Quando lo stesso nome è contemporaneamente illustrato da due persone della stessa famiglia, accade facilmente che una assorba per sé tutta la fama, distogliendo dall'altra l'attenzione del pubblico. e la condanni quindi, talvolta ingiustamente, ad una semioscurità od all'oblio.
Quanti, quando si cita il nome di Leopardi, ricordano oltre a Giacomo, grandissimo poeta, anche il padre, Monaldo, polemista politico?
E anche quelli che lo hanno sentito nominare ne serbano spesso una immagine antipatica e grigia, di pedante severo, dispotico e bigotto, chiuso alla comprensione degli uomini e dei tempi, maniaco di reazione ad ogni costo....
Eppure, se la gloria di Giacomo Leopardi non gli avesse nuociuto nel modo che abbiamo detto, anche il Conte Monaldo, oltre ad esser più noto, sarebbe giudicato più equamente e terrebbe il suo posto, con dignità ed onore, fra i grandi pubblicisti del secolo passato.
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La casa dei Leopardi, Conti di San Leopardo, è fra le più antiche e cospicue della nobiltà marchigiana, e le sue tradizioni sono strettamente annesse alla storia municipale della città di Recanati, al cui patriziato essa fu ascritta fino dal secolo XIII.
Quando nacque Monaldo, il 16 agosto 1776, dal Conte Giacomo e dalla Contessa Virginia, dei Marchesi Mosca di Pesaro, all'alta classe laica degli Stati Romani erano quasi precluse le carriere che altrove erano vanto del ceto nobiliare; solo la prelatura conduceva alle cariche della diplomazia e del governo, e il pacifico esercito della Santa Sede Apostolica non era la palestra più adatta alle esperienze dei giovani signori che avessero per avventura nutrito aspirazioni bellicose e armigere....
La vita di provincia trascorreva monotona tra le modeste cure delle magistrature locali, l’agricoltura ed il fasto dell’ospitalità gentilizia, e negli ozi forzati delle vaste dimore tranquille, fiorivano sovente gli studi letterari, le contese accademiche e i dotti e conversari.
Il Contino Leopardi, orfano a dodici anni, aveva avuto per istitutore un gesuita spagnolo, di non comune dottrina, padre Giuseppe Torres, pio sacerdote ed esperto teologo, che seppe far dell’allievo un fervente cattolico ed un buon latinista. Ma della nostra lingua era conoscitore mediocre e per l’italiano Monaldo dovette supplire da solo, leggendo per suo conto montagne di volumi: il suo stile, talvolta rozzo e sciatto, malgrado l'intima genialità originale, tradisce le lacune di questa formazione.
Comunque sia, in Recanati si conquistò la fama di un portento di scienza, e appena ebbe compiuti i diciott'anni fu ammesso nel Consiglio cittadino. L'invasione francese e i moti reazionari ch'essa suscitò nelle Marche lo trovarono a capo dei più accesi gallofobi, e, compromesso in quegli avvenimenti, fu condannato a morte in contumacia dalle corti marziali dell'esercito repubblicano. Ritornata la calma, si ricondusse in patria, più che mai risoluto nella sua opposizione a tutte le idee nuove.
Si instaurò di lì a poco il Regno Italico sotto lo scettro di Napoleone, e se l'ordine pubblico, la prosperità materiale, la sicurezza e le proprietà dei privati vi erano protetti sufficientemente, la tirannia poliziesca non vi lasciava campo alla discussione e alla critica.
Il Conte reazionario dovette usare prudenza, e la sola protesta contro il nuovo regime che dalle circostanze non gli fosse vietata, fu di appartarsi dalla vita pubblica chiudendosi sdegnoso nel volontario esilio della sua biblioteca, intento a dotti studi genealogici e storici, con cui cercava di dimenticare le funeste vicende del mondo sovvertito.
Nella meditazione solitaria maturava lo spirito e il pensiero, ed i sani principi religiosi e morali che doveva alla prima educazione, acquistavano forza, precisione e portata, dando nerbo e sostanza filosofica alle sue concezioni politiche e sociali, ora non più soltanto sentimentali e istintive.
Il gentiluomo offeso dalle idee democratiche negli affetti di casta e di casato assurgeva ad un senso più vasto e universale della Verità e dell'Errore.... Vedeva e misurava le forze contrastanti e seguiva le fasi del duello titanico.... Da una parte il Passato: l'Autorità legittima, le Gerarchie tradizionali, il Pastorale e lo Scettro, la Storia, la Natura, Dio stesso; dall'altra il nuovo credo ugualitario, l'idea del progresso indefinito e messianico: l'Utopia, la Rivolta,
l'Astrazione, la Dea - Ragione posta sugli altari, i Diritti degli uomini, invidiosi e superbi.
È facile pensare con quale sincero entusiasmo egli dovette salutare il trionfo della coalizione europea, la prigionia e l'esilio del grande avventuriere, e il ritorno dei principi italiani nei loro antichi stati; ma presto ebbe ad accorgersi che la restaurazione era solo formale ed apparente: erano bensì risorte le vecchie istituzioni, ma erano corpi senz'anima, facciate mal dipinte che celavano il vuoto e la morte....
Dovunque ribollivano i fermenti della rivoluzione latente; difettava nei sudditi la sincerità dell'ossequio; gli stessi governanti, scettici e sfiduciati, non avevano fede nella propria missione.... In basso: insofferenza, turbolenza, protervia ; in alto : corruzione, debolezza, ignoranza!
Ed infatti nel '30, la Francia, incorreggibile, rialzava la bandiera liberale e poneva sul trono dei Santi e degli Eroi, il figlio imborghesito di Filippo - Uguaglianza; re per grazia del Popolo e dell'Usurpazione!....
Era tempo di correre ai ripari. Bisognava sforzarsi di ricondur la luce negli spiriti chiusi e ottenebrati, per non veder di nuovo compromesso e travolto l'ordine ritrovato dopo tante procelle.
Quasi solo in Italia e spesso non gradito alla stessa Autorità che serviva — sorte, come si è visto, comune a quasi tutti i più grandi avversari della Rivoluzione — Monaldo Leopardi si credette prescelto a compiere quest'opera terribilmente ingrata e l'affrontò con la santa ingenuità degli Apostoli.
Qualche volta sbagliò, fu impari al compito, gli accadde di peccare per eccesso di zelo: ma fu onesto, sincero, coraggioso e coerente.... Soprattutto coerente; rigidamente, matematicamente, inesorabilmente coerente! Ignorò di proposito qualsiasi transazione fra l'assolutezza delle premesse teoriche che aveva posto alla base del suo sistema ideologico, e le contingenti necessità della pratica. Nei suoi ragionamenti andava fino in fondo, fino alle estreme conseguenze logiche.... Per lui non esisteva il " minor male " o il " meno peggio " dei realizzatori politici; le vie di mezzo, gli accomodamenti anche leciti e onesti, a fin di bene, erano " tradimenti " e " diserzioni " ripugnanti al suo cuore e al suo temperamento.
Inferiore a un De Maistre — di tutta la distanza che separa una pur chiara intelligenza dal Genio — fu simile al gigante savoiardo per l'integrità del carattere e la dignità della vita. Si narra che egli fosse l'ultimo dei nobili italiani a smettere l'usanza di portare la spada, e certo mai nessuno fu più degno di rivestire le insegne della cavalleria....
* * *
I primi scritti politici di Monaldo Leopardi vennero pubblicati nel 1831 e furono i famosi "Dialoghetti sulle materie correnti" , che in tre mesi in Italia ebbero sei edizioni e furono tradotti perfino in olandese!
In essi l'autore, prendendo le mosse dagli ultimi avvenimenti di Francia, esortava i monarchi della Santa Alleanza ad una collaborazione più energica e sincera nella lotta mortale contro il comune nemico. Seguiva la satira dei nuovi ordinamenti francesi, feroce nella veste confidenziale e burlesca di un "trattenimento scenico" : il Viaggio di Pulcinella a Parigi.
Sul frontespizio un motto che era da solo un programma di vita e di battaglia — La verità tutta, o niente — affermava il concetto fondamentale dell'opera.
Lo stile ne era forte, spontaneo ed efficace, pur nella forma spesso familiare e un po' rude: volta a volta dialettica, appassionata o sarcastica.
Omettendo gli spunti di occasione e le allusioni frequenti alle persone ed agli avvenimenti dell'epoca, ne tolgo alcuni brani che chiariscono meglio la mentalità e le dottrine dello "intransigentissimo".
Così ad esempio, sulla monarchia:
"L'autorità dei re non viene dai popoli, ma viene addirittura da Dio, il quale avendo fatti gli uomini per vivere in società, ha reso necessario un capo che li governi e con ciò ha comandato che i popoli ubbidiscano ai Re."Il Re deve procurare tutto il bene del popolo: il popolo deve ubbidire a tutti i comandi del Re, e questa è la gran Carta scritta con la mano di Dio e stampata col torchio della natura".
E, ancora, sulle tracce di Monsignor Bossuet:
"I Re non vogliono mai, e non possono volere, il male del popolo, perché il popolo è la famiglia e il patrimonio del Re, e nessuno vuole il danno della propria famiglia e la rovina del suo patrimonio. Anche il Re può sbagliare, perché anch'esso è un uomo, ma può sbagliare anche un popolo, e dovendosi vivere esposti all'errore è meglio essere esposti all'errore di un solo che agli errori di tutti".
Dunque niente statuti liberali:
"I patti della Carta sono le morse lasciate per congiungere la rivoluzione passata con la rivoluzione futura".
Interessante, ed anche per noi importantissima, è la sua definizione della legittimità, tolta dal limbo delle nebbie mistiche e riportata sul terreno pratico della Storia e dei fatti.
"Se le origini della Sovranità potessero sottoporsi all'esame, quale sarebbe il giudice fra i popoli e i sovrani?.... E se il tempo non bastasse a rendere legittima la sovranità attuale, quale popolo non si lusingherebbe di trovare negli archivi, ovvero nelle storie, qualche ragione o pretesto di sottrarsi all’obbedienza del proprio Principe?.... Se poi tutti i Principi vedessero soggetti a discussione i loro diritti, e tutti i popoli fossero incerti sull’obbligo dell'ubbidienza, qual ordine, qual sicurezza?.... Quale tranquillità potrebbe sperarsi in questo povero mondo?.... Un popolo può resistere all'usurpatore nell’atto dell'usurpazione, e ancora successivamente per un certo tempo, ora più lungo, ora più breve, secondo le circostanze.
"Ma dopo passate due, tre, o quattro generazioni, quando il nuovo principato è già stabilito pacificamente, e quando il popolo lo ha riconosciuto espressamente con un atto di sommissione, ovvero tacitamente, col fatto di una lunga ubbidienza, allora quel principato è dichiarato legittimo dal tempo, e i sudditi non possono ricusargli obbedienza senza mettersi in ribellione".
Ragionamento pieno di serenità e di buon senso, che andrebbe meditato dai rari campioni superstiti dei nostri vecchi legittimismi locali, estensi, lorenesi e borbonici, e in genere da quanti vorrebbero negare alla fede monarchica dei patrioti italiani, nati fuori dei limiti del Regno di Sardegna e tuttavia devoti alla Casa Sabauda, il suggello ed il crisma del Diritto Divino.
Se — a parte le esigenze fatali della Storia che ineluttabilmente imponevano la nostra unità nazionale — potevano da principio esser giustificate le riserve di alcuni di fronte al nuovo Stato, nato dalla conquista e dalla insurrezione, il tempo ha ormai sanato, con la sua irrevocabile sanzione, tutte le imperfezioni o le irregolarità delle origini, e i nipoti degli ultimi fedeli delle varie dinastie spodestate, possono riportare, con sicura coscienza, l'ossequio e l'entusiasmo della loro sudditanza leale sulla più antica e nobile stirpe regia di Europa!....
Contro il culto bigotto della legalità ad ogni costo. che non ammette deroghe da quello che sta scritto, ed e il feticcio dei "conservatori moderati", Monaldo Leopardi invocava la "ragione di Stato", sola regola e norma dei Monarchi.
"La necessità è la regina di tutti i re e di tutti i regni. II dovere del chirurgo è di guarire il suo infermo, e perciò, quando occorre, gli taglia le braccia e le gambe. Cosi il dovere del Re è quello di governare bene il suo popolo. E in faccia a questo dovere tutte le Carte sono polvere e fumo....".
Ma questo non significa che ogni considerazione morale debba essere bandita dai rapporti politici.
Il Decalogo è legge che impegna grandi e piccoli, e i pastori dei popoli devono conto a Dio del modo in cui rispondono agli obblighi del grado. Così le relazioni fra le varie potenze si devono ispirare, non a sogni impossibili di idillii universali, ma a un senso più modesto di solidarietà primordiale di fronte a certi mali che le insidiano tutte.... Suscitare disordini, sommosse e ribellioni, per fiaccare le forze di uno Stato rivale, è un'arma a doppio taglio che non si deve usare, e chi ricorre alla demagogia per provocare il crollo della potenza altrui, con l'illusione di restarne immune, si espone a un rischio grave....
"Ciò che non si vuole in casa propria non si deve fare in casa del vicino", avverte giustamente il conte marchigiano.
Nel Viaggio di Pulcinella troviamo; come ho detto, una satira acuta e mordente del regime liberale sperimentato in Francia con Luigi Filippo e sopratutto del parlamentarismo al quale dedica un dialogo degno di esser citato, nella parte che tratta del mito democratico della "sovranità popolare" e dell’elezionismo che ne è la conseguenza.
"— Facciamo un piccolo conto: in Francia sono trenta milioni di abitanti, e fra questi gli elettori saranno appena un mezzo milione. Dunque di sessanta parti del popolo, cinquantanove parti sono popolo suddito e non assaggiano neppure un frammento di sovranità. Quando viene il caso delle elezioni, un terzo almeno degli elettori è ammalato, ovvero impedito in qualche altro modo, sicché in realtà le elezioni si fanno al più al più dalla centesima parte della nazione. Queste elezioni poi si fanno ogni cinque o sei anni una volta, e perciò un uomo potrà esercitare l'uffizio di elettore cinque o sei volte in vita e non più. Dunque i novantanove centesimi del popolo francese non sono sovrani mai, e i francesi del centesimo elettorale esercitano la sovranità cinque o sei minuti nel corso di tutta la vita, con mettere una fava dentro il bussolotto delle elezioni.... Vi pare che questa sia una vera sovranità, oppure una buffonata che farebbe smascellare dalle risa anche Bertoldo con tutti li Bertoldini?....
— E la camera dei deputati, in cui risiede sostanzialmente l'esercizio della sovranità, non è tutta composta di popolo?....
— Verissimo, ma facciamo ancora un altro conto. Li quattrocento deputati della camera corrispondono a un deputato per ogni 75.000 francesi, e perciò di tutta quanta la Francia 74.999 parti sono suddite, ubbidiscono, e stanno al fatto altrui, come in tutto il resto del mondo, e una sola particella insensibile di fronte del tutto è quella che gode qualche esercizio di sovranità. Ditemi dunque in coscienza vostra che male ci sarebbe se anche questa particella insensibile fosse suddita come tutti gli altri francesi, e se la Francia iutiera si lasciasse governare in pace da un Re sovrano, piuttosto che farsi governare tumultuosamente da una camera sovrana che fa tutto il giorno a capelli e scandalizza il cielo e la terra!
— Così si tornerebbe al potere assoluto; il popolo non sarebbe più sovrano e le leggi non si farebbero dal popolo, ma dal Re....
— Forse il Re è qualche bestia feroce la quale abbia bisogno di satollarsi con lo sbranamento dei sudditi? Al contrario il Re è il padre e il padrone del popolo. Se anche non sentisse l’amore del padre sentirà sempre quell’interesse che sente ognuno per tutto ciò che è suo, e le leggi del Re saranno sempre dirette al bene del popolo perché il popolo è suo e nessuno può volere il danno di quello che gli appartiene.
— Ma il Re può ingannarsi e può venire ingannato....
— E i deputati della camera possono ingannarsi molto di più, perché nel cuore del Re parla una passione sola, la quale è difficilmente contraria agli interessi del popolo, ma nel cuore dei deputati parlano tutte le passioni private, le quali molto spesso contrastano con gli interessi del pubblico. Anzi, osserva di grazia: nella camera nessuna legge passa con la unanimità dei voti: ma chi la vuole, chi non la vuole, e di due partiti, uno deve certamente ingannarsi e stare dalla parte del torto. Se dunque molti deputati della camera s'ingannano sempre, chi assicura la nazione che l'inganno sia nella minorità che soccombe e non sia nella maggiorità che prevale?....
— Questa sicurezza al mondo non ci può essere, e nelle cose umane ci è sempre il pericolo di qualche errore....
— Anche questo va bene, ma se, per destino dell'umanità, le nazioni devono contentarsi di essere esposte agli errori dei deputati, perché non dovranno contentarsi di essere esposte agli errori meno facili e meno pericolosi dei Re?....
* * *
II favore incontrato presso una parte del pubblico e il gran rumore fatto intorno ai Dialoghetti da amici e da avversari, sia in Italia che fuori, incoraggiarono l'autore a continuare per la via nella quale si era messo, e a fondare un giornale destinato a combattere, come portava il motto che accompagnava il titolo, "le guerre del Signore": praeliare bella Domini.
La Voce della Ragione — che si stampava a Pesaro, dall'editore Nobili — visse circa tre anni, molto nota e diffusa, e di tutti i periodici cattolici pubblicati in Italia nello stesso periodo fu certo il meglio fatto ed il più battagliero. Il fiero gentiluomo - giornalista, ne sosteneva da solo il maggior peso, materiale e morale, scrivendo tutti i principali articoli e sorvegliandone l'impaginazione e la stampa, con l'aiuto affettuoso della figlia Paolina, correttrice di bozze, critica e traduttrice, e la collaborazione occasionale di pochi amici sicuri.
La libera franchezza di Monaldo Leopardi non risparmiava critiche neppure ai pezzi grossi del Vaticano e della Curia romana, quando le circostanze gliene offrivano il destro: era fautore del "decentramento" e strenuo difensore delle franchigie municipali, e non vedeva bene l'eccessiva ingerenza di certi Monsignori nelle amministrazioni locali, antico privilegio dell'ordine patrizio; si procurò pertanto non poche inimicizie e fu mal ripagato del suo zelo per la causa cattolica....
In certe sue memorie egli ricorda infatti, con compiacenza orgogliosa ma un po' amara, di avere ricevuto soltanto una medaglia di rame dorato e la Benedizione Apostolica, come attestato di benemerenza, prima che in alto si fosse decretata la fine del suo incomodo giornale....
L'avere scritto che "i Papi hanno l’infallibilità per decidere degli errori ma non l’hanno nella conversazione privata per non essere ingannati dai birbanti" gli fu imputato a crimine dai soliti malevoli, e nel Dicembre del 1838 la Voce della Ragione fu costretta a morire.
Egli ne fu afflittissimo, ma dominò lo sdegno e continuò a bandire con fedeltà immutata quello che reputava essere il Giusto e il Vero, senza depor la penna sincera e coraggiosa, ne ripiegare un lembo dell'orgogliosa insegna ch'egli aveva spiegato contro la protervia del secolo. Continuò quindi a pubblicare articoli sul Cattolico di Lugano, emulo della Voce quanto all'intransigenza, ed a stampare opuscoli dottrinali e polemici come le Prediche di Don Muso Duro; la Città della filosofia; le Considerazioni sulla Storia d'Italia di Carlo Botta; i Pensieri del tempo, che gli valsero d’essere esaltate come l’"Argante della buona causa" da pochi risoluti reazionari, classificato "imprudente e avventato" dai pavidi codini benpensanti, e ingiuriato e oltraggiato oscenamente dai mangiapreti e dai repubblicani....
Si spense a settantenni, nell’avito palazzo, l’ultimo giorno di Aprile del 1847 e già da due o tre anni gli acciacchi sopraggiunti lo avevano costretto a lasciare la breccia.
In quei mesi l'Italia acclamava in Pio IX, il nuovo personaggio di un papa liberale....