[…] Nel Nuovo Testamento la stessa arte di vivere si basa sull’imitazione: possiamo allora credere che la letteratura, che deve derivare dalla vita concreta, debba cercare di essere «creativa», «originale» e «spontanea»? L’«originalità» nel Nuovo Testamento è senza alcun dubbio prerogativa unicamente di Dio, e persino nell’ambito trinitario sembra essere limitata al Padre.
Il dovere e la felicità di tutti gli altri esseri consiste nel loro essere imitazione, nel riflettere come uno specchio. Non vi è nulla di più lontano dallo spirito delle Scritture di quella terminologia che descrive il santo come un «genio della moralità» o un «genio della spiritualità», volendo far credere che la sua moralità e spiritualità è «creativa» e «originale». Se ho letto correttamente il Vangelo, es-so non lascia spazio alla «creatività», anche se intesa in senso metaforico o attenuato. Tutto il nostro destino sembra essere diretto verso un’altra direzione, nel cercare di essere il meno possibile noi stessi, nell’acquisire una fragranza che non ci appartiene ma che prendiamo in prestito, nel diventare degli specchi lucidi la cui immagine riflessa è quella di un volto che non è il nostro. Non sto portando avanti la dottrina della corruzione totale, e non dico che sia questa la posizione del Nuovo Testamento: dico solo che il bene massimo per una creatura deve essere un bene creaturale, cioè imitativo e riflesso. In altre parole, come spiega molto bene sant’Agostino (De Civ. Dei 13, cap. 1), l’orgoglio non causa solamente la caduta ma è la caduta, una caduta da ciò che è il meglio, Dio, a ciò che e il peggio, la creatura in sé.
Applicando questo principio alla letteratura, nel suo complesso, noi dovremmo ottenere come fondamento per tutta la critica teorica la regola che un autore non dovrebbe mai concepire di far emergere una bellezza e una saggezza mai esistite prima, ma semplicemente e solamente di tentare di far riflettere attraverso la sua arte la saggezza e la bellezza eterna. La nostra critica sarebbe quindi sin dall’inizio, in favore di alcune teorie sulla poesia e contro altre. Sarebbe affine alla teoria antica od omerica per cui il poeta è il semplice discepolo della Musa. Sarebbe affine alla dottrina platonica di una forma trascendente in parte imitabile sulla terra; e si può riscontrare una più lontana affinità con la dottrina aristotelica della mimesis e la dottrina augustea sull’imitazione della natura e degli antichi. Sarebbe contraria alla teoria del genio così come viene comunemente intesa; e soprattutto sarebbe contraria all’idea della letteratura come libera espressione della personalità.
Vanno fatte tuttavia alcune distinzioni. Ho accennato all’idea degli antichi che la poesia tosse semplicemente la serva di qualche divinità, Apollo o la Musa: ma non dimentichiamo le parole altamente paradossali con cui il Femio di Omero asserisce di essere un poeta: «Da solo imparai l’arte, un dio tutti i canti m’ispirò in cuore» (Odissea, XXII, 347).
Sembra una chiara contraddizione. Come può essere un autodidatta se la divinità gli ha insegnato tutto quello che sa? Senza dubbio si riferisce al fatto che gli insegnamenti della divinità vengono dati interiormente e non attraverso i sensi, e quindi vengono considerati parte dell’io, in contrasto con quegli spunti provenienti dall’esterno, come potrebbe essere l’esempio degli altri poeti. Questo fatto sembra offuscare la distinzione che cerco di tracciare tra l’imitazione cristiana e l’originalità decantata dai critici moderni. Femio, evidentemente, afferma di essere originale nel senso di non essere il discepolo di altri poeti, e al tempo stesso ammette la sua totale dipendenza da un maestro soprannaturale. Non è questo forse l’unico tipo di «originalità» e «creatività» che può venire rivendicato?
Se voi diceste: «L’unico tipo che dovrebbe venire rivendicato», sarei d’accordo; ma, vista la situazione, la distinzione rimane, anche se si è fatta più sfumata rispetto a prima. Un poeta cristiano e uno non credente possono essere entrambi originali nel senso di negare l’esempio dei loro predecessori nella poesia e di rifarsi a risorse proprie della loro personalità, ma con una differenza. Il non credente può fare riferimento al suo carattere e alla sua esperienza, così come sono, e considerare che vale la pena trasmetterli in quanto tali o, peggio, in quanto suoi. Per il cristiano il carattere e l’esperienza, in quanto tali, in quanto suoi, non hanno alcuna importanza: egli li utilizzerà, se vorrà farlo, solo in quanto rappresentano un mezzo, o una piattaforma da cui si può trarre qualcosa dal valore universale.
(tratto da: C. S. LEWIS, Riflessioni cristiane, Milano, Gribaudi, 1997, pp. 25-27)
a cura di Luca Fumagalli
Fonte: