ROMA
20 settembre
1870 - 20 settembre 2012
A Porta
Pia, nel 1870, ci fu un’azione militare che, in violazione del Diritto
Internazionale, comportò l’annessione forzata al Piemonte di ciò che restava
dello Stato della Chiesa.
Come disse Dostoevskij, Roma da capitale del mondo fu
degradata a capitale di un’Italia unita meccanicamente e non
spiritualmente.
Da allora ed ancor oggi, l’assalto di Porta Pia non segna
soltanto la fine politica di uno stato antico, ma rappresenta soprattutto il
trionfo dell’ideologia liberal-massonica su quanto poteva rappresentare di
ostacolo all’imperialismo capitalista che allora muoveva i primi passi nelle
politiche mondiali.
Nell’anniversario di quella impresa, di cui ancor oggi si
nascondono particolari significativi, pubblichiamo una nota di un ”liberale”
che, mal sopportando le ragioni del revisionismo ed incarnando fedelmente gli
ideali di quell’azione, reagisce malamente nei confronti di chi controcelebra
quel momento storico. A questa nota è allegata una nostra
risposta.
Buona lettura.
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Revisionismo anche su
Porta Pia?
L’esposizione della
bandiera del papa-re che aveva sventolato a Porta Pia nel 1870 e il solenne
omaggio tributatogli lo scorso 2 settembre nella chiesa di San Lorenzo in Lucina
a Roma appartengono probabilmente al folclore dei riti ricorrenti
dell’aristocrazia nera della capitale, alle provocazioni eccentriche degli
ultimi Colonna, Borghese, Torlonia. Ma diversi segnali, in queste settimane,
offrono all’evento un contesto che lo sottrae alla semplice curiosità della
cronaca minuta.
Innanzitutto, sorprende il
linguaggio alla moda del principe Sforza Ruspoli che invoca l’abusatissima
formula della "caduta delle ideologie" per legittimare la radicale revisione
della figura di Pio IX, sconfitto dalle contingenze della storia, ma
attualissimo profeta dei pericoli della modernità. Sarebbero gli stessi, in
fondo, contro i quali oggi mette in guardia le coscienze (e i partiti, e le
istituzioni dello stato italiano) Giovanni Paolo II. Vengono alla mente altri
inquietanti revisionismi recenti.
Sullo sfondo, naturalmente,
vi è la beatificazione di Pio IX che ha sollevato aperti dissensi all’interno
dello stesso mondo cattolico, dalle comunità di base allo storico Pietro
Scoppola, ai grandi teologi Schillebeeckx, Metz e Küng, al gesuita e storico
Giacomo Martina.
Anche in ambito cattolico,
sembrava da tempo acquisita la conclusione che, col senno di poi, la perdita del
potere temporale fosse stata una grande liberazione per la Chiesa stessa e per
la credibilità del suo magistero. Inoltre, le cannonate dei bersaglieri nel 1870
non erano certamente negli auspici degli eredi di Cavour, che fino all’ultimo
avevano riproposto l’unica (laica e monarchica, individuata dal Cavour) via
d’uscita ragionevole e reciprocamente vantaggiosa: "Libera Chiesa in libero
Stato". Paradossalmente, le contingenze della storia nazionale hanno fatto sì
che il laicismo sia stato garantito maggiormente dalla monarchia, piuttosto che
dalla repubblica.
D’altra parte, negli anni
precedenti, Pio IX aveva cancellato rapidamente e definitivamente l’immagine di
"papa liberale" con cui era stato salutato nel 1846-47. Dopo la caduta della
Repubblica Romana, aveva ripristinato la pena di morte, comminato carcere ed
esilio a chi voleva concludere il Risorgimento. Nel 1864, con il "Sillabo degli
errori principali del nostro tempo", aveva sancito la chiusura totale della
Chiesa nei confronti del mondo moderno, condannando la libertà di pensiero, di
fede e di ricerca scientifica; il socialismo e il liberalismo; il progresso; la
separazione tra Stato e Chiesa; il divorzio ecc. Questo cupo arroccamento
tradizionalista, rafforzato dalla proclamazione del dogma dell’infallibilità nel
Concilio Vaticano I del 1870, aveva sconfessato le forze migliori del
cattolicesimo in un momento storico cruciale non solo per l’Italia,
compromettendone a lungo la possibilità di una partecipazione efficace e
autorevole alle grandi trasformazioni di fine secolo. Per non parlare del Non
expedit, che da un lato nega legittimità alle istituzioni e alla classe politica
(in gran parte cattolica!) del nuovo Stato unitario e, dall’altro, mette in
quarantena sino alla fine della prima guerra mondiale le prospettive di un
possibile soggetto politico cattolico nel nostro Paese.
La revisione della figura
di Pio IX avviene contemporaneamente allo sviluppo di un più vasto revisionismo
che, con provenienze diverse e in modi spesso confusi, tende a distruggere il
nostro Risorgimento. Così, le mitologie padane della Lega si scoprono in
sorprendente sinergia, sul piano di un revisionismo storico improvvisato oltre
che su quello delle alleanze elettorali contingenti, con le spinte
dell’integralismo cattolico. Al Meeting di Rimini, si riscopre la figura del
brigante meridionale per giocarla contro la pretesa "sacralità" del mito
risorgimentale. In realtà, con ben maggiore attendibilità storiografica, le luci
e le ombre dell’unificazione e della costruzione dello Stato nazionale sono
state già ampiamente evidenziate da più generazioni di studiosi e da tempo anche
nelle nostre scuole ci si è liberati dalla retorica agiografica che oggi si
vorrebbe indicare come mito da sfatare; in particolare, sulle componenti sociali
del brigantaggio si è soffermata a lungo proprio la storiografia di sinistra e
laica (ovviamente senza nostalgie papaline se non addirittura sanfediste),
quindi della parte politica contro cui si rivolgono i recenti
revisionismi.
Quello che più colpisce
nelle attuali polemiche, è la debolezza della voce dei laici e delle
istituzioni, specie sul recente interventismo della Chiesa che, dalle
discussioni parlamentari sulle biotecnologie al Gay Pride, moltiplica le
invasioni di campo come mai in passato. La fine della Democrazia Cristiana
sembra aver liberato il Vaticano da un’istanza unica e stabile di mediazione
politica, mentre la nascita di Forza Italia contrabbanda agli italiani un
preteso liberalismo-laicismo di massa inesistente.
Michele D’Elia
Presidente
dell’Associazione dei liberali – Milano
Membro della Giunta
nazionale della Federazione dei liberali
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La nostra
risposta
E già!
Revisionismo anche su Porta Pia
Non lo
diciamo da “storici”, ma da osservatori della storia: per capire i fatti che
travolsero e sconvolsero l’Italia nel “Risorgimento”, bisogna innanzitutto
capire lo spirito di quel momento, ciò che veramente passava per la mente della
gente comune e non solo per quella dei liberali, dei massoni nostrani e dei
ministri inglesi. Insomma, per scoprire dove sta la verità occorre immergersi in
quei momenti, sforzandosi di fare proprie le aspirazioni, i sentimenti, le
necessità e gli ideali delle popolazioni schiacciate tra il vecchio ed il
nuovo, tra il certo e l’incerto, tra il papa ed il re, tra il sud ed il
nord.
La presa di
Porta Pia, così come la maggior parte delle vicende storiche che la
precedettero, fu l’ennesimo danno agli interessi delle popolazioni per opera
delle classi liberali emergenti in Italia e nello scacchiere
internazionale.
Per
qualcuno è valida l’abusata metafora: “Gli italiani con l’unità caddero dalla
padella nella brace”, come dire che se prima stavano male, poi, con
l’unificazione imposta a colpi di cannone dai Savoia, stettero
peggio.
Questa
posizione viene abbracciata dalla maggior parte di coloro che affrontano in modo
critico ma laicista il “Risorgimento”, comunque condannando i governi
precedenti. Il valore aggiunto promosso dai Neoborbonici è rappresentato dagli
Ideali legittimisti e della tradizione cattolica che, però, stridono con le tesi
laiciste. Infatti, oltre che sulle discutibili finalità ed i brutali mezzi usati
per vincere la guerra di conquista risorgimentale, i legittimisti di area
neoborbonica puntano il dito sulle ideologie che generarono il “Risorgimento”,
con tutte le aberranti conseguenze militari, sociali e politiche. Pertanto, nel
teorema appena enunciato scompare la “padella” e resta solo “la brace” del
liberismo capitalistico del Nord pilotato dall’Inghilterra.
Nel brano
in questione, il D’Elia dà per scontato l’infondatezza politica delle tesi
legittimiste e, affermando che “paradossalmente (..) il laicismo sia stato
garantito maggiormente dalla monarchia, piuttosto che dalla repubblica”, fa
propri quei principi secondo i quali è giusto aggredire una nazione
indipendente, depredarla delle sue ricchezze, mortificarne i valori etici e
morali, sottometterla politicamente, stravolgerla culturalmente se guidata da un
governo non liberale. Praticamente viene applicata la regola del “fine che
giustifica i mezzi”, ma solo per pochi maledetti.
Il grande
paradosso di costoro è che, per difendere le ideologie ed i principi che
generarono il “Risorgimento” e, nel caso specifico, l’aggressione alla Chiesa,
devono necessariamente abbracciare le tesi razziste e violente dei Savoia
rinnegando, in questo modo, proprio quei principi posti alla base del vivere
civile per i quali affermano di battersi ed arrivando addirittura a mortificare
gli attuali enunciati repubblicani e costituzionali fondati sulla tolleranza, il
rispetto e la libertà di opinione.
Sappiamo
bene che i principi di libertà e democrazia per essere autentici devono essere
validi ovunque ed in ogni circostanza. Essi non possono essere più o meno
affievoliti a secondo dei contesti politici e sociali dove si sviluppano e dove
se ne invoca l’applicazione. Se appariva contro il diritto internazionale
aggredire, ad esempio, il piccolo Stato di San Marino, non si capisce per quale
motivo non lo era anche per il piccolo Stato del Vaticano. Secondo un principio
oggettivo, tra l’altro legato al Diritto internazionale, a decidere una
sostanziale modifica dell’assetto interno dello Stato della Chiesa avrebbe
dovuto essere il Governo di quello stato e non i cannoni di Vittorio Emanuele
II, né, tanto meno, gli avi di D’Elia.
Non ci fu,
quindi, solo una ragione politica ad indurre i Savoia ad invadere Roma, ma anche
una ideologica. In buona sostanza questo il Principe Ruspoli ha interso
rimarcare con la criticata iniziativa rievocativa da lui promossa, evidenziando
la falsità di quei principi in nome dei quali i bersaglieri assaltarono e
conquistarono Roma. Altro che “critica eccentrica degli ultimi Colonna,
Borghese, Torlonia” ed altro che “cupo arroccamento
tradizionalista”.
Difendere
il “Risorgimento” e tutto quanto ne conseguì, compresa la Breccia di Porta Pia,
significa accettare i principi aberranti che lo generarono, al di là delle
apparenti buone intenzioni ostentate dalla storiografia ufficiale quale, ad
esempio, l’unificazione del Paese.
Di fronte a
quanto i Savoia fecero in nome dell’Italia, andrebbe evidenziato che ben diversi
erano i modi, la politica e gli assetti del progetto unitario pensato dai veri
patrioti italiani. Un progetto condiviso dagli stati italici preunitari che,
però, strideva enormemente e fatalmente con i diffusi interessi dell’Inghilterra
nel Mediterraneo.
Interessi
che vedevano in una tale probabile Italia unita un fastidioso potenziale
concorrente su tutto quanto l’Inghilterra gestiva in termini di investimenti
(canale di Suez) e domini (Sicilia, Maghreb, Grecia, Cipro ecc.).
Oltre al
Regno delle Due Sicilie, svincolato ed isolato per scelta dagli intrighi
economici e finanziari internazionali, il pericolo maggiore giungeva dal
Vaticano, opposto per definizione dall’anglicano potere.
Proviamo a
guardare sotto questa ottica l’aggressione di Porta Pia e cerchiamo di scrutarne
le vere ragioni ed i veri obiettivi, anche alla luce dell’attuale situazione
mondiale.
Se questa
esigenza di analisi dei revisionisti neoborbonici viene interpretata
strumentalmente dai risorgimentalisti e confusa con le “mitologie padane della
Lega” e “in sorprendente sinergia, sul piano di un revisionismo storico
improvvisato oltre che su quello delle alleanze elettorali contingenti, con le
spinte dell’integralismo cattolico”, è chiaro che ogni considerazione storica
proveniente dai canali ufficiali della cultura è ancora fortemente condizionata
da un’ideologia che impedisce di capire le verità di allora come quelle di
adesso. Non si tratta di “distruggere il Risorgimento”, come afferma D’Elia, ma
di analizzarlo, capirlo e, nel caso, condannarlo secondo i principi etici,
culturali e morali della nostra civiltà.
L’apertura
di D’Elia verso il brigantaggio anche in contrapposizione con la storiografia
ufficiale non ci deve illudere: secondo costoro nemmeno i Briganti possono
scalfire “la sacralità del ‘Rsorgimento’”. Con l’affermazione: “si è liberati
dalla retorica agiografica” e che “sulle componenti sociali del brigantaggio si
è soffermata a lungo proprio la storiografia di sinistra e laica (ovviamente
senza nostalgie papaline se non addirittura sanfediste), quindi della parte
politica contro cui si rivolgono i recenti revisionismi”, il D’Elia svela il
subdolo tentativo di appropriazione ideologica del brigantaggio. Questa recente
operazione politico-culturale, messa in atto da alcuni settori dell’estrema
sinistra e dell’anarchia, prende forma spogliando il ribellismo post unitario
dalla originale veste politica che lo colloca inequivocabilmente tra i
“reazionari” antiliberali ed antirisorgimentali in lotta contro la realizzazione
di un colonialismo di sfruttamento nell’Italia meridionale. Questo significa
uccidere per la seconda volta i Briganti e cioè chi, imbracciato il fucile ed
imboccata la via dei monti, in nome del proprio re si difese contro un’altra
civiltà venuta ad uccidere, depredare, saccheggiare e ad imporre il proprio
governo e la propria ideologia. Paradossalmente è la stessa ideologia che adesso
li vorrebbe come propri eroi. Finalizzata a questa appropriazione è il
declassamento della reazione armata delle popolazioni meridionali da guerra di
liberazione a fenomeno sociale: “il Risorgimento non può avere opposizione
politica”.
Nell’ultima
affermazione del D’Elia c’è la risposta ai suoi perché. Infatti “la debolezza
della voce dei laici e delle istituzioni” nella difesa del “Risorgimento”
dipende proprio dal paradosso etico, dall’indifendibilità non solo delle
modalità e dei mezzi utilizzati per “fare l’Italia”, ma anche dalle dinamiche
politiche scese in campo che, alla luce dei recenti sviluppi, appaiono
fallimentari, in molti casi aberranti e contro la stessa natura umana.
Insomma,
una manovra politico-culturale subdola dove, mentre da una parte cercano di
salvaguardare alla meglio la mitologia risorgimentale, dall’altra cercano di
appropriarsi di tutto quanto è ormai sfuggito dal controllo dei cattedratici:
tra questi le ragioni del ribellismo popolare, più comunemente conosciuto con il
nome di brigantaggio.
Alessandro
Romano
Fonte: