Reduce da una estenuante chiacchierata – l’ennesima – con una cara ragazza separata senza figli che ha da tempo una relazione con un uomo separato con figli, ragazza insiste nel dire che lei ha diritto all’Eucaristia perché va sempre a Messa e che se anche il prete dell’ultima Confessione le ha negato l’assoluzione lei la Comunione la fa lo stesso perché la volta prima un altro prete l’assoluzione gliel’aveva data, sento il bisogno di riordinare le idee a beneficio in primis di me stesso.
Per prima cosa, sgombriamo il campo dall’equivoco – chiamiamolo così – per cui il matrimonio sarebbe una invenzione della Chiesa ed i Vangeli non ne parlerebbero, quantomeno non in termini di indissolubilità. Ora, Cristo in persona ha sancito l’indissolubilità del matrimonio: Marco 10, 2-9; Matteo 19, 6; Luca 16, 18. Quindi, non dico un cattolico ma almeno un cristiano non può asserire liberamente che “è stata la Chiesa ad imporre il matrimonio indissolubile”. E’ stato Cristo, pigliatevela con Lui. Se poi volete andare d’accordo con Dio facendo a meno di Cristo, il problema è su un altro piano. Ma restiamo nella premessa: spiegare ad un cattolico perché un divorziato risposato o riaccompagnato, o un separato riaccompagnato, non possono accostarsi all’Eucarestia.
Gesù stesso, come dai passi che ho riportato, ci dice che il matrimonio è indissolubile, perché gli sposi “saranno una sola carne”: il Sacramento del matrimonio imprime alle loro anime – e non solo alle loro storie – un sigillo ed un suggello, dopo i quali nulla sarà più come prima. Quod factum est infectum fieri nequit. Seppur gli sposi iniziassero a comportarsi da separati o, peggio, da non sposati (come dopo il divorzio), ebbene il Sacramento resterebbe e resta comunque esistente e valido, li lega per sempre. Gli sposi possono solo offendere il Sacramento, disprezzandolo ed ignorandolo, ma non possono cancellare quell’unione che esso ha determinato.
Quindi il divorzio non cancella il matrimonio, bensì lo offende. E l’offesa del Sacramento è peccato, che investe tutti coloro che, ad ogni titolo, vi abbiano cooperato (capito, Colleghi divorzisti?).
Certo va fatta una precisazione: poiché nel nostro ordinamento – come in tutti gli altri – si può sciogliere il matrimonio civile praticamente ad libitum, anche ove il coniuge si opponga, può accadere e sovente accade che uno dei due sposi il divorzio lo subisca. E’ chiaro che chi subisce il divorzio e non ha concorso all’allontanamento del coniuge non ha alcuna responsabilità morale (ci mancherebbe!) e può accedere all’Eucaristia, sempre però che non si accompagni ad altri.
Dunque, determinare lo scioglimento del matrimonio civile è male, perché offende il Sacramento.
Ora, posto che offendere il Sacramento del matrimonio è contravvenire al Bene che Cristo ha scelto per noi, è parimenti male comportarsi come se il matrimonio, che è ancora in piedi e lo resta anche dopo il divorzio, non esistesse più. A questi effetti, separato o divorziato pari sono: il coniuge che si accompagna ad un’altra persona commette peccato, perché il suo sposo resta un altro, non quello col quale ora si frequenta e magari va a letto.
Perciò si offende il Sacramento non solo determinando il divorzio o la separazione, ma anche se si ha un nuovo partner in costanza di separazione o dopo il divorzio, sia che divorzio o separazione siano stati cagionati, sia che li si sia subiti.
Va da sé che è in peccato anche la persona, mai sposata, che si accompagna ad un divorziato o separato: se il matrimonio è indissolubile, questa persona non fa altro che violare ed oltraggiare un legame che esiste, ed esiste davanti a Dio per tutta questa vita terrena.
Tutte queste cose non le dico io: le dicono il Magistero, il Catechismo ed anche buon senso e logica, se si parte dalla premessa storica e documentale che Gesù Cristo in persona ha sancito l’indissolubilità del matrimonio.
Ora, mi pare evidente che in queste condizioni non si possa accedere alla Comunione, almeno per due gravi ragioni: 1) si è in peccato, e nel peccato non si può ricevere l’Eucaristia; 2) l’Eucaristia è un Sacramento, ed è quantomeno contraddittorio ambire ad un Sacramento mentre se ne offende un altro.
A queste gravi condizioni si accompagna il moto di ribellione che anima chi pretende l’assoluzione in tali condizioni: “la morale cattolica me la faccio io, non me la fa il Magistero, perciò se con mia moglie non ci stavo più bene o se lei mi ha piantato o mi ha tradito, perché sono condannato a star da solo? Perché non posso prendere la Comunione?”, fino alle derive di massima confusività tipo “ho pregato tanto ed ho sentito che Dio mi appoggia e che questo nuovo compagno me l’ha donato Lui”. E questa spinta sovversiva è patrimonio proprio di ogni condizione di peccato e di ogni peccatore impenitente.
Se abbiamo a cuore la nostra anima, ma anche le anime di coloro che, guardando alla nostra condotta, possono esserne traviati, dobbiamo rimediare. E come si rimedia? Come ad ogni peccato: se ci pentiamo, Dio ci perdona. Se torniamo da Lui, ci accoglie sempre. Chiaramente, il pentimento vero è accompagnato dalla desistenza dalla condotta di cui ci si pente. Non si può sostenere di essersi pentiti di aver offeso il matrimonio e simultaneamente continuare a oltraggiarlo. Quindi, se si tratta di un divorziato riaccompagnato, il primo passo è che egli lasci, pur con ogni umana cautela, il nuovo partner; il secondo è, se possibile, che si riavvicini al precedente, o che viva la condizione di separato o divorziato senza avere nuove relazioni. Se invece si tratta di un coniuge che abbia determinato il divorzio, la via è tentare comunque la riconciliazione con lo sposo lasciato, sempre ove ciò sia ancora possibile. Chi si accompagna ad un divorziato o ad un separato, lo lasci e si trovi una persona libera. Si tratta, insomma, di porre fine ad una condizione e ad un comportamento che Gesù stesso ci ha indicati come malvagi, e di limitarne o ripararne le conseguenze. [continua...]
Massimo Micaletti
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