Luigi Taparelli D'Azeglio, nato Prospero Taparelli D'Azeglio (Torino, 24 novembre 1793 – Roma, 21 settembre 1862)
Luigi Taparelli dei Marchesi d’Azeglio nacque in Torino, il 24 novembre del 1793, dal Marchese Don Cesare e dalla Marchesa Cristina, nata Contessa Morozzo.
Il padre, gentiluomo di buon ceppo, valoroso soldato e fervente cattolico, era un educatore austero ed inflessibile del quale un altro dei suoi figli — Massimo, cavalleresco e simpatico campione del Risorgimento italiano — ci ha lasciato un ritratto così caratteristico e pieno di rilievo.... Nella seconda metà del ‘700, accanto a tanti signori degeneri, effeminati. demagogizzanti e viziosi, la nobiltà europea contava ancora molti di questi campioni incorrotti, fedeli alle gloriose tradizioni dei secoli feudali, e, a onor del vero, in Piemonte questi degni aristocrati erano più numerosi che altrove.
Non guasti, come in Francia, dalla vita di corte e dagli sfrenati piaceri, più rudi e meno aperti all'influsso dei tempi e al sottile veleno della incredulità volterriana e della filosofia enciclopedista, tennero testa con maggior vigore alla tormenta rivoluzionaria, senza le clamorose defezioni che invece assottigliarono le file della dorata aristocrazia versagliese. Pochissimi in Piemonte, si piegarono al giogo della falsa libertà giacobina: i più seguirono i loro sovrani in Sardegna, altri si trasferirono nelle regioni d'Italia, rimaste più tranquille in mezzo a tanta bufera.
La famiglia d’Azeglio si stabili in Toscana, ed al Collegio Tolomei di Siena, rette dai Padri delle Scuole Pie, Luigi Taparelli compì i suoi primi studi, e cominciò ad orientarsi verso lo stato ecclesiastico. La salute malferma lo rendeva inadatto a entrare nella carriera militare che forse avrebbe potuto sedurlo — tradizionale com'era nel casato — e un soggiorno a Parigi, che valse a disgustarlo dalle oziose vuotaggini della vita mondana lo confermò vieppiù nel desiderio di dedicarsi a Dio....
Intanto in tutta Europa risorgevano i vecchi troni e le antiche istituzioni, che la Rivoluzione, repubblicana o imperiale, aveva dovunque rovesciato e sconvolto.
Anche il Papa, Pio VII, era rientrato a Roma e la Compagnia di Gesù, riorganizzata. tornava a reclutarsi in tutto l'orbo cattolico. Col consenso dei suoi che lo approvarono nel suo proponimento. Luigi Taparelli chiese e ottenne di entrare come novizio nella illustre milizia.
Nei suoi Ricordi, Massimo d'Azeglio, narra che il giorno della vestizione, il 12 novembre 1814 nella Cappella di Monte Cavallo, il Reverendo Padre Panizzoni, Generale dell'Ordine, ch'era più che ottantenne e quasi cieco, lo scambiò col fratello e volle dargli l'abbraccio rituale....
"Se accettavo l'abbraccio del Padre Panizzoni — soggiunge argutamente il buon Massimo — volevamo fare un bel negozio, lui e io!"
Dopo otto mesi di noviziato Luigi Taparelli dovette tornare in famiglia per curarsi di un grave esaurimento, a cui sembrò sul punto di soccombere, ma la forza dell’animo e la volontà tenacissima dominarono il male....
Rientrato in seno all'Ordine, vi acquistò presto gran fama per le virtù religiose, l’erudizione e l'ingegno, e fu onorato, ancor giovane, di cariche importanti, come la direzione del Collegio Romano.
Fu poi mandato in Sicilia per organizzarvi l’insegnamento privato e vi rimase fino al 1850, quando fondandosi a Napoli la Civiltà Cattolica, fu chiamato a redigerla. Nè la scelta fu a caso. Egli era infatti già noto nel campo cattolico per i suoi studi di filosofia sociale e specialmente per il suo Saggio teoretico di diritto naturale appoggiato sul fatto, diffuso e ristampato in più edizioni, e tradotto in più lingue.
Questo, e l’Esame critico degli ordini rappresentativi, pubblicato più tardi, sono le sue due opere fondamentali, e malgrado la forma, che risente del gusto accademico ed aulico, del Bresciani e del Cesari, e appare un po' pesante ed involuta, contengono moltissimi elementi vitali che davvero non meritano l'oblio degli studiosi.
Come al Solaro della Margarita, nocque alla fama di Padre Taparelli la taccia di austriacante e di antinazionale lanciatagli dai suoi contemporanei di parte liberale.
In realtà non è vero che fosse antitaliano e volesse la patria soggetta allo straniero.
Parlando degli obblighi propri di quanti hanno in cura le pubbliche sorti, egli chiarisce infatti, contro ogni possibile equivoco, il suo pensiero in proposito:
"Chiamati costoro dalla Provvidenza a promuovere il pubblico bene dovranno, se l’unità nazionale è un bene, (e chi può dubitarne?) promuovere con ogni ordinamento approvato dall'onestà l'unita nazionale, alla quale ogni popolo è dalla natura stessa invitato, incitato e sospinto per una invincibile necessità. Imperocché, e chi non vede nella storia questo progressivo incremento di famiglie in tribù, di tribù in genti, di genti in nazioni, di nazioni piccole in maggiori?.... Non è ella la natura e il Divino Autore suo che col crescere del numero fa sentire nuovi bisogni, vagheggiare nuovi ordinamenti? che colle nuove brame congiunge famiglie o genti divise?.... Che manifestando loro il nobilissimo scopo del bene comune nell'ordine, stringe con nodo intellettuale e morale gli animi e vi desta l'unità di quello spirito pubblico che dà vita alla nazione novella?....
"L'unità nazionale è dunque voluta dalla natura ed è voluta con tanta forza ed evidenza che quasi potrebbero i reggitori dei popoli credersi dispensali dal procacciarla, per essersi la natura stessa addossala tale compito. Ma no: che negli ordinamenti sociali ella volle lasciare all'uomo ancora la sua parte, come nel progresso individuale.... Così la naturale inclinazione ad ampliare l'associazione e stringere legami fra popoli, molti conforti aspetta dalla cooperazione di coloro che posti al timone, governano sapientemente sotto il soffio di naturale impulso la pubblica nave. A questi corre dunque il dovere di promuovere, secondo le leggi di onesta ed avveduta politica, i progressi delle varie genti verso quelle forme e quei confini in cui meglio potrà ottenersi e tutelarsi la morale e materiale unità. Gli altri individui delle nazioni debbono cooperarvi col perfezionarsi nell'ordine, e col proporre a chi può valersene quei mezzi pubblici che dal pubblico ordinatore e solo da lui, e sotto la norma di lui, debbono adoperarsi".
La pagina citata è del ‘46 e dimostra che allora il Taparelli non era estraneo e chiuso ai sentimenti che animavano l'eletta dei suoi concittadini.
Soltanto rifuggiva dai mezzi extralegali, e deprecava i moti irresponsabili, le impazienze e gli eccessi, aveva fiducia nel tempo e nelle vie diplomatiche, e se proprio si fosse resa necessaria una guerra — ultima rado da cui per la sua veste doveva rifuggire — la voleva affidata alle armi regie, regolari e legittime.
Ma venne il '48 e accanto alla guerra dei Principi - sinceramente voluta e combattuta solo dal Re Carlo Alberto, agli altri imposta dalle pressioni dei sudditi - si ebbero le sommosse mazziniane, la fuga del Pontefice a Gaeta, gli albori del conflitto fra le aspirazioni nazionali e la Chiesa che doveva pesare sinistramente sui pruni passi del Regno che sorgeva.
Un uomo della tempra di Padre Taparelli non poteva esitare a prendere posizione, e visto che la causa della Indipendenza italiana, si confondeva con quella della Rivoluzione mondiale e il giovane vessillo tricolore sembrava recare nelle pieghe gli errori ed i malanni del liberalismo politico e della demagogia anticattolica fu, finché visse, con i "reazionari" .
Tragica condizione — quella dei nostri nonni — nell’intimo contrasto fra i naturali impulsi dell'amore di patria, e la devozione alla causa dell’ordine, il tradizionale lealismo verso i sovrani legittimi, gli stessi sentimenti religiosi.... Dramma crudele delle coscienze più oneste che, comunque risolto, apriva piaghe sanguinose e brucianti!....
Luigi Taparelli, morto il 21 settembre del 1862 non vide la fine del potere temporale dei Papi, che era nel suo pensiero strettamente connesso con la libertà e l'efficienza della loro missione nel mondo: a lui, piemontese e malgrado tutto legato al nome e ai ricordi sabaudi, la Provvidenza risparmiò lo strazio di assistere a quella che gli sarebbe parsa l’estrema usurpazione, ai danni dell’erede di S. Pietro.
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Comunque, prescindendo da ciò che è occasionale, contingente e caduco nell'opera del grande Gesuita, dobbiamo riconoscere che la sua filosofia della Storia, della Società e dello Stato, e specialmente le sue definizioni del potere legittimo, si possono studiare e meditare utilmente.
Il povero Volt che fu il primo[...] a ricordare gli scritti di Padre Taparelli, e a mostrarne il valore anche attuale, vide giusto ponendoli in relazione con quelli di Carlo Luigi de Haller, almeno quanto al punto di partenza da cui discende tutta la dottrina.
L'Italiano e lo Svizzero sono infatti concordi nella concezione autoritaria ed aristocratica della genesi statale per cui, sotto gli auspici della provvidenza divina, la superiorità di fatto produce la superiorità di diritto, senza bisogno di assurdi " contratti ". .... Il valore guerresco, la scienza benefica, le maggiori ricchezze, sono i tre titoli di superiorità naturale che uniti insieme, od anche separati, a seconda dei tempi e dell'ambiente storico, consacrano ed investono la classe dirigente e il monarca.
È quello che accade, del resto, anche nella società internazionale...
Anche gli imperi e le egemonie non si creano per virtù di contratto. È la superiorità naturale di una razza o di un popolo che s'impone direttamente o indirettamente alle altre genti e stabilisce quindi di fatto o di diritto una gerarchia di rapporti fra le diverse nazioni. È sempre insomma un potere indipendente dalle volontà particolari, che si impone dall'alto agli individui e ai popoli.
Citerò alcuni brani del Saggio teoretico che chiariranno meglio di ogni chiosa la quadrata dottrina di Padre Taparelli, romanamente e cattolicamente realistica e veramente "appoggiata sul fatto" come è detto nel titolo dell'opera.
"Non può esistere società, senza autorità che l'armonizzi, e però, tosto che in qualche forma uomini ai uniscano a convivere sulla terra, calate nella loro unione una autorità naturale, destinata dal Creatore a far sì che nella tendenza al bene essi camminino concordi senza riuscire l'uno all'altro di ostacolo nell’uso dei mezzi, ossia dei beni limitati con cui tendono al bene sommo....
"Quando ella tanto si avvalora che non ha più superiori in terra allora ella acquista nome di sovranità: e la società che ella governa, se posa in territorio stabile diviene uno stato. Lo stato può essere formato o dalla potenza dì un solo o dalla unione di molti uguali. La uguaglianza individuale di essi fondatori, combinata colla loro eguaglianza sociale dà a ciascuno di essi eguale diritto all'autorità sociale [E’ questo il caso dei patriziati sovrani: tipico esempio quello di Venezia (n. d. a.)].
"Ma poiché questo diritto non spunta immediatamente dalla natura, ma dalle proprietà personali, è chiaro che appartiene a quei soli la cui superiorità personale fondò lo stato. Tutti gli altri sono colla comunanza di questi nella relazione di sudditi a superiori, né hanno verun diritto al governo...
"Ecco in pochi tratti la teoria dell'essere sociale appoggiata sul fatto, e dal fatto parimenti comprovata. Esistenza di associazioni di uomini uniti dalla natura, uguali fra loro nell'essenza, disuguali nelle persone, liberi nel volere e però bisognosi di un principio di unità: ecco i precipui fatti, a cui abbiamo applicato l’universale principio del dovere. I risultati di una tale applicazione sono che l'uomo deve essere governato, e così è di fatto; che chi governa è più forte e insieme ha l'autorità, ed è così; che i sudditi non sono sovrani, ed è così....
"Paragonate questa teoria di fatto con le ipotesi del contratto sociale ove l'uomo per natura è libero, eppur di fatto in catene; per diritto è sovrano, e pur di fatto è suddito; crea la società, e pur di fatto vi è creato; conferisce l'autorità, e pur di fatto non vi ha alcuna parte: ha fatto un patto, eppur non patteggiò: lo ha fatto per assicurare tutti i diritti, e intanto li ha rinunciati; crede ogni stato repubblica, eppur vede delle monarchie: crede tutti gli uomini eguali, eppur ne vede dappertutto graduate le classi, crede di dare il consenso e vede che opera a suo dispetto; crede di dar legge e vede che la riceve....
Paragonate, dico, le due dottrine, e giudicate quale delle due sia vera!"
Ho già osservato, a proposito dell'Haller, che in pratica i sociologi tradizionalisti e cattolici, si accordano benissimo con quelli della scuola storico - positiva ed empirica; gli uni e gli altri si servono della osservazione dei fatti per trovare le leggi che regolano la vita sociale e fissare quindi le norme della scienza politica: solo. per i credenti l'origine dì queste leggi è divina, e il fine dello Stato è il Sommo bene che, senza rinnegarla, trascende l'esperienza....
Invece i democratici, i liberali, ecc., hanno bello e pronto un loro schema arbitrario a cui la ragion pura e la giustizia astratta danno forma e misura; una specie di letto di Procuste nel quale vogliono far giacere per forza tutto il genere umano.
Ma [...] la teoria del diritto divino presenta un altro grandissimo vantaggio. Essa supera infatti e compone l'eterna discussione dei filosofi intesa a stabilire se lo Stato sia fatto per l'individuo, o l’individuo per lo Stato.
Scrive difatti Padre Taparelli:
"Non negheremo che dal diritto di conservazione individuale come da suo elemento spunta l'autorità; come appunto dagli individui aggregati risulta la società.... Se l'uomo ha dovere e diritto alla propria perfezione; se di questa è mezzo efficacissimo, anzi necessario, la società, egli ha dovere e diritto a conservare la società, come ebbe a formarla. Ora questo diritto contemporaneo alla esistenza della società è ciò che chiamasi autorità, dunque contemporanea alla società è l'autorità".
E continua:
"La società contiene dunque la causa finale dell'autorità, e chi dice che l'autorità è per la società dice una proposizione tanto vera quanto è vero che l’anima è per l'uomo, non l'uomo per l’anima, e che la parte è per il tutto, non il tutto per la parte. Ma non si vuol confondere queste due proposizioni — l'autorità dipende dalla società, è per la società — l'autorità dipende dai sudditi, è per i sudditi .
"Società è un tutto composto di autorità e di sudditi, onde il dire che l'autorità è per la società vale a dire che la parte è per il tutto, è ordinata a formare il tutto: il dire che l'autorità è per i sudditi vale quanto dire che l’anima è per il corpo, è ordinata al corpo....
"Sì, l'autorità è nella moltitudine giacché ove non è moltitudine non è autorità; è per la moltitudine, giacché è principio di sua unità; ma non è dalla moltitudine, giacché essa non può crearla né abolirla; non è della moltitudine, giacché essa non governa, ma è governata".
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Non bisogna stancarsi di ripeterlo, per vincere e fugare le idee false, diffuse e accreditate dai cattivi maestri, zelatori del verbo liberale: il Diritto Divino, che solo a nominarlo scandalizza i bigotti del Libero Pensiero, non è il fantasma medievale e arcaico offerto da costoro all’ironia meschina della platea cosciente ed evoluta.
È un'idea vecchia, ma che non tramonta perché sola risponde nel modo più esauriente al nostro desiderio di assoluto, sola spiega e giustifica in teoria le leggi naturali che in pratica accettiamo, sola da un senso ed un significato alle esigenze, spesso dure e ingrae, della subordinazione e della disciplina sociale.