabé, Nobiliaria Española - Origen, evolución, instituciones y probanzas, Prensa y Ediciones Iberoamericanas, Madrid 1991, pp. 15). In quest'opera, adottata come manuale dalla Escuela de Ciencias nobiliarias, heráldicas y genealógicas di Madrid, il lettore troverà una visione ampia e didattica del tema qui trattato.
Riguardo la nobiltà conferita per l'esercizio di incarichi militari, bisogna rilevare, a titolo illustrativo:
"Filippo IV dice, nella Cedola reale del 20 agosto 1637, che l'ufficiale che serve in guerra durante un anno goda della nobiltà di privilegio, e quello che lo fa per quattro anni trasmetta la nobiltà ai suoi eredi .(...)
"La nobiltà personale è riconosciuta a tutti gli ufficiali dell'esercito per ordine reale del 16 aprile 1799, e il 18 maggio 1864 si dà ordine che il titolo di Don e Nobile venga dato ai figli di capitano e ufficiale di grado superiore, ai nipoti di tenente-colonnello e agli hidalgo notori che servono nell'esercito" (Vicente de Cadenas y Vicent, Cuadernos de doctrina nobiliare, Institutos Salazar y Castro, C.S.I.C. - Asociación de Hidalgo a Fuero de España, Ediciones Hidalguía, Madrid 1969, n 1, p. 28).
A sua volta, il "Código de las siete partidas", di Alfonso X il Savio (1252-1284), concedeva - tra altri privilegi a persone che si dedicavano a professioni di cultura - il titolo di conte ai maestri di giurisprudenza che esercitavano la carica per più di venti anni (Cfr. Bernabé Moreno de Vargas, Discursos de la nobleza de España, Instituto Salazar y Castro, C.S.I.C., Ediciones Hidalguía, Madrid, 1971, pp. 28-29).
Vicente de Cadenas y Vicent, nella sua importante opera Apuntes de Nobiliaria y nociones de Genealogila y Heráldica, riassume i criteri di mobilitazione dicendo:
"Il sacerdozio, il compimento di uffici onorevoli, la carriera delle armi, le lettere, la concessione di un titolo, il matrimonio, il nascere in certi casi da madre hidalga, oppure in determinati territori, l'aver prestato grandi servizi all'umanità, alla Patria o al Sovrano, l'aver sacrificato la propria persona o i propri beni per grandi servizi all'umanità, alla Patria o al Sovrano, l'aver sacrificato la propria persona o i propri beni per grandi ideali, eccetera, sono sempre stati, e devono continuare ad esserlo, giusti motivi per ottenere nobiltà, poiché la tendenza universale è quella di ampliare la base della classe nobiliare, la più colta e sofferta di quelle che compongono la nazione, per far fruttificare le sue virtù a beneficio della società" (Istituto Luis de Salazar y Castro, C.S.I.C.. Primer curso de la Escuela de Genealogía, Heráldica y Nobiliaria, Ediciones Hidalguía, Madrid, 2 edizione, 1984, p. 30).
La mobilitazione a motivo dell'esercizio di attività industriali verrà menzionata nel prossimo paragrafo (9 c).
32. Infatti, si poteva acquistare nobiltà per esercizio di altre cariche e funzioni, come: cariche militari, commensale del Re (alte cariche di corte, segretari e notai del sovrano), cariche finanziarie, cariche universitarie, etc.
È convinzione molto diffusa in Francia che riesce molto difficile elaborare una relazione completa delle cariche e funzioni nobilitanti all'epoca dell'Ancien Régime. Philippe du Puy de Clinchamps, ad esempio, nel libro La noblesse, dal quale è stata raccolta quest'enumerazione, giunge ad affermare che "non esiste, nella storia della nobiltà, capitolo più aggrovigliato di quello delle nobilitazioni per l'esercizio di una funzione" (Collezione Que sai-je?, Presses Universitaires de France, Paris 1962, pp. 20-22).
Non sembra che quest'affermazione rappresenti una critica, ma soltanto una constatazione, poiché tutto quanto è organico e vivo tende al complesso e a volte persino al complicato. Questo diverge di molto da tanti freddi e lapidari quadri di funzionalismo elaborati dal capitalismo di Stato, come nel caso di certi agglomerati piramidali dal macro-capitalismo privato. 
33. Cfr. Vicente de Cadena y Vicent, Cuadernos de doctrina nobiliare, n° 1, pp. 35-38.