domenica 1 settembre 2013

Il vecchio Piemonte contro la Rivoluzione italiana

Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 68/13 del 1° luglio 2013, Preziosissimo Sangue
L’opposizione cattolica piemontese al “Risorgimento italiano”
di Don Francesco Ricossa

Testo integrale dell’intervento che don Francesco Ricossa ha tenuto a Gaeta il 4/2/2011 al XIX Convegno Tradizionalista della Fedelissima Città di Gaeta, organizzato dalla rivista napoletana L’Alfiere e dalle Edizioni Controcorrente, pubblicato sul n. 66 della rivista Sodalitium, aprile 2013.

Da La Stampa, 26 febbraio 2011, p. 34 Maurizio Lupo: Due no al Re d’Italia: Il 26 febbraio (1860) a Palazzo Madama si vota il progetto di legge per cui Sua Maestà Vittorio Emanuele II assume per sé e i suoi successori il titolo di Re d’Italia. Due senatori osano votare contro (su 131) fedeli al Re sempre, ma italiani no, né ora né mai. Per lo storico Domenico Carutti devoto alla Corona “il Regno d’Italia è il funerale del vecchio Piemonte”.
Sono lieto di ritornare qui a Gaeta per rendere onore assieme a voi tutti a quegli eroi che si sono battuti fino all’ultimo, 150 anni fa, nella difesa della loro Patria, del loro Re e della Fede Cattolica. Mi è stato chiesto di parlarvi dell’opposizione cattolica piemontese al “Risorgimento italiano”, e lo faccio ben volentieri, come sacerdote cattolico e come piemontese.
Ricordo ancora la viva impressione in me causata dal saggio di Carlo Alianello: “La conquista del Sud. Il Risorgimento nell’Italia meridionale”; un atto d’accusa durissimo verso la brutale conquista militare del Sud e sulle responsabilità del governo piemontese. Senza dubbio, quella della “conquista del Sud” è una delle chiavi di lettura del cosiddetto “Risorgimento” italiano.
Non credo però, ed è quanto cercherò di dimostrare, che sia la principale chiave di lettura di quegli avvenimenti dei quali noi tutti subiamo tuttora le conseguenze. Il “Risorgimento” conta tra le sue vittime non solo il Sud d’Italia, l’antico Regno delle Due Sicilie, ma l’Italia intera; non fu il “Risorgimento d’Italia” ma, al contrario, il trionfo della Rivoluzione in Italia e contro l’Italia, perché contro la Fede che è la gloria dell’Italia intera, dal nord al sud della nostra penisola, la Fede Cattolica. L’unità d’Italia, come ebbe a dire don Margotti, di cui vi parlerò, realizzò una “falsa unità politica contro una vera unità cattolica”.
Anche il Piemonte quindi, il “vecchio Piemonte” che ricorda lo scrittore Salvator Gotta in un suo romanzo dedicato al Conte della Margarita (“Addio vecchio Piemonte”), è stato una vittima, la prima in ordine di tempo, della Rivoluzione liberale e massonica.
Alcuni personaggi che vi presenterò, tutti già noti, illustreranno non solo l’opposizione cattolica piemontese al “Risorgimento”, ma il fatto per l’appunto che il “Risorgimento” fu essenzialmente un attacco alla fede cattolica.
Pio Brunone Lanteri (1759-1830), Clemente Solaro della Margarita (1792-1869), Luigi Fransoni (1789-1862), san Giovanni Bosco (1815-1882), Giacomo Margotti (1823-1887): sono queste le figure emblematiche, tra le tante, che ho scelto per illustrare l’opposizione cattolica al risorgimento anti-cattolico; essi rappresentano ceti sociali diversi (don Bosco è di origine contadina, Lanteri e Margotti sono di estrazione borghese, Fransoni e Solaro appartengono alla nobiltà), generazioni e periodi storici diversi (con Lanteri la lotta inizia ancor prima del Risorgimento, con il quotidiano fondato da don Margotti ci spingeremo invece fino ai tempi della lotta antimodernista e alla vigilia del Concordato); ruoli diversi: uomini di stato (Solaro), fondatori di ordini religiosi (Lanteri e don Bosco), Vescovi (Fransoni), deputati (ancora Solaro e Margotti) e giornalisti (Margotti), e anche origini diverse giacché se Solaro, Lanteri e don Bosco sono piemontesi, Fransoni e Margotti di nascita sono liguri, ben diversi però da Mazzini e Garibaldi!

Pio Brunone Lanteri (1759-1830)


Pio Brunone Lanteri

 Pio Brunone Lanteri nacque a Cuneo nel 1759 e morì a Pinerolo nel 1830: sembra estraneo quindi, seppur come avversario, alle vicende risorgimentali; è piuttosto, pare, un uomo della Restaurazione, che può dirsi conclusa proprio nell’anno della morte del Nostro, il 1830, quando in Francia la Rivoluzione di luglio fa cadere il Re Carlo X e mette sul trono costituzionale Luigi Filippo d’Orléans, il figlio di Filippo Egalité.
Ma non si capisce il Risorgimento, e non sarebbe stato neppure possibile, senza l’Illuminismo (di stampo anglosassone o continentale, poco importa), la Rivoluzione Francese e le Guerre Napoleoniche. Lanteri si oppose a tutti quanti questi fenomeni. Ordinato sacerdote e laureato dottore in Teologia nel 1782, lo stesso anno Lanteri si recò a Vienna col sacerdote Nicolas von Diessbach per preparare il celebre viaggio nella capitale imperiale di Pio VI. Il Pontefice, che morirà martire della rivoluzione imprigionato dai francesi, si recò infatti presso l’Imperatore Giuseppe II per cercare di mitigare la politica anticattolica dell’Asburgo, figlio di quel Francesco di Lorena che fu uno dei primi sovrani affiliati alla massoneria.
Anche in Toscana i Lorenesi, di concerto col vescovo giansenista Scipione de’ Ricci, stavano sovvertendo la fede tradizionale. Una prima parte dell’attività del Lanteri fu quindi direttamente consacrata alla lotta contro quegli errori teologici del gallicanesimo (risalenti al Grande scisma d’Occidente e alla Prammatica Sanzione), del febronianesimo (da Febronio, pseudonimo del vescovo Johann von Hontheim 1701-1790), di Edmond Richer (1560-1631), dei Giansenismo, specie politico, di Van Espen (1646-1728), dell’anticurialismo di un Pietro Giannone (1676-1748 a Torino, incarcerato dai Savoia), dei giurisdizionalisti e dei regalisti.
Forse meno famosi degli illuministi (inglesi, scozzesi, francesi, tedeschi) e meno famigerati dei massoni questi teologi poterono minare la società tradizionale dall’interno, corrompere i principi del clero e i sovrani, mettendo i vescovi contro il Papa e lo Stato contro la Chiesa. Le Corti, le Università, la Magistratura, molti Vescovi e Teologi erano impregnati di questi falsi principi e solo così si spiega il crollo della Cristianità minata da tante quinte colonne.
Scoppiata la rivoluzione, invaso ed annesso il Piemonte, Lanteri si oppose a Napoleone e soccorse Papa Pio VII prigioniero a Savona; dal 1811 al 1814 fu confinato egli stesso a Bardassano. Caduto Napoleone e restaurata la Monarchia, Lanteri non s’illude: le stesse cause daranno gli stessi effetti. Non solo fonda una congregazione religiosa (gli Oblati di Maria Vergine), non solo converte con gli Esercizi spirituali, ma si premura di chiamare a raccolta il clero e il laicato in associazioni (segrete sotto la Rivoluzione, discrete sotto la Restaurazione): l’Amicizia
Cristiana, l’Amicizia Sacerdotale, l’Amicizia Cattolica, con la diffusione della buona stampa e la formazione di veri militanti cattolici.
Non mancano gli studi, anche approfonditi, sul Lanteri, per cui non mi dilungo. Accenno solo all’influenza postuma che egli ebbe su tutto il Piemonte Cattolico. Alle Amicizie appartennero infatti i fratelli De Maistre, il Conte Solaro della Margarita, il Teologo Guala. Joseph de Maistre è a tutti noto, nelle luci e nelle ombre del suo pensiero: alle ombre Sodalitium ha dedicato un importante articolo; sono anche le ombre, in parte, di tutto il pensiero della Restaurazione, ancora privo dei frutti che verranno dalla rinascita della filosofia Tomista voluta da Leone XIII (enciclica Æterni Patris) e irretito da una filosofia fideista quale fu il “Tradizionalismo”; non a caso alcuni “Tradizionalisti” come l’abate de La Mennais o come Padre Ventura iniziarono bene e finirono male. Il Teologo Luigi Guala (1775-1848), discepolo del Lanteri, fondò nel 1817 il Convitto Ecclesiastico formando il clero piemontese sulla dottrina morale e ascetica del grande santo napoletano Alfonso de’ Liguori, il vero grande nemico in Italia dell’Illuminismo. Alla sua scuola si formarono San Giuseppe Cafasso, che del Convitto fu direttore dopo il Guala (dal 1848 al 1860), e San Giovanni Bosco che ne fu allievo e, tramite loro, un’infinità di anime, malgrado la soppressione voluta dal Vescovo Gastaldi nel 1878.



Clemente Solaro della Margarita (1792-1869)


Clemente Solaro
della Margarita

 Ma il Lanteri lasciò la sua traccia anche nel laicato piemontese, e tra i tanti ricorderò un uomo di stato e di governo, un uomo politico ed un importante scrittore di cose politiche quale fu appunto il Conte della Margarita.
Clemente Solaro della Margarita, nato a Mondovì nel 1792 e morto a Torino nel 1869, fu a tutti noto come il più determinato avversario politico di Cavour. Nella giovinezza vide il suo paese invaso dai rivoluzionari francesi: a differenza di altri nobili casati, come i Benso di Cavour, affiliati alla massoneria e pronti a servire ogni padrone, i Solaro della Margarita non fecero alcun compromesso coi nuovi dominatori. Restaurata l’antica monarchia che per otto secoli aveva unito i suoi destini con quelli del Piemonte, Solaro entrò in diplomazia, essendo già membro dell’Amicizia Cattolica, ed esponente del “partito cattolico” che aveva imparato la lezione impartita dalla Rivoluzione e non voleva che più si ripetesse.
Nel 1816 fu segretario di legazione a Napoli e nel 1824 sposò la figlia del ministro Sardo nella Corte borbonica, de Quesada di San Saturnino. Nel 1826 fu incaricato d’affari alla Corte di Madrid, nel 1835 a quella di Vienna e lo stesso anno fu nominato dal nuovo Re Carlo Alberto ministro degli Esteri; anche grazie a lui nel 1839 fu ripristinata la Nunziatura sospesa dal lontano 1753, stringendo i rapporti amichevoli tra Santa Sede e Piemonte, a tutto danno della parte ribelle e gallicana del clero subalpino.
Tenne quella carica fino al 1847, quando ormai il Re aveva deciso di abbandonare la politica che il suo ministro gli
aveva fatto seguire in favore del Trono e dell’Altare (il Piemonte si schierò con Don Carlos e i Carlisti in Spagna, con Don Manuel in Portogallo, coi legittimisti in Francia contro gli Orleanisti, con i Cantoni cattolici del Sonderburn in Svizzera contro il governo centrale laicista e protestante) per sposare la causa della Rivoluzione liberale.
Con l’abbandono del ministero, il cambio di regime in seguito alla concessione dello Statuto e gli avvenimenti del ‘48, si sarebbe potuto credere che l’attività pubblica di Solaro fosse finita. Non fu così. Non solo prese la penna per difendere la sua attività politica sotto Carlo Alberto (Memorandum storico politico… 1851-1852), esporre i suoi principi politici (L’uomo di Stato…, 1863-1863) e per combattere le iniziative politiche del nuovo governo liberale (Avvenimenti politici… 1853; Questioni di Stato… 1854; Risposta del Conte S. della M. a ‘Il Papa e il Congresso’… 1860; Sulle nuove annessioni alla Monarchia… e sulla cessione di Nizza e Savoia… 1860; Sguardo politico sulla Convenzione… 1864) ma non esitò a sfidare l’avversario nel suo stesso campo organizzando una sorta di partito cattolico intransigente per poter difendere i propri ideali e combattere la politica cavourriana nel Parlamento subalpino: tra gli amici e sostenitori di Solaro, ricordiamo Emiliano Avogadro della Motta (1798-1865), deputato dal 1853 al 1860, collaboratore a l’Armonia e all’Unità Cattolica, incarcerato per aver scritto nel 1859 contro il matrimonio civile ed il divorzio, ed altri deputati come Edoardo Crotti di Costigliole e Scurzolengo, Leone Costa di Beauregard, Ignazio Costa della Torre, Antonio Brignole Sale, Carlo Emanuele Birago di Vische, e poi l’avv. Boggio, che morì nella battaglia di Lissa (per gli anni ’80 segnaliamo – nella stagione dell’intransigentismo – il torinese l’avv. Stefano Scala, direttore del Corriere nazionale e dell’Italia Reale).
L’uomo dell’Ancien régime non esitò quindi a presentarsi alle elezioni politiche, riservate allora solo ai ceti superiori – in genere inclini al liberalismo. Non eletto nel 1853 (V legislatura) subentra però in Parlamento nel 1854 nel collegio di San Quirico. Dal parlamento si opporrà quindi alle leggi antiecclesiastiche del 1855, che porteranno alla soppressione di quasi tutti gli ordini religiosi e all’incameramento dei loro beni. Queste leggi andavano ben oltre quelle del 1850, e toglievano ogni dubbio sul carattere antireligioso – e non solo anticlericale – del governo. Esse suscitarono così una reazione che si manifestò chiaramente nelle elezioni del 1857, per la VI legislatura. Cavour prevedeva una trentina di deputati per i “neri” (il partito clericale) mentre Solaro riuscì a farne eleggere più del doppio. I “liberali” e “democratici” reagirono da par loro, annullando l’elezione di quasi la metà dei cattolici e indicendo elezioni suppletive: il piano di Cavour era alle strette finali per preparare l’alleanza con Napoleone III e la Guerra del ’59 e non si poteva permettere un’agguerrita opposizione parlamentare.
Per evitare un nuovo successo della destra cattolica, poi, Cavour fece cambiare tutti i collegi elettorali dove la destra aveva vinto, ritagliandone i confini in modo tale che alle seguenti elezioni, quelle del 1860, Solaro e i suoi fossero sconfitti. Il Conte della Margarita fu sempre fedele a Casa Savoia ed al vecchio Piemonte, del quale desiderava anche ingrandimenti territoriali (cf. la rivendicazione dei diritti alla corona di Spagna, le antiche rivendicazioni sulla Lombardia, gli eventuali ingrandimenti in Svizzera); ma era altrettanto fedele alla Chiesa e nemico della Rivoluzione, per cui capì che la via imboccata da Carlo Alberto avrebbe prima o poi portato al trionfo dei princìpi dell’89 e alla caduta della stessa Monarchia.

Mons. Luigi Fransoni, arcivescovo di Torino (1789-1862)


Luigi_Fransoni_20110927115144.__600_600
Mons. Luigi Fransoni

 Coetaneo ed amico del Solaro della Margarita fu l’arcivescovo di Torino, Mons. Fransoni, che don Margotti paragonò a San Tommaso Becket, arcivescovo di Canterbury, martire della libertà e dei privilegi della Chiesa, per la cui difesa perse l’amicizia del Re e soffrì l’esilio.
Mons. Fransoni, nato a Genova nel fatidico 1789, ebbe come padrino di battesimo l’ultimo Doge di quella città. Come Solaro, con la sua famiglia dovette esulare (1797) a Roma per sfuggire la Rivoluzione, alla quale sempre si opporrà patendo di nuovo l’esilio.
Ordinato sacerdote quando potè tornare a Genova nel 1814. A soli 32 anni, nel 1821, è consacrato Vescovo di Mondovì, su richiesta di Re Carlo Felice. L’avvento al trono dei Carignano non cambiò la fortuna del Fransoni presso la corte sabauda, giacché Carlo Alberto chiese ed ottenne, nel 1832, la sua nomina ad Arcivescovo di Torino. Per più di dieci anni il Re e l’Arcivescovo suo “cugino” (in quanto cancelliere dell’Ordine della SS. Annunziata (Mussolini non fu quindi l’unico “cugino” che il Re fece arrestare) collaborarono strettamente, anche grazie alla “sponda” del Ministro Solaro della Margarita. Si trattava di sanare le antiche profonde ferite e dissensi tra Trono e Altare che il giurisdizionalismo settecentesco aveva lasciato nel clero, nell’Università, nella magistratura, e senza il quale non si può comprendere la svolta laicizzatrice del governo sabaudo risorgimentale. Fu infatti un Vescovo di tal fatta, Mons. Pasio di Alessandria, che si scontrò col Fransoni a proposito delle scuole di metodo del sacerdote liberale Ferrante Aporti (il cui nome, a Torino, ricorda solo più il vecchio carcere minorile); era il 1844, ed i rapporti tra il Re e l’Arcivescovo si guastarono irrimediabilmente.
L’elezione di Pio IX nel 1846 divenne il pretesto, per i liberali, per convincere il Re ad abbracciare la loro causa, per cui col 1847 venne l’anno in cui tutto fu compromesso, con il licenziamento dal Ministero del Conte Solaro. Mons. Fransoni ammoniva chi applaudiva Pio IX (e Carlo Alberto con lui): “non il battere fragoroso di palma a palma, né l’incomposto acclamar tumultuoso sono gli applausi che possono a lui riuscir graditi, ma bensì l’ascoltare docilmente gli avvisi, e il pronto eseguirne, nonché i comandi, gli inviti” (7 giugno 1847). Già nel ‘47 il Vescovo denunciava la rinascita della rivoluzione del ‘21 diventando oggetto diodio e di numerose minacce di morte. Il “pazzo”, così era ormai chiamato il vescovo di Torino, fu vittima di una aggressione “popolare” ben organizzata, dopo la concessione dello Statuto, e quindi invitato risolutamente dal Ministro Ricci, ad allontanarsi “volontariamente” da Torino, rifugiandosi a Ginevra: si pensava ottenere in seguito la sua rimozione (questo lo scopo dell’invio del conte Siccardi a Portici presso Pio IX nel 1849). Il pretesto, invocato dal Governo e dal Parlamento per detta rimozione? Che il Vescovo di Torino (e quello di Asti) avevano abbandonato la loro Sede e la loro diocesi; e chi li aveva costretti ad allontanarsi? Il Governo!
Questo primo esilio durò fino al 1850. Il ministro di Grazia e giustizia, Giuseppe Siccardi (morì nel 1857 ritrattando il male da lui commesso) infatti preparava anche – con l’appoggio del governo D’Azeglio – le leggi che passeranno alla storia col suo nome: abolizione del foro ecclesiastico, del diritto d’asilo, di numerose feste di precetto e dell’obbligo di far rispettare il riposo festivo, divieto alle corporazioni ecclesiastiche d’accettare eredità senza il permesso del governo e, infine, progetto di legge del matrimonio civile.
Mentre si discutevano alle Camere le leggi anticattoliche che rendevano lettera morta l’articolo 1 dello Statuto, l’arcivescovo ruppe gli indugi, invano sconsigliato da Vittorio Emanuele II: nel settembre 1849 era a Chambéry, il 26 febbraio 1850 a Pianezza, nella sua diocesi, ed il 4 marzo a Torino; il 9 aprile, esitante, il Re firmò le leggi approvate il giorno precedente dal Senato con 51 voti contro 29, violando così il Concordato vigente. Subito, una circolare dell’Arcivescovo condannò la legge dando istruzioni al clero sul comportamento da tenere di fronte ai tribunali civili.
“È un atto di pazzia e di perversità incredibile” dichiarò Cavour, ed il liberale governo D’Azeglio sequestrò immediatamente la circolare del 18 aprile; il 24 Mons. Fransoni fu accusato di aver invitato alla disobbedienza della legge, il 4 maggio è arrestato, processato e condannato ad una multa con un mese di carcere in cittadella, divenendocosì prima vittima delle leggi Siccardi. Per Massimo d’Azeglio, il genero di Manzoni, il Vescovo aveva voluto fare il martire!
Ma i dolori di Mons. Fransoni erano solo all’inizio. Il ministro Pietro De Rossi di Santarosa aveva infatti votato le leggi Siccardi rassicurato in coscienza dal Vescovo di Fossano, Mons. Fantini. Nonostante ciò era incorso – come tutti i votanti favorevoli – nella scomunica; trovandosi in punto di morte, rifiutò la ritrattazione richiesta, e morì, privo di sacramenti, il 5 agosto 1850. Il Vescovo aveva solo fatto il suo dovere di pastore, il Parroco, religioso servita, aveva obbedito, entrambi pagarono: i serviti furono espulsi, la casa degli Oblati di M.V. (quelli del Lanteri) presa d’assalto, ed il 7 agosto l’Arcivescovo fu di nuovo arrestato come se spettasse al governo decidere a chi si possono amministrare i sacramenti e a chi no. A optare per l’arresto fu decisiva l’influenza di Cavour (dimentico, si direbbe, del “libera Chiesa”), ed il Vescovo di Torino fu grottescamente accusato di cospirazione contro lo Stato. Mons. Fransoni fu quindi deportato nel forte di Fenestrelle, dove dieci anni doposaranno internati i soldati napoletani fedeli al loro Re. Il Governo inviò allora il presidente della Camera, Pinelli, a Roma, per ottenere da Pio IX la condanna del Fransoni e la sua rimozione da Vescovo di Torino; si noti che Pinelli aveva anch’egli votato le leggi Siccardi. La missione naturalmente fallì. Tanto più che nel frattempo il Governo Sardo aveva arrestato, processato ed esiliato anche l’Arcivescovo di Cagliari, Emanuele Marongiu-Nurra (1794-1866).
Purtroppo non pochi Vescovi degli Stati Sardi si comportarono in modo ben diverso, ispirati da principi liberali o gallicani, il che costrinse Pio IX a mettere i puntini sulla “i” prima col Vescovo di Vercelli e poi (1 novembre 1850) con tutto l’episcopato subalpino. Mons. Fransoni rimase incarcerato a Fenestrelle dal 7 agosto al 28 settembre 1850: processato alfine “per abuso” fu condannato all’esilio, e fu privato dei beni della mensa vescovile, trovando rifugio a Lione. In esilio rimase per tutto il resto della sua vita, dal 1850, quindi, fino al 1862. Il Governo fece ogni sforzo per ottenerne la rimozione, o almeno per impedirgli di governare, seppur da Lione, la sua diocesi; Pio IX stesso, nel 1853-1854, fece capire a Fransoni che una sua rinuncia sarebbe stata auspicabile dato che la diocesi era, di fatto, senza Pastore; ma l’arcivescovo si disse pronto ad obbedire solo di fronte ad un ordine formale del Papa, ordine che Pio IX si rifiutò esplicitamente di dare.
Le leggi del 1855 chiusero la questione, giacché resero palese la volontà del Governo di distruggere comunque la Chiesa. Mons. Fransoni non si faceva alcuna illusione, anche su Carlo Alberto, come ebbe a scrivere al suo amico Solaro della Margarita che ancora amava il defunto sovrano che aveva servito così a lungo: “Carlo Alberto non amò l’Italia, amò di usurparla, non combattè per l’Italia, ma per impadronirsene, morì alfine vittima non del suo amore per l’Italia, ma della sua ambizione. No, Eccellenza, non giuri che non avrebbe tolto un palmo di terra alla Chiesa. Ella stessa ammette che avrebbe voluto stendere i suoi domini sino al confine Romano. Come dunque può credere, che mentre non si faceva scrupolo di rubare gli Stati dei Principi d’Italia, volesse poi farselo riguardo al Papa? Bella confidenza che avrebbe ispirato a quest’ultimo di diventare il suo primo difensore, col farsi ladro degli altri Stati per diventare suo confinante” (lettera a Solaro dell’11 luglio 1860).
Mons. Fransoni fu considerato un retrograda incapace di capire i tempi nuovi; dimostrò tutto il contrario, appoggiando e favorendo fin da subito l’opera di don Bosco (che tanti suoi confratelli consideravano un pazzo da rinchiudere in manicomio), mentre i suoi successori arcivescovi, più “aperti”, Ricardi e Gastaldi, perseguitarono il
fondatore dei Salesiani e non ne compresero lo spirito.


Don Giacomo Margotti (1823-1887)


Don Giacomo Margotti

 Fu ordinato sacerdote da Mons. Fransoni il Teologo canonico Giacomo Margotti. Nato a Sanremo nel 1823 visse però la maggior parte della sua vita a Torino dove morì nel 1887. Dopo gli studi alla R. Accademia di Superga, Margotti si dedicò interamente al giornalismo in difesa della Fede cattolica (anche se fu pure autore di numerosissime opere date alle stampe: Memorie per la storia dei nostri tempi, 1863; Roma e Londra).
Il 26 marzo 1848, infatti, Carlo Alberto aveva promulgato un decreto sulla stampa che diede il via al proliferare di giornali e quotidiani, per lo più inneggianti alle idee nuove (come il Risorgimento di Cavour, il Messaggero di Brofferio, la Gazzetta del Popolo di Botero). Anche i sostenitori della Fede si gettarono con entusiasmo nell’agone, per contrastare gli avversari. Nacque così nel 1848 L’Armonia della Religione con la Civiltà, nota semplicemente come L’Armonia, per iniziativa di Carlo Emanuele Birago di Vische (1797-1862), del Teologo Guglielmo Audisio, del Vescovo di Ivrea, Mons. Moreno e di don Margotti, che vi scriverà utilizzando spesso lo pseudonimo di Giuseppe Mongibello.
La libertà di stampa, naturalmente, era a senso unico, per cui il giornale era continuamente sequestrato: già nel 1849 Audisio fu destituito dal reggere l’Accademia di Superga e dovette riparare all’estero: lo sostituì alla direzione il giovanissimo Margotti.
Ancor più pugnace giornalista, si oppose al governo Gioberti, al governo d’Azeglio e alle leggi Siccardi, poi alle leggi del 1855 contro i religiosi, per cui venne aggredito e bastonato a sangue, il 27 gennaio 1856, con l’intento di ucciderlo. Ancora poco in confronto al destino dei lettori meridionali dell’Armonia; il prof. Spagnolo ha scoperto, compulsando diverse carte d’archivio, che la semplice lettura de l’Armonia era un capo d’accusa dopo l’occupazione Piemontese del Regno delle Due Sicilie. Nel 1857 don Margotti viene eletto nel Parlamento subalpino per il collegio di Oristano; ma, come detto, il Cavour annullò le elezioni dei suoi avversari sacerdoti (parroci e, come Margotti, canonici) pretestando che avevano abusato dei loro poteri spirituali. Questi ed altri soprusi (come la stessa chiusura dell’Armonia ordinata da Cavour nel 1859, che però non durò) convinsero don Margotti che era inutile e controproducente collaborare col partecipare alle elezioni alle usurpazioni rivoluzionarie; in occasione delle elezioni del 1861, le prime con gli elettori degli stati annessi al Piemonte (incluse le province rubate alla Chiesa) l’Armonia (7 gennaio) varò il programma che viene rammentato con la formula “né eletti né elettori” che venne fatta propria dalla Santa Sede (il famoso non expedit) dopo l’occupazione di Roma sotto Pio IX (10 settembre 1874, decreto della S. Penitenzeria; 29 gennaio 1877, Breve alla Gioventù Cattolica) e soprattutto sotto Leone XIII (S. Uffizio, 30 giugno 1888). I cattolici si sarebbero quindi riorganizzati fuori dal Parlamento, contro il Parlamento nel caso, non riconoscendo un governo che aveva usurpato gli Stati Pontifici aprendo per il fatto stesso la Questione Romana.
Nel 1863 don Margotti e i suoi più stretti collaboratori lasciano l’Armonia per fondare l’Unità Cattolica. La sede sarà sempre quella di Torino (il trasferimento a Firenze avverrà nel 1893, dopo la morte di don Margotti, mentre l’Armonia si era trasferita nella nuova capitale nel 1866, per chiudere i battenti nel 1870). Pio IX approvò nel gennaio del 1864 la decisione di don Margotti, e la finanziò con un contributo di 10.000 lire ottenute tramite il card. De Angelis, in domicilio coatto a Torino; dal 1861 don Margotti non si intendeva col Vescovo Moreno, liberaleggiante. Tuttavia, don Margotti e i suoi ritennero sempre che l’Unità Cattolica era l’erede dell’Armonia, tanto è vero che il giornale uscì come “giornale degli antichi scrittori dell’Armonia”. Il programma? Difendere la Fede, denunciare ogni tentativo di scisma ed eresia in Italia, giacché l’unità italiana era un pretesto sotto il quale si nascondeva l’intento di protestantizzare il paese, come insegnava Pio IX, e come dimostrava la libertà religiosa accordata ai valdesi ed ai protestanti fin dal 1848, con Cavour che inviava missionari protestanti inglesi nelle campagne piemontesi (come dimostra pure ampiamente Giorgio Spini, in Risorgimento e protestanti, Il Saggiatore, 1989), combattere la massoneria (“vecchia come il peccato”) e, dal 1870, denunciare l’usurpazione di Roma (da quel giorno il giornale uscì listato a lutto) e l’infallibilità del Papa. Sostenuto a spada tratta da Pio IX (al quale don Margotti voleva erigere un monumento nazionale nella chiesa torinese di San Secondo) fu invece avversato dal nuovo arcivescovo di Torino Mons. Gastaldi, sia sulla questione del potere temporale, sia sulla questione rosminiana sollevata da don Albertario a Milano, per la quale il Vescovo minacciò di sospendere a divinis don Margotti. Morì ancor giovane nel 1887 a 66 anni, lasciando 100.000 lire di allora in opere di carità, ma il suo giornale gli sopravvisse; furono direttori de l’Unità don Tinetti (dal 1887 al 1892), già suo successore all’Armonia, Enrico Mastracchi ed il grande Giuseppe Sacchetti nel periodo dal 1892 al 1907, iniziando così la lotta al modernismo, il grandissimo don Paolo de Toth dal 1908 al 1909, amico di Mons. Benigni e poi passato a Fede e Ragione, e don Cavallanti. Dopo la guerra e don Cavallanti, l’Unità Cattolica cambiò linea e in breve chiuse i battenti avendo perso la sua ragion d’essere: la battaglia continuava su Fede e Ragione.


San Giovanni Bosco (1815-1888)


San Giovanni Bosco

 Concludiamo questa breve rassegna con la figura accattivante a affascinante di don Bosco. Se il XIX secolo vide il Piemonte all’avanguardia del movimento rivoluzionario, lo vide anche, al contrario, come medicina provvidenziale, all’avanguardia della santità: basti ricordare i nome più famosi, tra i tanti, di don Bosco e di don Cafasso.
Quando i laicisti sopprimevano gli ordini religiosi col pretesto che erano improduttivi ed inutili nella moderna civiltà, si trovarono di fronte all’opera di don Bosco che dimostrava il contrario.
Sostenuto come detto da Mons. Fransoni e avversato da Mons. Gastaldi, don Bosco, con la sua opera salesiana, con le Letture cattoliche, col suo lavoro diplomatico al servizio della Chiesa nella persona di Pio IX e Leone XIII, combatté più di chiunque la rivoluzione anticattolica durante il “risorgimento”. Lo esemplifica la stessa sua devozione a Maria Ausiliatrice, la Madonna delle Vittorie, ovvero quella di Lepanto con San Pio V e quella del 1814 col ritorno del Papa a Roma con Pio VII: le date dei due avvenimenti sono iscritte nel frontone della basilica di Valdocco.
Fondò una chiesa, San Giovannino, e un Oratorio proprio a fianco del Tempio Valdese che la libertà religiosa concessa da Carlo Alberto nel 1848 permise di edificare a Torino nell’attuale corso Vittorio Emanuele. Per questo protestanti, massoni, anticlericali, cercarono di ucciderlo più volte, col fucile, col pugnale, col bastone (ad es. nel 1854) sempre salvato dalla Divina Provvidenza, dalla sua prudenza e dai suoi giovani, nonché dal misterioso cane Grigio.
Per questo Cavour cercò di chiudere l’Oratorio e l’opera salesiana e di arrestare don Bosco, facendo perquisire più volte il suo domicilio nel 1860: sapeva che aveva in casa il più sicuro sostegno di Pio IX e dell’esule Mons. Fransoni: la popolarità di don Bosco gli fermò la mano. Paradossalmente, il più grande persecutore di don Bosco furono i due successori del Vescovo Fransoni che l’ordinò sacerdote e che sempre lo sostenne: Mons. Ricardi di Netro e Mons. Gastaldi, che giunse a sospendere don Bosco dalle confessioni.
Soprattutto colpiscono le continue incessanti profezie di sventura (incluse di morti imminenti: Funerali a corte!) che don Bosco inviò a Vittorio Emanuele nel corso di lunghi anni, con affetto di figlio ma con severità di profeta: la guerra alla Chiesa avrebbe portato ogni sorta di sventura sul Re e la sua famiglia; ogni volta il re era turbato, ma mai seppe trovare il coraggio di recedere e di liberarsi dai lacci della Setta che lo stringevano.
Troppo ci sarebbe da dire, per cui mi fermo. Concludo con due osservazioni che mi stanno a cuore. La prima, ne ho già accennato, è che la chiave di lettura del Risorgimento deve essere quella del risorgimento come rivoluzione anticristiana, massonica e protestante contro la Chiesa in Italia: napoletani e piemontesi, lombardi e siciliani, ecc. siamo tutti cattolici e dobbiamo lottare non l’uno contro l’altro, ma uniti contro i nemici di Cristo. La seconda è che la storia è maestra di vita quando è maestra ascoltata. Quando Alianello, quasi isolato, ricordava agli italiani cosa fu veramente il risorgimento, quasi nessuno l’ascoltò. Oggi la critica al processo risorgimentale è quasi diventata una “moda” (per fortuna) che si sta sempre più facendo strada. Sia lode a chi scrive e pubblica in questo senso. Occorre però essere coerenti: non ci si può schierare con Pio IX, coi Borboni, gli Estensi o i cattolici intransigenti, e poi difendere i campioni della libertà religiosa e della laicità positiva che propongono gli Stati Uniti come modello dei rapporti tra Chiesa e Stato. Il 1848 inizia con la libertà religiosa per i Valdesi e gli Ebrei in Piemonte. Cavour scrisse: “Amico quant’altri mai della libertà religiosa più estesa, io desidero ardentemente di vedere giungere il tempo in cui sarà possibile praticarla da noi, quale essa esiste in America, mercè l’assoluta separazione della Chiesa dallo Stato, separazione che io reputo essere una conseguenza inevitabile del progresso della civiltà e condizione indispensabile al buon andamento delle società rette dal principio di libertà” (M.F. Mellano, Il caso Fransoni, p. 147). Cavour perseguitò la Chiesa? Certamente, finché essa non si fosse piegata a cedere sul principio della separazionee della laicità… positiva: è questa la condizione per non farle guerra e farle trovare spazio nella “società aperta” dei tempi nostri.
Non vorrei che certi cattolici di oggi perdano la bussola e attaccando Cavour ne facciano proprie però, sotto altro nome, le opinioni! Grazie.

Sodalitium