Iconografia e nova religio risorgimentale
Il numero 5 (Settembre-Ottobre 2010) di “Vita e pensiero” già dalla copertina non lasciava adito a dubbi. Pio IX, Vittorio Emanuele di Savoia e Garibaldi a braccetto e a passeggio, come vecchi amici. Mancava solo Mazzini: l’allucinato “apostolo del pugnale” sarà stato, come sempre, in fuga, ricercato dalle polizie di mezza Europa. L’immaginetta propagandistica ottocentesca era tipicamente “conciliatorista”, di quegli anni in cui, effettuata la conquista a colpi di cannone, con la mazza ferrata delle invasioni e la pantomima dei plebisciti, ci si sforzava di fare capire alla gente che in fondo il dissidio era ben poca cosa e che ora, nell’era nuova, riconquistata la patriottica “libertà della patria”, tutte le differenze dovevano essere accantonate. Pena il diventare “elementi antinazionali” con tutte le spiacevoli conseguenze connesse. Venivano diffuse a piene mani le immagini di Garibaldi aureolato e cristificato, contornato via via da una ricca pletora di “martiri” e caduti di nuovo conio: da Ciro Menotti ai fratelli Bandiera, da Amatore Sciesa ai “martiri di Belfiore”, da Luciano Manara a Ciceruacchio, dai congiurati Targhini e Montanari ai bombaroli Monti e Tognetti. Non mancava però chi risaliva a “martiri” antichi, tutti apostoli del “Libero pensiero” e della “Nuova Italia”: Eleonora Fonseca Pimentel, i giacobini delle repubbliche napoleoniche, gli “arsi” Giordano Bruno, Aonio Paleario, Pietro Carnesecchi e via risalendo ai Cola di Rienzo, agli Arnaldo Da Brescia e a tutti i principali anticipatori (protestanti o proto-protestanti o cripto-protestanti) della “rinascita spirituale italiana”. Una nuova religione, insomma, con altari, labari, sacrifici, feste ed un “funesto obbrobrio architettonico”, inferto come una bianca pugnalata nel cuore della Roma Papale. Parlo ovviamente dell’ “altare della Patria”. Il “risorgimento” (e molti degli articoli di questo numero del giornale lo dimostrano ad abundantiam) è stato essenzialmente una guerra di religione attraverso la quale Massoneria, Protestantesimo e vari esclusi della Storia, attraverso la fola del nazionalismo unitario, volevano creare un’altra italia, pregna di una pagana religione civile, normalizzando la curiosa anomalia politica di una penisola, piuttosto impermeabile allo spirito di novità e di rivoluzione che aveva già pervaso altri paesi nei decenni precedenti.
Dall’invasione di Roma all’invasione della Chiesa
Sull’’articolo di Gianpaolo Romanato (“I cattolici per l’italia unita”) ci permetteremo di scrivere solo pochi appunti. Egli, e non ci stupisce perché sul mercato ce ne sono molti, è un cantore entusiasta della più grave sconfitta del cattolicesimo nelle terre italiane e, alla lunga, del cattolicesimo tout court. Parliamo ovviamente della soppressione dello stato pontificio avvenuta nel settembre 1870 che segnò non il completamento di un percorso rivoluzionario ma semmai un suo incipit.
Le forze che infatti volevano Roma, non la volevano certo per farne la capitale di un mediocre staterello mediterraneo in balia delle potenze (quale è stato l’Italia, malgrado tentativi imperiali nella prima metà del Novecento) ma la volevano per continuare un’intensa opera di scristianizzazione e laicizzazione della società. A questo assalto Pio IX saggiamente rispose con la denunzia della sua prigionia e con il “Non expedit”, ovvero con tutte le misure di arroccamento e profilassi che una societas perfecta poteva e doveva mettere in campo e con una “cultura dell’assedio” che era constatazione di una realtà. L’assedio continuò anche dall’interno, prima attraverso un acquiescente clero liberaleggiante e incline alla “Conciliazione” negli anni ottanta e novanta del diciannovesimo secolo (ricordiamo gli episcopati di Bonomelli, Scalabrini, Nazari di Calabiana e altri ancora), poi attraverso il sottile veleno dell’invasione modernista negli anni dieci (sempre attraverso episcopati ora deboli, ora compiacenti come quelli, ad esempio, di Maffi, Radini Tedeschi o Ferrari a Milano), poi ancora attraverso una seconda ondata neomodernistica degli anni quaranta e cinquanta del Novecento(tipica di un certo episcopato francese, tedesco e genericamente mitteleuropeo), intronizzatasi stabilmente negli anni Sessanta in Vaticano.
Montini: un’analisi interessata
A quest’ultima “comunità spirituale”, totalmente estranea allo spirito di intransigenza e integralità cattolica che aveva caratterizzato le battaglie antiliberali e antimoderniste degli anni precedenti, apparteneva per mentalità, storia personale e origine familiare l’auctoritas che Romanato usa come architrave per il proprio articolo
Si tratta di un discorso che Giovanni Battista Montini, allora collocato sulla cattedra di Sant’Ambrogio, tenne a Roma in Campidoglio nella Sala degli Orazi e dei Curiazi alla presenza del Presidente della Repubblica Antonio Segni e del Presidente del Consiglio Amintore Fanfani il 10 ottobre 1962. In quel discorso Montini, di formazione maritainiana, popolare e democristiana ovvero liberale, affermava la provvidenzialità della perdita del potere temporale per la Chiesa, un “ingombrante fardello”, un “impaccio”, “un’anacronistica sopravvivenza dell’ancien regime pre-rivoluzionario”. Eppure la perdita di un vero stato aveva indebolito enormemente la Santa Sede e de facto aveva incatenato i cattolici di lingua italiana al mutare dei governi e delle ideologie (dal totalitarismo liberale a quello fascista, per finire al totalitarismo democristiano e costituzionale e oggi al totalitarismo dei poli di latta e di cartone), togliendo loro identità, chiarezza dottrinale, spirito di reazione nei confronti di quelle forze che avevano prodotto il “risorgimento” stesso.
Come ogni buon seguace di Maritain, Montini era desideroso di chiudere in un sarcofago l’epoca costantiniana e bonifaciana e di sciogliere il cattolicesimo in vaghissimo spiritualismo antropocentrico a tinta cristiana, socialmente impegnato a costruire una chimerica civiltà dell’uomo, naturalistica ed irenista, democratica e priva di conflitti.
Il concordato del 1929: Simul stabunt simul cadent
Romanato è costretto poi ad ammettere, a denti strettissimi, che la Santa Sede non rinunziò al dominio temporale neanche nel 1929 coi Patti lateranensi. Questi ultimi (al di là della copertura propagandistica passata poi sotto il nome di “Conciliazione”) contengono certo una sorta di legittimazione dello stato ma, soprattutto nel caso italiano, essi furono un accordo sul terreno pratico perché la Chiesa potesse esercitare la sua missione primaria, al di là della legittimazione teorica dell’esistenza di uno stato. Anche con uno stato comunista e ateo la Chiesa potrebbe stringere un concordato così come sostiene concordati con stati che oggidì violano il diritto naturale (ad esempio con l’aborto), ponendosi in una situazione di illegittimità di fatto o addirittura di “tirannia”, se con tale termine indichiamo la violazione del diritto naturale.
Il riconoscimento dello stato italiano è avvenuto in assoluta correlazione col Concordato (secondo la nota formula di Pio XI “simul stabunt simul cadent” ovvero se cade il Concordato, cade il Trattato) in cui la Santa Sede ha rinunziato alla rivendicazione di un diritto territoriale legittimo e quasi nativo in nome dell’esercizio della sua funzione primaria sui territori italiani.
In ogni caso non si può dire che col concordato del 1929 siano state legittimate le aspirazioni risorgimentali: qualunque forma politica fosse rimasta nei territori italiani, avrebbe prima o poi firmato un concordato con la Santa Sede, come prima già esisteva con l’Impero Asburgico e il Lombardo Veneto.
La Provvidenza e la Storia
In conclusione, dal momento che chi scrive ritiene non si possa non tener della Provvidenza come categoria interpretativa dei fatti storici, si può tranquillamente affermare che questi 150 anni siano stati una PROVA per il cattolicesimo di lingua italiana. Per ora, umanamente parlando, la prova deve intendersi ome in gran parte fallita.
Piergiorgio Seveso
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