martedì 30 aprile 2013

Giuseppe Garibaldi tra camicie rosse e sottovesti. Il caso della contessina Raimondi



 

E’ noto come un atto fondamentale per il rafforzamento della politica interna del Piemonte sabaudo e quindi per porre le basi per l’invasione della penisola italiana, fu il famoso “connubio” Rattazzi-Cavour (1852) con la quale il conte piemontese riuscì a formare un governo costituito da esponenti della sinistra moderata e della destra liberale, isolando così nel Parlamento subalpino la destra clericale, baluardo contro la politica anticattolica verso cui aveva intenzione di indirizzarsi il Cavour, allo scopo di attrarre la fiducia dei liberal-massoni. L’evento ebbe sicuramente una certa importanza nel sancire l’esito del biennio 1859-61 (anche se forse di minore rilevanza rispetto alla politica estera e agli interessi economici), ma qui vorremmo occuparci di un connubio ben più prosaico: il matrimonio tra Giuseppe Garibaldi e la contessina Raimondi. L’esito dell’unione tra i due, come vedremo, ebbe una certa importanza nel far sì che il nizzardo scegliesse effettivamente d’intraprendere l’ “impresa” offertagli da Cavour, anche se fin da subito è bene specificare come la spedizione dei Mille, sfrondata del belletto della retorica, risulti molto meno decisiva al fine della sabaudizzazione della penisola rispetto alla pressione diplomatica e operativa dell’Inghilterra e alle esigenze dei poteri economici alleati di Cavour. La vicenda che racconteremo è peraltro pienamente in sintonia con l’esistenza sentimentale del Garibaldi, torbida e passionale, sempre sospesa tra ingenuità e pulsione irrazionale.
La contessina Giuseppina Raimondi di Fino Mornasco, figlia di un mazziniano esiliato, era nel 1859 una giovane diciottenne che svolgeva, nel teatro degli scontri della Prima Guerra d’Indipendenza, l’attività di portaordini per i patrioti lombardi, intrecciando il patriottismo con una certa facilità a concedersi agli aitanti garibaldini. Il 2 giugno la Raimondi si recò, in compagnia di un prete, a Malnate, dove Garibaldi si era ritirato dopo essere stato respinto da Laveno, per chiedere l’intervento del generale a Como, dato che l’effimera vittoria di San Fermo del 27 maggio aveva solo respinto gli austriaci ma non assicurato il controllo della città alle truppe filo-piemontesi. Dopo la serata passata in romantiche conversazioni con la Raimondi, Garibaldi non temporeggiò e diresse al vice Camozzi uno stringato ma significativo biglietto: “Marcio su Como”. La decisione, presa “sulla base di pulsioni testosteroniche più che tattiche” (G.Oneto), gli permise comunque di evitare l’accerchiamento delle truppe del generale Urban e, ben più importante per lui, di sostare per cinque giorni a casa della Raimondi, dove potè conoscere anche il padre, da poco tornato dall’esilio svizzero e desideroso di guadagnare un seggio in senato con una saggia politica famigliare, incurante dei 34 anni di differenza tra la figlia e Garibaldi. Le vicende belliche lo costrinsero a prendere la via di Bergamo e di Brescia, una passeggiata senza scontri significativi che poco significò nella guerra conclusasi l’11 luglio con l’armistizio di Villafranca tra Napoleone III e Francesco Giuseppe. Con la fine della guerra Garibaldi poté dedicarsi totalmente ai suoi progetti sentimentali intrattenendo relazioni e corrispondenze con almeno quattro donne contemporaneamente: la bolognese Pepoli, la Raimondi, Speranza von Schwartz, che più volte rifiutò di sposarsi col nizzardo, e la servetta Battistina Ravello, che gli aveva appena sfornato la figlia Anna Maria Imeni, detta Anita. Ciò che fermava però l’ “eroe” da un impegno più concreto con una delle tre era però il legame matrimoniale che lo univa ancora alla vera Anita, la morte turbolenta della quale aveva reso impossibile al Garibaldi produrre un certificato di morte che avrebbe sancito il termine legale del connubio. Proprio nell’estate riuscì, riesumando la salma di Anita e trasferendola a Nizza, ad ottenere la possibilità di risposarsi ma i problemi politici lo tennero lontano dalla prospettiva matrimoniale. Era rimasto infatti indispettito da alcuni comportamenti di Vittorio Emanuele e Cavour nei suoi confronti, i quali infatti, dopo averlo lusingato col progetto della Nazione armata, una lega di tutte le associazioni patriottiche messa a disposizione del barbuto generale, impedirono qualunque messa in atto dei progetti garibaldini. Il 28 novembre, mentre stava per imbarcarsi per la Maddalena, un improvviso ed eloquente biglietto della Raimoni (“Ti amo, fammi tua”) lo sorprese a Genova, convincendolo a desistere da un volontario esilio e conducendolo a Fino dove la sorte collaborò con Cupido (o forse con la furbizia della Raimondi) in quanto una caduta da cavallo il 4 dicembre lo costrinse a letto per tre settimane, sempre assistito dall’amorevole e interessato conforto della contessina. Il cuore passionale del Garibaldi a quel punto non poté districarsi dal groviglio amoroso e acconsentì ad unirsi nel vincolo nuziale il 24 gennaio 1860, nella chiesa della stessa cittadina comasca. La gioia della celebrazione imenea fu però turbata da una vicenda tragicomica, che a dire il vero per Garibaldi ebbe ben poco di comico. Immediatamente dopo le nozze a Garibaldi venne comunicato, tramite un foglietto, che la novella moglie era incinta di un altro garibaldino, Luigi Caroli, e che lo aveva tradito (forse anche la sera prima del matrimonio) con almeno un altro uomo. Il generale nizzardo mostrò il biglietto alla sposa che non poté negare il fatto, al che Garibaldi scoppiò in un perentorio: “Signora voi siete una puttana!”. A questo la ragazza rispose con un’orgogliosa quanto infelice risposta: “Pensavo di essermi sacrificato per un eroe, invece non siete che uno zoticone!”. A quel punto Garibaldi partì subito a cavallo non volendo più rivedere per tutta la vita la moglie, che nell’agosto partorì un bambino morto, che teoricamente avrebbe potuto essere frutto delle focose notti di dicembre del convalescente e della Raimondi infermierina. Garibaldi spesa la vita nel cercare di ottenere il divorzio, il che gli avrebbe permesso una nuova cartuccia matrimoniale dopo aver sprecato malamente la seconda, cosa che avvenne solo nel 1880. Si vendicò però facendola pagare a tutti quelli che furono implicati nella vicenda: al Caroli venne impedita qualsiasi partecipazione patriottica, tanto da dover andare a morire in Polonia in una spedizione suicida, mentre il conte Raimondi, già inserito nelle liste delle nomine senatoriali, vide troncata ogni possibile ascesa. Dicevamo che la vicenda ebbe immediate connessioni con la spedizione in Sicilia infatti il Garibaldi affranto dalle vicende personali nei mesi seguenti venne stordito anche da quelle politiche, in particolar modo la cessione di Nizza a cui seguirono le sue dimissioni da deputato. Pressato dagli insorti siciliani, agitato dai mazziniani e intiepidito dal re, Garibaldi, rispetto al suo tipico decisionismo scervellato, si dimostrava stranamente irresoluto e tentennante davanti alla possibilità di guidare una spedizione di volontari per strappare la Sicilia ai Bguelorboni, legandole il cappio sabaudo sotto il pretesto della liberazione dell’isola. Il Cavour nel frattempo, tramite la rete che lo univa ai rivoltosi siciliani e alla marina britannica, aveva già organizzato per filo e per segno la “passeggiata” duo siciliana e aveva solo bisogno di un protagonista: davanti ai dubbi di Garibaldi il ministro piemontese aveva già pensato anche ad un sostituto, Ignazio Ribotti, noto avventuriero nizzardo. Davanti alla possibilità di essere eclissato da un concittadino, Garibaldi in un ultimo sussulto di orgoglio mascolino, troppo abbassato dalle vicende del gennaio, accettò in aprile di guidare la spedizione: Cavour trovò così lo spaventapasseri che cercava mentre Garibaldi trovò pane per i suoi denti, cioè un impresa senza rischi ma utile a far continuare il suo mito.