La storia è stata ingiusta con Vittorio Barzoni.
Pochi, forse pochissimi, ricordano il suo nome che pure ebbe un momento notorietà europea, e anche più rari sono gli studiosi che hanno scorso le pagine ingiallite dei suoi scritti, diffusi e commentati in quattro e cinque lingue, proscritti od esaltati dalle opposte fazioni, letti con interesse da sovrani e ministri, e ora sepolti nella dotta polvere di qualche biblioteca di provincia.
Eppure al focoso polemista lombardo che non piegò dinanzi al gran Napoleone ed esule orgoglioso e inabbattuto, esercitò vent'anni l'aspro ingegno e la penna pungente ed affilata contro l'influsso delle idee francesi, giacobine o imperiali; non dovrebbero mancare l’omaggio e la simpatia dei nepoti, finalmente — e per sempre — liberati dal contagio ideologico straniero.
Bella figura di italiano vivo — quella del buon Barzoni — sprezzatore degli idoli e dei feticci di oltralpe, attaccato alle nostre tradizioni sociali e religiose, coraggioso, sincero e indipendente nelle idee e nei giudizi.
Spirito insofferente e battagliero, servito da una vasta erudizione e da un dritto realismo subalpino su cui non hanno presa le nebbie ginevrine e ugonotte; tenace nei rancori e negli affetti, fu un vero "moschettiere della penna", simile al Rivarol per molti aspetti del suo temperamento di scrittore.
Ma — ripeto — italiano fino all’osso e misogallo non meno dell'Alfieri, senza però le ubbie repubblicane del nobile Astigiano.
La sua vita, agitata e avventurosa, in mezzo alle fazioni e agli intrighi politici fu sempre rettilinea e intemerata; non ebbe debolezze, pentimenti o incertezze, e oppose alle blandizie e alle minacele dei potenti del giorno lo scudo impenetrabile di una serena coerenza.
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Nacque a Lonato, sul territorio bresciano, il 17 dicembre del 1767, da famiglia borghese benestante, assai stimata per gli uomini di chiesa e i magistrati che l’avevano illustrata negli ultimi centralini, elevandola quasi sulla soglia dell'ordine patrizio.
Nei forzieri paterni non mancavano le doppie e gli zecchini e agli studi del giovane Vittorio, destinato alla toga ed alla Curia, per accrescere il lustro del casato, fu provveduto con larghezza insolita a quei tempi e in quel ceto.
Fanciullo ebbe maestri e precettori, senza uscire dalla casa famigliare; giovinetto fu messo in collegio a Verona, dove seguì la scuola di retorica ed ebbe campo di perfezionarsi nelle lettere classiche e italiane; adolescente fu mandato a Padova per addottorarsi in diritto.
Ma le scienze legali non erano campo adatto per il suo ingegno fervido e irrequieto e, appena conseguito il diploma di laurea, si diede a coltivare con amore le discipline storielle e sociali.
Erano di moda gli Enciclopedisti e quasi tutta la gioventù colta pensava e ragionava "alla francese", diffondendo e illustrando nei cenacoli, nei caffè e nei salotti, le teorie ugualitarie e giusnaturaliste e il nuovissimo credo umanitario fiorito sulle rive della Senna.
Pochissimi sapevano resistere all'andazzo e non condividevano l'universale entusiasmo. Tra questi presto si schierò il Barzoni che dall'osservazione delle vicende storiche e dall'attento esame della natura umana, nelle sue più spontanee inclinazioni, aveva tratto i solidi elementi di una dottrina opposta a quella democratica. Giovane d'anni ma già fatto esperto delle passioni e dei vizi delle plebi, non credeva agli impulsi virtuosi degli uomini ed alla loro libertà nativa e sosteneva che i vincoli sociali — senza i quali si cade nel caos dell'anarchia — vanno imposti dall'alto e non fondati sul libero consenso delle parti. "Quando si parla di governo — scriveva — non sentendo trattarsi già di una istituzione che soavemente inviti gli uomini ad amarsi più di quello che si amino, ma di un tenace morso che li tenga in freno perché non si insidino necessariamente la vita e non si scannino".
Visione, se volete, pessimista e meno seducente ed idilliaca di quella rousseauniana, ma quanto più vicina alla realtà dei fatti!....
Non che il dominio veneto, sotto il quale era nato, gli sembrasse il migliore dei governi, decaduto com’era di forza e di splendore, ma insomma aveva per sé tutto un passato di alte glorie civili e militari; era fondato su una tradizione pressoché millenaria: aveva per molti secoli tenuto alto il prestigio della gente italiana in faccia al mondo; serbava ancora agli occhi dei suoi sudditi alcuni raggi dell'antica aureola.
D'altra parte, l'orribile spettacolo offerto dalla Francia rinnovata, non era tale da essere preso ad esempio da un popolo tranquillo e religioso, che dal giogo bonario dei suoi vecchi signori non si era mai sentito angariato od oppresso; senza contare che le schiere galliche che dovevano venire a liberarci, non sembravano disposte a lavorare per i nostri begli occhi: gli Immortali Principi erano il paravento che copriva le brame di conquista dei nepoti di Brenno.... Per l'Italia la smania giacobina non poteva segnare che un regresso, interrompendo l'opera iniziata dai principi nostrani e dai loro più illustri consiglieri, a Napoli, in Toscana, nei Ducati, senza bisogno di violente scosse e di crisi cruente, sotto l'usbergo di un assolutismo paterno e illuminato.
La Rivoluzione feriva poi nel Barzoni anche il cattolico convinto e dichiarato, che nel credo romano e nella Chiesa scorgeva il più efficace sostegno degli Stati e la base precipua dell'ordine morale; perciò egli prese subito il suo posto nel campo dei "marcheschi" antifrancesi e si fece conoscere, con un violento opuscolo, che fu stampato nel '94 e intitolato Il solitario delle Alpi, nel quale scongiurava gli Italiani a respingere le dottrine e le armi giacobine.
E una requisitoria appassionata contro la ideologia repubblicana e i nuovi ordinamenti democratici, che si volevano importare fra noi.
Vi si trovano in germe ed allo stato di abbozzo molti spunti polemici e teorici che furono più tardi ripresi e sviluppati dal De Maistre e dagli altri maggiori reazionari.
Il Barzoni non crede all'efficacia delle costituzioni filosofiche studiate e congegnate a tavolino e fondale sull'equilibrio dei pubblici poteri. Per lui la miglior forma di governo è quella che avendo le proprie radici nel tempo, è più conforme alla natura di un popolo, ai suoi bisogni, alle sue condizioni e ai suoi costumi; e senza fare astratte questioni di diritto, si ispira all'esperienza della storia che condanna i governi popolari.
"Non voler cercare una soverchia perfezione nei governi — esclama a un certo punto — e rifletti sovente che le costituzioni sono fatte dagli uomini, e che un paese nel quale comandino sempre le sole leggi, è un paese metafisico....
Pensa che quando i cittadini godono sulla terra quella discreta somma di benessere sociale che loro deriva dalla sicurezza della vita, dell'onore e della proprietà, il pretendere di più è lo stesso che cercare l’impassibilità della morte, perché la vita è piena di patimenti indistruttibili... ".
La tirannia dei governanti e la licenza dei sudditi, sono meglio infrenate dai pubblici costumi, dalla morale tradizionale, e dalle consuetudini, che dai codici scritti, ed uno dei maggiori errori democratici è appunto quello di credere che "una tabella di astratti diritti" possa dar norma alla vita di un popolo.
Giacché "questa moderna esaltazione dei diritti della moltitudine e degli infallibili suoi doveri è una chimera....; la verace volontà nazionale, in ultima analisi non è e né può essere, che la stessa giustizia, la quale non è mai stata la virtù connaturale delle assemblee popolari". E aggiungeva che "essendoci negli uomini una disuguaglianza evidente di facoltà fisiche, morali, civili e politiche, torna estremamente difficile che possa esservi tra di essi un eguale esercizio dei rispettivi loro diritti...."; che "non vi sono mai stati comizi esenti dall’ambizione, dalla corruzione e dalla violenza...."; che "i deputati di un governo democratico sempre abusarono del potere ad essi affidato...."; che "la moltitudine ha sempre servito, ora ad un Marat che seppe adularla con vili bassezze, ora ad un Robespierre che la soggiogò col terrore, ora ad un Orlèans che la corruppe col danaro, ora ad un Cesare, che seppe entusiasmarla col fragore delle sue vittorie, ora ad un Demostene che la trascinò coli impeto della sua voce e coi fulmini della sua eloquenza....".
"Fa che dispariscano per un momento da qualunque impero il Governo, la Forza, la Religione, le Civili Istituzioni, tutti quei vincoli che incatenano i popoli, e tu vedrai in un lampo i poveri alzarsi contro i ricchi, spogliarli e scannarli; quei che sono governati trucidare i loro governatori; le corporazioni urtarsi e reciprocamente distruggersi; l’idiota uccidere l’uomo di genio, per il solo delitto di esser tale; il malvagio dar la cicuta alla persona dabbene perché fin tacendo gli rimprovera la sua malvagità; tutte le passioni sboccare, venire alle prese e inondare di sangue la terra....
"Questo è il carattere delle popolazioni, sciolte da tutti i vincoli sociali ed abbandonate al cieco furore delle loro passioni!...".
Il Solitario delle Alpi andò a ruba, e tradotto in più lingue, e ristampato in diverse edizioni, rese noto l'autore in patria e fuori, ponendolo alla testa del partito, che — contro l'abulia dei reggitori, preconizzanti la neutralità disarmata — voleva che Venezia si alleasse con gli altri stati italiani, per tenere testa alla immancabile invasione dei rivoluzionari francesi.
È noto come andassero le cose e come due anni dopo, i nostri redentori passassero le Alpi e travolgessero l'eroica resistenza piemontese, dilagando nel piano e sconfiggendovi, sotto la guida del futuro Cesare, gli eserciti imperiali.
Il territorio veneto fu invaso, e in tutte le città di Terraferma cominciarono a nascere sommosse, volute e fomentate dai Francesi per far trionfare la democrazia senza che da Venezia si pensasse a reagire.... Invano i montanari delle alte valli bresciane e i bravi popolani veronesi insorsero e pugnarono da prodi nel nome venerato di S. Marco: non sostenuti ed anzi sconfessati dai dirigenti veneti, furono facilmente sottomessi.
La Serenissima cadde per la propria viltà e l'altrui frode, ma Vittorio Barzoni rimase sulla breccia, fondando una gazzetta che chiamò L'Equatore e che cominciò a pubblicare proprio il 16 Maggio del 1797, giorno dell'entrata delle truppe francesi in Venezia. Era un foglio satirico e mordace che attaccava con foga le idee nuove e non lasciava requie ai demagoghi.
"Il genio della Democrazia — scriveva il giornalista improvvisato, con amara ironia — è disceso dalle nuvole su questa bella parte di Europa, con le tavole dei Diritti dell'Uomo nella sinistra e lo staffile nella destra..... Il metodo ordinario è di istituire a colpi di sciabola e di cannone il vangelo della libertà e di sacrificare l'universo a delle frasi costituzionali...".
Il coraggioso foglio subì vari sequestri, e finalmente non poté più uscire.... Fu allora che il Barzoni osò dare alle stampe un fierissimo scritto intitolato "Rapporto sullo stato attuale degli stati liberi d'Italia e sulla necessità che siano fusi in una sola Repubblica", nel quale esortava il Generale Buonaparte a provare la sua sincerità liberatrice, unendo tutta Italia sotto un solo governo, indipendente da ogni tutela straniera.... Il coraggioso opuscolo fu un vero avvenimento, e provocò polemiche, dispute e rappresaglie.... L'autore ebbe un alterco violentissimo col Villetard, segretario dell'Ambasciata francese, nel Caffè delle Rive, sotto le Quarantie, e fu costretto a fuggire da Venezia per sottrarsi all'arresto.
Si rifugiò in Toscana e vi rimase, chiuso nella Abbazia di Vallombrosa, a meditare e a scrivere, alcune settimane, fino all'ottobre dello stesso anno, quando Venezia, venduta a Campoformio, fu data dai Francesi agli Imperiali. Tornatovi, e rientrato nell'agone, pubblica un nuovo libro di battaglia: i suoi Romani in Grecia.... Con una allegoria assai trasparente dipingeva gli eccessi e le rapine commessi dai Francesi, col pretesto di togliere dai ceppi gli Italiani e si scagliava contro l'oppressione imposta all'ombra del berretto frigio.... Anche questo lavoro ebbe un grande successo, e si diffuse in tutta Italia; "Ne riceveva molta molestia il Generale Buonaparte — scriveva il Botta — e ne ricercava per ogni dove l’autore e le copie: ma più il perseguitava e più era letto". Se ne fecero quindici edizioni e fu tradotto in francese, in inglese, in tedesco e in spagnolo....
Sempre a Venezia, nel '99, il fecondo e instancabile lombardo pubblicò un libro di Colloqui civici, e Le Rivoluzioni della Repubblica Veneta, e, un anno dopo, Le Rivoluzioni della Repubblica Francese; tutti lavori storico - polemici nei quali ribadiva le sue vedute politiche e sociali.
Verso la fine del 1801 andò a Vienna dove fu accolto con viva simpatia nel mondo letterario e aristocratico, e divenne ben presto l'ornamento dei salotti più chiusi e inaccessibili.
Quel modesto avvocato di provincia, portato dagli eventi alla ribalta della vita politica europea, aveva l'eleganza e la disinvoltura di un gran signore nato; e il Principe di Schwartzenherg, il Conte di Stadion, l'Ambasciatore russo Rassumowsky, lo ammisero alla loro confidenza, mostrando di tenerlo in alta stima.
L'Ambasciata di Francia vedeva di malocchio l'attività dell'esule italiano che punzecchiava con i suoi discorsi la nuova dittatura consolare, e ne chiese lo sfratto dagli Stati Imperiali. Il Gabinetto austriaco fu costretto a inchinarsi, e il Barzoni dovette prepararsi a partire.
L'Ambasciatore inglese che ben lo conosceva, e ne apprezzava l'energia e l'ingegno, gli offrì la protezione di Sua Maestà Britannica e i mezzi di riprendere la lotta contro Napoleone, ed egli non mancò di approfittarne, trasferendosi a Malta per fondarvi un giornale destinato a combattere in Italia l'influenza francese. Fu L’Argo, che durò per circa un anno, fino al Dicembre del 1804, e che dopo una breve interruzione fu trasformato nel Cartaginese, il quale poi a sua volta prese il nome di Giornale politico (l808) e in ultimo "di Malta" (1812).
Durante il suo soggiorno nell'isola fenicia scrisse per conto del Governo inglese una nota polemica sulla rottura del Trattato di Amiens e, alcuni anni più tardi, un Manifesto per incitare il popolo spagnolo a sollevarsi contro l'invasore, che tradotto e diffuso a profusione nella regione iberica, non fu l'ultima causa dell'aspra resistenza la quale inferse un così duro colpo alla compagine dell'Impero francese.
Da Malta l’implacabile Barzoni, — il quale aveva con Napoleone un vero e proprio fatto personale, — spediva agli Spagnuoli, insieme ai manifesti, armi, danaro, munizioni e consigli; valendosi dei fondi che il Gabinetto di Londra aveva posto a sua disposizione: era l'anima di ogni iniziativa diretta contro il grande Usurpatore, e la causa dell'ordine europeo l'ebbe sempre fautore zelante ed entusiasta, anche nell'ora delle defezioni e del dubbio, quando il Corso fatale sembrava onnipotente.
Nel figlio di Letizia scorgeva — non a torto — l'erede e lo strumento della Rivoluzione, l'antitesi vivente del principio monarchico tradizionale e legittimo; e ancor più un Italiano rinnegato che aveva ridotto la Patria in vassallaggio, sotto una lustra di vane autonomie.
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Dopo il trionfo della Coalizione e la caduta del suo grande nemico, il Barzoni, invecchiato e sofferente, ma finalmente placato e soddisfatto, si ritirò a Lonato, nella sua vecchia casa, per trascorrervi in pace il resto dei suoi giorni.
Oramai la politica non lo interessava gran fatto: le dottrine che aveva sostenuto sembrava che regnassero indiscusse nel mondo ritornato all’obbedienza degli antichi sovrani; ma il suo profondo e ardente patriottismo soffriva nel vedere che gli Austriaci restavano padroni in casa nostra, contro il suo sogno di uno stato italico, cattolico, monarchico e ordinato, ma forte, unito e libero. Si volse quindi alla letteratura, pubblicando tragedie e descrizioni poetiche di mediocre valore, per lo stile ampolloso e manierato e lo scarso interesse degli argomenti prescelti. Quattro lustri di lotta e di polemiche lo avevano esaurito, e nella oscura quiete provinciale l'avvocato Barzoni stava ridiventando un tranquillo borghese campagnolo, contento di aguzzare a quando a quando lo spirito sarcastico e bizzarro, nei bonari ed oziosi conversari col Parroco e col Giudice del luogo....
Non aveva brigato posti o titoli, pago di aver servito il Giusto e il Vero. ed era pressoché dimenticato, quando morì, sereno, a settantasei anni.