sabato 15 settembre 2012

Le verità sulle vicende "Risorgimentali" nel Regno delle Due Sicilie(1860-1861):(Parte 44°): Resa di Gaeta partenza di Francesco II-CONCLUSIONE-

Francesco II firma l'atto di resa a Gaeta
 
 
Voglio ricordare che tale documento e stato scritto da un testimone dei fatti,quindi data la preziosa importanza del testo ne consiglio un attenta lettura.





CONCLUSIONE
 
I fatti che ho narrati in questo disastroso Viaggio da Boccadifalco a Gaeta, li ho attinti dal mio itinerario scritto sul luogo degli avvenimenti, da testimonianze concordi di altri scrittori e da documenti originali inappuntabili, e senza porvi di coscienza, aggravandoli o travisandoli. Replicate volte ho pubblicato, che avrei con lealtà modificati i giudizii miei, ove avessi avuto a legger chiaro negli stessi miei errori che, per isbaglio, avessi potuto commettere; a tale scopo chiesi de' documenti a tutti coloro che poteano essere interessati in questa mia narrazione. E per darne una prova solenne, prima che io narri altri avvenimenti per compimento di quelli già narrati, sento il dovere di esporre, che tutti quello che ho scritto circa la condotta militare del colonnello Ruiz de Balestreros, non essendomi trovato né in Calabria, né in Caserta vecchia, io lo attinsi dagli storici contemporanei de Sivo, Morisani, delli Franci (sottocapo dello Stato maggiore dell'Esercito sul Volturno), e da' Comenti dello stesso Generale in capo tenentegenerale Ritucci. Ebbene, or sono pochi giorni, mi furono presentati molti documenti originali, che giustificano il suddetto sig. colonnello Ruiz. Fra que' documenti trovo un ufficio del generale in capo Salzano, che surrogò Ritucci al Garigliano, in questi termini:
Comando in Capo del Corpo di Esercito d'operazione Personale n.758. Castellone 3 novembre 1860.
Signor Colonnello Da S.E. il Ministro Segretario di Stato della Guerra, in data del 1° corrente mese, 1° Carico, n.767, è stato partecipato quanto segue:
Il sig. Colonnello Ruiz de Balestreros, avendo COMPLETAMENTE giustificata la sua militare condotta, mi reco a dovere parteciparlo all'E. V. affinchè si compiaccia renderne avvisato lo interessato ed i Corpi di sua dipendenza.Ed io adempiendo agli ordini della lodata Eccellenza Sua, mi affretto con piacere parteciparglielo per opportuna sua conoscenza - Salzano.
Al sig. Colonnello D. Giuseppe Ruiz de Balestreros, in Gaeta.
Mi si è detto, e forse mi si dirà che questa dichiarazione del Ministero della guerra è un possibile risultato di potenti riguardi, ove tra la farragine delle circostanze abbia contribuito pure un tantino lo intrigo; ed io con animo sereno e franco rispondo, che il Ministro Casella non era uomo, che nell'esercizio di ogni suo dovere lasciassesi imporre da chicchessia o rendersi strumento del più semplice intrigo. Ruiz dovette ben dimostrare come l'ombra de' suoi creduti torti, fosse giudicata con severità crudele; onde ottenne quella autorevole giustifica, e fu promosso a Generale. In quanto a me, a fronte di un documento tanto chiaro, e trattandosi di una giustifica, non ho esitato un momento a pormi in pace colla mia coscienza.
Sarei stato felice se avessi potuto elogiar sempre, modificare spesso i miei giudizii a vantaggio di qualche duce, e non iscovrire piaghe che travolsero nel nulla la società della nostra diletta patria. Io non ho avuto altra pretensione che dir la verità senza amore e senza odio; dappoichè molti che ho lodato o flagellato neppure li conosco di vista.
Questa mia resipiscenza servirà a porre in guardia tutti coloro che scriveranno sul conto della vita militare del colonnello Ruiz de Balestreros. Servirà pure di risposta agli altri che lagnasi di essere stati da me maltrattati; se essi invece di scrivermi lettere impertinenti e villane, anonime e minacce, avessero esibiti DOCUMENTI giustificativi, io non avrei esitato a pubblicare gli stessi miei falsati giudizii, come il fo pel Colonnello Ruiz de Balestreros, e l'avrei anche fatto in favore di un D. Liborio Romano. Ma fino che ciarle, non altro che ciarle, oppongonsi alle infingardaggini, alle nullità, alle codardie, ai grandi errori e tradimenti, l'inesorabile giustizia vuole che sia pubblico il biasimo, e vadano esecrati e maledetti i loro nomi alla più tarda posterità; e senza riguardi alle onorate canizie.Troppo si sofferse e si soffre per dar luogo ad una esiziale pietà che falserebbe la storia, e non sarebbe di salutare esempio ai presenti ed a' posteri.
Taluni che hanno il titolo di gentiluomini, dopo di avere mendicato un elogio o una frase meno severa, osano pubblicare libercoli per difendere i proprii e gli altrui errori, e più svelano quelle colpe e codardie che avrebbero dovuto occultare. Essi giungono a dare del calunniatore all'egregio storico, cav. Giacinto de Sivo, e quasi del diffamatore al distinto tenentecolonnello Giovanni delli Franci, sottocapo dello Stato maggiore dell'Esercito napoletano, perché costui disse nella sua Cronaca d'Autunno, che un duce in capo avea la sola divisa di Generale, ma non la mente; che l'Appendicista della Discussione si è lasciato ingannare, ed avvalendosi di falsi rapporti, è salito in cattedra per elogiare e flagellare a suo piacere.
Per convincere di falso il de Sivo, il delli Franci e l'Appendicista, quali documenti han pubblicati gli autori di quei libercoli? Una lettera di un distinto uffiziale, ben conosciuto per la sua squisita gentilezza, e che non è capace negare un favore a chicchessia, fosse pure un suo nemico. In fine si riproduce un decreto col quale si fa esattore di tributi un generale (il più odioso incarico, maggiormente quando si esercita in tempo di guerra), ed avvalendosi di questa gran carica, si cerca scagionargli un torto chiaro e solenne. Si sa, che con la rete non si asconde il Sole!Per provare che l'Appendicista non si è fatto ingannare, e che non è salito in cattedra per elogiare e flagellare a suo piacere; tra non guari pubblicherà un altro umile lavoro corredato da documenti inappuntabili, col titolo: Il 1860 - Perché cadde il Trono di Napoli - Amori e sdegni di tre diplomatici.E tempo di dar fine a questo lavoro, altro non mi resta che narrare gli ultimi fatti che avvennero immediatamente dopo la capitolazione di Gaeta.
Il Re, la Regina, i conti di Trani e di Caserta si recarono a Roma, ove furono regalmente ospitati dal S. Padre Pio IX al Palazzo apostolico del Quirinale. Il Santo Pontefice, da vero padre e Sovrano, accolse nella sventura la real famiglia di Napoli, sdebitandosi di quanto avea fatto per Lui Ferdinando II nel 1849.
Giunta a Roma la real coppia, i settarii fecero una dimostrazione allusiva alla caduta di Gaeta. La polizia francese non si oppose. Però il fior della cittadinanza e della aristocrazia romana mostrò indignazione e disprezzo contro quella settaria dimostrazione.
Parecchie deputazioni estere si recarono a Roma per presentare omaggi al Re e alla Regina; e fu notata particolarmente quella degl'inglesi residenti colà.
Le dame di Baviera aveano già presentato alla Regina Maria Sofia un glorioso indirizzo, e furono imitate da altre dame francesi, inglesi, spagnuole e tedesche; e tutte mandarono indirizzi e doni degni di chi li dava e di chi li riceveva.
L'Imperatore d'Austria diede a Francesco II ed a' suoi fratelli conti di Trani e di Caserta l'ordine di Maria Teresa, che si concede solamente per insigni fatti di guerra.
Il Re di Baviera scacciò da Monaco il Doria, legato sardo, e ritirò da Torino il suo Ambasciatore. La Russia volle compensare l'ingrato abbandono del figlio di Ferdinando II tanto amico di quell'Imperatore, con un elogio nel Giornale Ufficiale, il quale dicea: «Giammai nessun Sovrano cadde più nobilmente; tal condotta lascia al vinto maggior prestigio e simpatia. Ei porterà seco il rispetto del mondo, che la posterità non ai soli vincitori serba le glorie sue; e quando Iddio colpisce i re non è sempre per castigarli.»Avrebbe potuto soggiungere: che solo per punirne il ciel sovente - uno scettro ne manda, una corona.Con questi belli elogi, quell'Imperatore credea forse sdebitarsi degli obblighi che avea contratti con Ferdinando II? La caduta di un trono legittimo, per opera della rivoluzione, che lo stesso Napoleone III riconoscea che la giustizia stava pel vinto, non impose che sole parole all'autocrate di tutte le Russie....!
Napoleone III, con la solita cicalata alle camere francesi, credette giustificare il richiamo della sua flotta da Gaeta, cacciando fuori quel famoso motto copritore di cupidigie e di assassinii, il non intervento.Intanto egli si avea già preso il prezzo dei suoi settarii tradimenti orditi a danno di Francesco II. Non contento dell'annessione di due province italiane, Nizza e Savoia, con un trattato del 2 febbraio di quell'anno, acquistò due città italiane Mentone e Roccabruna nel Principato di Monaco. Quelle due città se l'avea prese il Piemonte sin dal 1848. Il Principe di Monaco, della famiglia di Mantignon, che vantava i suoi diritti sopra quelle due Città, le vendette a Napoleone per quattro milioni di lire; e costui mentre ci annoiava e ci stordiva proclamando che la sola volontà popolare era fondamento d'ogni diritto, comprava come pecora sei mila cittadini italiani, annettendoli alla Francia, e Cavour approvava!
Per completare questo racconto, è necessario rivolgere uno sguardo sopra gli ultimi fatti guerreschi della Cittadella di Messina, e di Civitella del Tronto, ove ancora sventolava orgogliosa la bandiera delle Due Sicilie. Il sacrifizio della Patria era consumato; e quelle due bandiere nazionali che sventolavano solitarie a' due opposti confini del Regno, sembrava che protestassero contro quanto era fino allora avvenuto.
Il 14 febbraio il generale piemontese Chiabrera notificò al generale Fergola comandante la Cittadella di Messina la capitolazione di Gaeta, ed intimogli la resa a nome di S.M. V. Emmanuele, Re di tutta l'Italia, e conchiudeva dicendo:«Se la resistenza fin'ora fu tollerata, oggi è delitto.» Fergola rispose che si difenderebbe. Dopo tre giorni Chiabrera gli mandò una lettera di Cialdini, il quale, gonfio de' facili trionfi di Gaeta, minacciava bombardamenti, distruzioni e morte; e non darebbe quartiere ad alcuno se la guarnigione non si fosse subito resa. Fergola rispose che si renderebbe agli estremi, ed a seconda prescrivevano le Ordinanze di Piazza. I soldati accolsero questa risposta del loro Generale col solito grido di viva il Re. Due colonnelli, Ferrara e Mileti, uniti ad altri uffiziali fecero tumulto per isforzare Fergola a cedere la Cittadella, costui li cacciò via dalla fortezza; e cacciò pure il 1° Chirurgo Pietro Conte, e i due Cappellani Enrico Vigliena e Giuseppe de Simone, perché scoraggiavano i soldati. Altri uffiziali per codardia disertarono; tra i più noti i colonnelli Gabriele Vallo e Ferdinando Guillamat (ben diverso dal fratello Patrizio Guillamat), gli Alfieri Pasquale Cosentino e Salvatore Randazzi, il maggiore Papa, il capitano Gaetano Valestra Comandante il fortino, D. Blasco, e il maggiore di artiglieria Achille de Michele. Quest'ultimo sciagurato si offerse al Cialdini per dirigere una batteria contro la Cittadella, ma fu disprezzato e deriso.
Il 19 febbraio arrivò a Messina sulla Messaggeria francese il distinto e benemerito tenente di Stato maggiore, Luigi Gaeta, reduce da Roma, ove avea parlato col Re appena giunto da Gaeta. Fu ricevuto in trionfo dalla guarnigione della Cittadella, e l'entusiasmo de' soldati si accrebbe quando intesero che portava l'ordine di difendere quella piazza. Il Re avea affidato al Gaeta trentamila ducati in oro per portarli a Fergola.
La setta che circonda i Sovrani anche nell'esilio, sapea già tutto, e con una lettera misteriosa invitò il Gaeta o ad approfittarsi di quella somma, o ad incontrare il pugnale dell'assassino. Ma Gaeta, onesto ed animoso qual'è, sprezzò tutto e portò il danaro al suo generale Fergola.
La Cittadella di Messina resisteva pel solo onor militare, cosa potea sperare essendo esule il Re? Le condizioni di quella piazza erano pessime; era isolata da terra e da mare, con bastioni non più adatti a' nuovi mezzi di guerra; senza cannoni rigati, e con un ingombro di più di mille persone tra donne e ragazzi. Per maggior disgrazia si era accumulata in quella fortezza tutta la polvere portata da Palermo, Trapani, Girgenti e Catania, e le polveriere erano mal condizionate. I lavori del genio eransi trascurati, perché Ferdinando Guillamat e Vallo ordivano tradimenti.
L'ottimo tenentecolonnello Patrizio Guillamat, capo dello Stato Maggiore, e gli uffiziali Cavalieri, Lauria, Gaeta, Lamonica ed altri lavoravano giorno e notte per mettere la Cittadella in istato da poter prolungare l'assedio.
Il 27 febbraio, Cialdini arrivò a Messina carico di cannoni rigati, mortai, granate, bombe e Charaphenel; e conducendo seco tutta la flotta. Appena sbarcato cominciò ad alzare batterie contro la Cittadella sulla spiaggia Contessa. Il Fergola gli scrisse che ciò ostava alla convenzione fatta tra Clary e Medici. Cialdini, facendo uso di que' poteri che non hanno esempio nella Storia civile dei popoli, sconobbe quella convenzione e rispose a Fergola con la seguente lettera: «Debbo dirle, 1°: che sendo Vittorio Emmanuele proclamato Re d'Italia dal Parlamento, la condotta di lei sarà considerata ribellione; 2° Per conseguenza non darò né a lei né alla guarnigione nessuna capitolazione, e mi si renderanno a discrezione; 3° Se farà fuoco sulla Città, io farò fucilare (sempre fucilare!...) tanti uffiziali e soldati quanti saranno i morti in Messina; 4° I beni di lei e degli uffiziali saranno confiscati per rifare i danni de' cittadini;In ultimo consegnerò lei ed i suoi al popolo di Messina. HO COSTUME DI TENERE PAROLA. Fra poco sarete nelle mie mani; ora faccia come crede: io non riconoscerò nella S. V. un militare, ma un vile assassino e per tale lo terrà l'Europa intiera.Questa lettera non si può leggere senza fremere di orrore; tant'è, il secolo de' lumi e del progresso ha letta questa lettera scritta da un Generale ad un altro, il quale senza alcuna speranza di personali vantaggi, difendeva la patria bandiera per uniformarsi alle Ordinanze di Piazza e agl'inveterati usi di guerra. Cialdini, mentre si preparava a fulminare i Napoletani con le sue artiglierie collocate anche in Città, negava a costoro il dritto di difendersi. Egli minacciava confische e fucilazioni, se i proiettili della Cittadella avessero ucciso qualche cittadino; egli che avea detto in Gaeta, che le bombe non hanno occhi. Egli dice che è suo costume tener la parola, ma non la tenne quando nel 1866 strombazzò che sarebbe andato a Vienna, anzi fu il primo a salvarsi in Bologna. Abbiamo letto le proteste del La Marmora che l'accusava come causa dell'insuccesso di Custoza. È facile mantener parola ne' facili trionfi, ed incrudelire contro i vinti disgraziati e traditi. Ma tener parola col tedesco è un altro affare, si tratta di pelle! Il riconoscere poi in un gentiluomo, come Fergola, un vile assassino, e consegnarlo al furore de' bunachi Messinesi perché si difendeva, non fa certo il proprio elogio! L'intiera Europa civile non ritenne Fergola qual vile assassino, ma giudicò diversamente.
Il Generale Fergola mandò a' Consoli esteri quella lettera di Cialdini; e costui, che non temette né i contemporanei, né la Storia, stampò quella lettera, e per mezzo de' traditori fece spargerla nella guarnigione della Cittadella.
Si fece di tutto per fare uccidere il Maresciallo Fergola, il Tenente-colonnello Patrizio Guillamat e il tenente Gaeta; i congiurati furono arrestati, erano i Capitani Milano e Messina; ed è questo un altro mezzo morale de' rigeneratori. Ma non si riuscì, perché quel Generale e quegli uffiziali erano sinceramente amati da tutti i loro dipendenti. Fergola scrisse a' suddetti Consoli avvisandoli di porsi in salvo, dappoichè egli era costretto rispondere alle offese del nemico, e pregavali di abbandonare la Città in 24 ore.
I Consoli vollero una dilazione; Fergola rispose loro che condiscenderebbe volentieri, purché il nemico non facesse fuoco contro la Cittadella; Cialdini si negò.
Il tenente-colonnello Guillamat, il più attivo ed operoso tra tutti i fedeli uffiziali della Cittadella,
per supplire al lungo tiro de' cannoni rigati che non avea, prese quattro colobrine da 24, le collocò in batteria dando loro una elevazione di 42 gradi; ed usò le spolette tolte alle bombe, che inumidite, duravano per 45 secondi: e così i proiettili oltrepassavano più della metà il tiro ordinario.
Cialdini dal canto suo facea costruire batterie dentro Messina, e pretendea che Fergola si astenesse di controbatterle! Tra Fergola e Cialdini vi fu uno scambio di lettere. Costui alle ragioni di quello rispose con un poco di pacatezza, e di gentilezza. Ergeva pure altre batterie al Noviziato ed a Montesanto. La Cittadella aperse il fuoco alle 2 pomeridiane dell'otto marzo al suono dell'inno borbonico. Ma visto che non tutti i proiettili giungevano al segno, si proseguì a far fuoco co' cannoni di più lunga portata. Montesanto e il Noviziato soffersero gravi danni e quest'ultimo prese fuoco. A sera i colpi della Cittadella si rallentarono, perché i vecchi affusti si erano già danneggiati, e senza speranza di potersi rifare. Le casematte delle opere esterne già crepolavano, onde fu necessità non usare più i mortai. Contro Messina non si fece fuoco, essendo vano molestare gl'innocenti, maggiormente che la Cittadella lottava per esaltare soltanto l'onor militare.
Il 12 marzo, Cialdini smascherò tutte le sue batterie: avea, oltre i mortai, circa cento cannoni rigati di grosso calibro, cui non si potea controbattere perché fuori tiro. A quell'attacco fu prodigio che le polveri della Cittadella non iscoppiassero tutte, e riversando in parte il fabbricato di questa sopra Messina! Diverse piccole polveriere presero fuoco e già minacciava saltare in aria anche la gran riserva della polvere. I soldati smorzavano gl'incendii, e non bastando le pompe, recavano l'acqua a mano. Il forte D. Blasco fu abbandonato perché era mezzo distrutto. Tutta la Cittadella era avvolta di fumo e di fiamme, in poche ore eranvi state lanciate migliaia di proiettili.
Circa le ore 6 pomeridiane di quel giorno 12, gli assediati issarono bandiera bianca, e dopo mezz'ora il fuoco nemico rallentò. Chiesta tregua per ismorzare gli incendii, ed estrarre i soldati interrati sotto le macerie, Cialdini rispose al generale de Martino: «No, rendetevi a discrezione o seguito. Il fuoco distruttore v'investe; non potete altro, rendetevi a discrezione.»
Radunatosi il consiglio di difesa, e considerando che l'onor militare era salvo, e che sarebbe ormai dannosa ed inutile ogni ulteriore difesa, consigliò quindi cedere e cedette.
Cialdini dettò la capitolazione, la quale nell'ultimo articolo dicea: «La roba e le persone saranno rispettate sotto la guardia della bandiera di Vittorio Emmanuele.» Intanto tollerò che si depredassero e saccheggiassero diversi alloggi delle famiglie de' militari.
Il Generale Fergola diede alla guarnigione della Città il seguente ordine del giorno: «Soldati! Addio, la sventura ci divide; fede e lealtà fu la nostra divisa, resti eterna, scolpiamola ne' cuori; essa ne unisce indissolubilmente al nostro infelice ed eroico Sovrano.
Il mattino seguente, Cialdini si recò in mezzo a' vinti, per meglio godere del suo trionfo, e, inconseguente a sè stesso, non tenendo conto dell'ultimo articolo della Capitolazione da lui dettata, volle che si recasse a sè innanzi il capo dello Stato maggiore tenente-colonnello Patrizio Guillamat, appena vedutolo, a modo poliziesco gl'intimò l'arresto. Costui volea consegnargli la spada, Cialdini la respinse dicendo: la sua spada non merita l'onore che io la tocchi. Dovea dire l'onore ecc.
Cialdini, cinto di un esercito, insultava il fedele e prode uffiziale, e dichiarava disonorata la spada di costui, perché fedele al suo sovrano, e che da prode ed intelligente avea diretta la difesa! Ma son cose che non hanno riscontro alcuno nella storia de' popoli civili: era riservato ad un Generale piemontese invertire il senso materiale e morale d'ogni nobile guerresca usanza.
Cialdini ordinò l'arresto di altri quattro uffiziali, cioè di Brath, Gaeta, Cavaliere e Gulli, perché più distinti per intelligenza e decisa bravura. Tutti furono messi in secreta, e lasciati digiuni: ed è anche questo un uso de' governanti piemontesi: disgraziatamente, io lo provai...!
Gulli era stato arrestato per isbaglio, fu messo in libertà, ed in sua vece fu messo in secreta Falduti.
Si accusavano que' cinque uffiziali, e principalmente Guillamat e Gaeta, aiutante di campo di Fergola, di avere coartata la volontà di costui a non cedere. Gli accusati fecero intendere, non essere nel consiglio di difesa, ma se vi fossero stati, avrebbero consigliato sempre di cedere secondo le Ordinanze di Piazza, cioè agli estremi, essendo questo l'obbligo di un militare onorato. Gli uffiziali detenuti furono vilmente insultati dalla canaglia accorsa da Messina, e da alcuni vili uffiziali napoletani disertori. Più di tutti si distinse l'uffiziale Salvatore Grasso del 5° di linea; dicendo pure parole triviali contro Francesco II; e così credeva ingraziarsi i novelli padroni.
I cinque detenuti furono gentilmente visitati da parecchi uffiziali piemontesi, e tra gli altri dal maggiore Bianchi e dal generale Chiabrera; intanto essi si aspettavano da un momento all'altro di esser fucilati, e tranquilli attendevano la loro sorte.
Si riunì il Consiglio di guerra per giudicare i cinque uffiziali, e il 21 marzo fu deciso non esservi luogo a giudizio. Meno male! Se avessero condannato quegli onorati e valorosi militari, fucilandoli, si sarebbe detto che quello era un atto di giustizia de' rigeneratori dell'ordine morale!Mentre la guarnigione della Cittadella s'imbarcava per Napoli, il 15 marzo arrivava una nave francese, con un uffiziale generale di Francesco II, che recava l'ordine di cedere la Cittadella. Quel Sovrano in esilio pensava all'avvenire de' suoi fedeli. Esso, in Roma, per mezzo dell'Ambasciatore francese, avea ottenuto che i patti della Capitolazione di Gaeta valessero pure pe' difensori della Cittadella di Messina. Intanto Cialdini tenne captivi, e sotto giudizio sino al 21 i cinque uffiziali, e forse li avrebbe sommariamente fucilati, se il Re Francesco non avessi ottenuti que' patti, i quali valsero a porre in salvo anche gl'impiegati civili rifugiati nella Cittadella.
Resisteva ancora Civitella del Tronto, ove sventolava la bandiera delle Due Sicilie. Quella Piazza potea sostenersi a lungo, come si sostenne con pochi veterani a' tempi dell'ultima invasione francese, comandandovi il maggiore Wade; ma erano avvenuti altri cambiamenti. Il colonnello Giovene, comandante di Civitella, che si era condotto tanto bene, intesa la capitolazione di Gaeta, conchiuse patti onorevoli col nemico: patti che il presidio di truppa interrogato sotto le armi, unanime accolse. Però la notte del 15 al 16 Febbraio fra Leonardo da Campotosto, ebbe la cattiva idea di credere non esser vera la resa di Gaeta e subillò quindi prolungare la resistenza.
Giovene ebbe scienza che, presa una volta la fortezza, sarebbe fucilato, ed intanto la sua famiglia a Napoli resterebbe in ostaggio. Essendo uomo di onore pensò presentarsi al nemico, con parte della guarnigione e dar conto dell'impegno contratto. Dal campo degli assedianti scrisse al tenentecolonnello Ascione, che restava nella Piazza, avvertendolo, che la guarnigione di Civitella sarebbe stata dal nemico considerata fuori legge, e lo consigliava quindi a cedere. Questa lettera era accompagnata da un'altra del generala Pinelli, il quale, al solito, minacciava devastazioni, ruine e fucilazioni se la guarnigione non si fosse resa a discrezione. Ascione e Salines aderirono per la resa, ma gli altri uffiziali si opponevano, e principalmente Santomarino che avea preso il comando di Civitella. Anche i soldati, e i paesani reazionarii abborrivano di arrendersi, e sospettosi dormivano sopra le batterie.
Quella Piazza respinse parecchi altri assalti con grave perdita degli assedianti.
Re Francesco, da Roma, per mezzo del generale Giovambattista della Rocca accompagnato da uno uffiziale francese, mandò l'ordine di cedere Civitella del Tronto avendo ottenuto che i patti della Capitolazione di Gaeta valessero pure per la guarnigione di quella Piazza. Sorsero allora diversi pareri; alcuni attaccavano come falso l'ordine sovrano, e i paesani si opposero alla resa. Intanto, la sera del 20 marzo, mentre i soldati stavano divisi per la case, Ascione, che temea di essere ucciso, occultamente scalò le mura, fece aprire porta di Napoli ed introdusse nella Piazza i Piemontesi comandati dal generale Mezzacapo uffiziale disertore dell'esercito napoletano sin dal 1848 e successore di Pinelli. Mezzacapo appena entrato cominciò a fucilare senza neppure le forme de' giudizii sommari. Prese trentadue militari e li arrestò, e molti paesani che aveano consigliata e sostenuta la difesa della fortezza. I primi ad essere fucilati furono Massinelli e Supino perché denunziati da Ascione.
Fu arrestato Santomarino che avea funzionato da comandante della Piazza, e ricevette insulti e trapazzi indicibili; si arrivò persino a strappare le vesti e gli orecchini alle sue figliuolette. Fu condannato a morte assieme ad altri militari, e per intercessione dell'uffiziale francese, non fu immediatamente fucilato, ma invece ebbe commutata la pena in 24 anni di ferri. Condotto a Savona, ove cercò di fuggire, fu trucidato; e lasciò giovine moglie e cinque infelici orfanelli!
I Piemontesi non si davano pace perché non trovavano nella Piazza frate Leonardo Zilli da Campotosto, il subillatore, de' minori Osservanti; avendo però promessa la vita ad alcuni artiglieri costoro designarono un forno ov'era ascoso il povero frate; preso, già s'intende, fu fucilato immediatamente! Mezzacapo telegrafò che Civitella si era arresa dopo quattro giorni di combattimento, indi disse che l'avea avuta per dedizione: doppia spudorata menzogna!
Il colonnello Giovene, che si era fatto onore con la sua condotta militare, fu accusato ingiustamente di reazionario, quindi arrestato e mandato a Torino a piedi e co' polsini di ferro come l'ultimo de' malfattori, e tenuto in carcere fino al 17 gennaio 1862. Le patite sciagure sono pertanto una gloria per esso, e né si obblia la bella condotta militare da lui serbata.
Ecco qual conto facevano i piemontesi delle capitolazioni, e come trattavano gli onorati e valorosi militari napoletani: e quanti di questi li vediamo anche oggi stendere la mano e chiedere la elemosina! Qualche lettore un poco liberale, dirà: ma furono però ben trattati i militari patrioti che aiutarono la causa nazionale, e quelli che cooperarono in tutti i modi alla caduta de' Borboni, insomma, per chiamarli col loro nome, tutti i disertori e i traditori: niente affatto. In effetti tutti gli uffiziali traditori tenendosi poco compensati dal Ministero italiano, in marzo 1861 ricorsero al Parlamento, e in un Memorandum svelarono tutti i tradimenti e le iniquità che aveano perpetrate a danno del Re e del trono di Napoli. Il Ministero, tra le altre accuse che lanciò contro gli uffiziali disertori e traditori, disse: «Che non essendovi esercito in Napoli, il Piemonte non volea unire il suo col residuo di quello, ma ingrandirlo, che però chi vuole entrarvi deve accettare le condizioni. Che avendosi a scegliere credonsi migliori gli uffiziali di Capua e Gaeta, che quelli rimasti in Napoli, i quali MANCANDO AL GIURAMENTO, si erano col mantello della patria tenuti al sicuro, lontani dalla guerra.Il Ministero italiano rese giustizia agli uffiziali di Capua e di Gaeta con questa dichiarazione, ma lo fece per umiliare e sconfessare i vili e i traditori, in risultato poi li lasciò nell'abbandono, mostrandosi al disotto d'ogni tiranno, perché ha condannato alla miseria ed alla fame tanti onorati e valorosi militari.
A causa del Memorandum degli uffiziali disertori e traditori, in dicembre 1861, nel Parlamento avvenne scandalo. Il deputato Nicotera attestò che avea avuta promessa dal Comitato di Potenza che gli uffiziali patrioti avrebbero avuto maggiore stipendio. Al contrario il Generale Gugia osservò che gli uffiziali disertori e traditori eransi promossi da sè sino a tre gradi di più di quello che aveano. Il deputato relatore provò che i reclamanti si erano tenuti lontani da' rischi della guerra. I deputati indegnati ed inorriditi dell'impudenza de' traditori, e della cinica ingratitudine di chi dovea difenderli e retribuirli, invece di deliberare, lasciarono i seggi ed andarono via. E quei Giuda invano chiesero i trenta danari, e buona parte restarono svergognati e miserabili. L'Europa però conobbe come fu detronizzato Francesco II.
Il Reame di Napoli non cadde per armi garibaldine o piemontesi, ma per arti settarie aiutate dalla fredda vendetta del nefasto Napoleone III. I Borboni di Napoli caddero non per quello che ad essi s'incolpa, cioè il mal governo e la tirannide; ma caddero perché non punirono i traditori, e non seppero premiare, e secondare gli sforzi degli uomini devoti e fedeli alla dinastia. I settarii vendettero Ferdinando IV di Borbone a Bonaparte, perdonati e carezzati nel 1815, prepararono la rivoluzione
militare del 1820. I disertori e traditori riuniti a Monteforte dettarono la legge al Sovrano. Al 1821 invece di essere puniti per tutto quello che aveano fatto l'anno precedente, furono perdonati: e Ferdinando II al 1830 li chiamò all'esercito ed al potere. Parte di essi prepararono la rivoluzione del 1848, non riuscita, furono perdonati. Proseguirono a congiurare per preparare l'altra rivoluzione del 1860, che loro riuscì maravigliosamente, perché aiutati da governi esteri, e principalmente dal crimine coronato.
Qual bene ci han recato le rivoluzioni dal 1789 sin'oggi? Leggendo gli avvenimenti di questo terribile periodo storico che abbraccia 86 anni, la mente resta sbalordita ed atterrita dal sangue sparso a fiumi, da tradimenti inauditi, da città saccheggiate ed arse, da regni debellati, ammiseriti, e ridotti nel più degradante servaggio, da carneficine degne di cannibali, da tributi imposti che assorbono tutta la ricchezza del suolo e la fatica del popolo, e finalmente dalla miseria sempre crescente, causa della depravazione popolare, e da uno stato precario che, arrestando il commercio, lascia in forse la pace, e minaccia ogni momento lo scoppio di una guerra europea!
Si dice da alcuni che le rivoluzioni han recato del bene; ciò è assolutamente falso. Tutto quello che i popoli hanno acquistato dal 1789 in poi, non è una conseguenza delle rivoluzioni, o de' governi detti liberali, ma la conseguenza del naturale progresso dei tempi. Leggete il primo libro della storia d'Italia dal 1789 al 1814 del liberalissimo Carlo Botta, e troverete che tutti i Principi d'Italia, sin dal cominciare del secolo passato, si erano messi sulla via del vero progresso, e su quella delle necessarie riforme che i tempi richiedeano; ed a capo di tutti Carlo III di Borbone sin dal 1734.
Io non son partigiano di alcuna forma di governo, ma solamente del vero benessere de' popoli, e dell'illimitato rispetto alla religione de' padri nostri, cioè alla Cattolica apostolica romana. Giovanetto mi aveano fatto credere che la rivoluzione contro la monarchia era il sana totum delle piaghe sociali: e siccome non mancano mai i sovvertitori della morale e de' buoni principii della gioventù, costoro mi fecero leggere gli storici italiani e francesi, specialmente Botta, Colletta e Thiers; e per esaltarmi la fantasia, mi posero fra le mani Y assedio di Firenze del Guerrazzi. Quegli autori alla prima lettura m'infiammarono di ardore liberalesco; ma avendoli riletti con più attenzione e riflessione, cominciai a scoprire la parte debole e velenosa.
Non trovavo in quelle storie alcun bene reale arrecato a' popoli dalle lodate rivoluzioni; al contrario ad ogni pagina m'imbattevo in fatti atrocissimi perpetrati da' rivoluzionarii, nel tempo stesso che si proclamavano progressisti ed umanitarii. Costoro predicavano libertà e la voleano per essi solamente; pel popolo, che diceano redento e sovrano, decretavano stati di assedio, giudizii sommari e carneficine. Predicavano eguaglianza, e formavano della caste in apparenza democratiche, in realtà peggio di quelle del Medio-Evo, già distrutte dagli stessi Monarchi. Proclamavano indipendenza e s'inchinavano allo straniero, dandogli dominio di spogliare la patria delle sue ricchezze, de' suoi capolavori d'arte, e manomettere la religione e il Sommo Pontefice ch'è la vera gloria d'Italia.
Infine predicavano il benessere e la felicità de' popoli, e li riducevano in uno stato di continua angoscia e desolante miseria. Quegli autori citati di sopra, mentre innalzavano alle stelle il principio rivoluzionario, sono costretti a raccontare tutti gl'infiniti e terribili mali che da esso principio conseguitano: neanche resta risparmiata la libertà del pensiero! I governi rivoluzionarii ci scaraventano da progressisti la istruzione obbligatoria, imponendo alla gioventù di apprendere ciò che emana da massime inique e perverse, che le indurisce il cuore a nobili ed umani sentimenti; e dagli scandali e da' vizii, passa alle colpe, al suicidio! Sotto il potere rivoluzionario non esiste più famiglia, il governo assorbe tutto. I genitori dopo che han cresciuto con tanto amore e tante cure i figli, appena costoro possono essere di qualche sollievo, debbono inesorabilmente divenir soldati. La stessa Chiesa è privata de' suoi Leviti! Il proprietario non è più padrone delle sue sostanze, ma diviene un fittaiuolo del governo. Il negoziante oltre di essere tassato in tutte le sue operazioni commerciali, è vessato da una molesta ed illogica burocrazia. Col trovato della ricchezza mobile, si tassa pure l'artigiano, la intelligenza e le fatiche dello scienziato e dell'uomo di lettere. A tutti questi mali aggiungasi che non vi è sicurezza pubblica, ma continui affanni di un avvenire peggiore, lotte ed anarchia...! Per la qual cosa conchiudo con ripetere le celebre sentenza del liberale Montesquieu: cioè
Che fece a Roma più danno una notte di repubblica degenerata in anarchia, che tre secoli d'impero degenerato in tirannide.
Il gran fatto è compiuto; il Carnevale d'Italia è già finito; la pioggia di cenere caduta sul nostro capo è stata molta e scottante; tutto ha consumato anche il dolore! Invano ci han lasciato gli occhi, la sorgente delle lagrime è oramai esausta. Ohime! chi l'avrebbe mai detto tre lustri addietro che ci avrebbero anche tolto il conforto degl'infelici?
Che ci resta a temere? Nulla. Che resta a sperare? Tutto. Oh! la speranza.... non è dessa la cortigiana della vita, né i popoli possono morire con la morte degl'individui, come fantasticò uno scettico moderno ne' suoi delirii rivoluzionarii. Oh! la speranza.... è dessa la prima che al fonte battesimale sorride a' genitori pel figlio; è dessa che ci dà l'estremo amplesso sul letto di morte per attenderci al di là della tomba. Non temete: la vita de' popoli è immortale. Quel Dio che atterra e suscita - che affanna e che consola; quel Dio che rivolse uno sguardo di compassione super flumina Babylonis; Colui che fingeva dormire nella mistica navicella quando infuriava la tempesta, che rimproverò a' pusillanimi e agli uomini di poca fede il temuto naufragio, o è svegliato o tosto si sveglierà, e dirà anche a voi: modica fidei quare dubitasti? Rivolgetevi ad occidente, ibi veniet redentio vestraAddio lettori...! io mi distacco da voi non senza pena. Perdonatemi, ve ne supplico, se vi avessi annoiato o scandalezzato in qualche cosa: credetemi, non era questo il mio scopo. Debbo però dirvi, che i principii miei non li sottometto ad alcuna potenza umana; ma riverente mi prostro nella polvere, e mi sottometto in tutto all'infallibile giudizio della Chiesa cattolica apostolica romana, fuori la quale non vi è salvezza. Una preghiera vi porgo pria di lasciarvi, e son sicuro che sarà bene accolta:
colui che ve la dirige ha già canuti i suoi capelli, non dagli anni ma dalle sofferte sventure. Io vi supplico, dunque, miei cari lettori, di conservare e trasfondere nei vostri figli o dipendenti le buone tradizioni delle vostre famiglie. Soccorrete, difendete, amate la Cattedra del Sommo Piero, l'unico bene che ci resta in tanti mali: vi assicuro che di ciò non vi pentirete giammai, anzi sarà di gran conforto nelle vostre ore estreme. In quanto a me nulla chiedo dagli uomini, ma spero dal misericordiosissimo Iddio, che mi faccia vedere pria di morire felice la nostra cara patria, e l'immancabile trionfo della Chiesa Cattolica.

FINE
 
(Estratto dal libro di Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta).