giovedì 18 aprile 2013

Primo Levi “demitizzato”. E quindi?

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Uscito oggi sul quotidiano Rinascita, ripreso da Cloroalclero, AndreaCarancini.blogspot.it, Losai.eu:
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Primo Levi “demitizzato”. E quindi?
di Andrea Giacobazzi
Della complessità della storia abbiamo parlato recentemente: con una puntualità che pare quasi programmata, eccoci giungere una piccola conferma di quanto scritto su certi “approcci dogmatici”.
Notizia recente: Gad Lerner ha reagito con un articolo abbastanza irritato – apparso sulle pagine de La Repubblica – all’uscita dell’ultimo libro di Sergio Luzzatto[1], colpevole di aver posto sotto una luce a lui sgradita un fatto riguardante il coinvolgimento di Primo Levi nell’eliminazione fisica di due ragazzini (Fulvio Oppezzo e Luciano Zabaldano) nel corso di un’operazione partigiana.
Riferendosi all’autore, Lerner commenta: “mi permetto di adoperare il termine «ossessione» sapendo che […] non si offenderà perché lo scrive due volte egli stesso per motivare la spinta a un’indagine che non ha molto da rivelare sul piano storico – le atrocità della Resistenza come guerra civile sono già dissodate – sollecitandoci invece a una discutibile revisione iconografica e sentimentale”.
L’iconografia – si sa – spesso si intreccia con la sacralità. Quando poi si suggerisce il sospetto d’iconoclastia, il passo verso l’oltraggio blasfemo diventa breve, anzi brevissimo. Et voilà, il dogmatismo citato qualche riga fa si trasforma in un paradigma ineludibile.
Lasciare intendere che le quasi intangibili «fonti della memoria» non sono santini devozionali finisce quindi per essere inopportuno e “discutibile”, del resto – citiamo ancora Lerner – il pericolo è chiaro: [gli iconoclasti] “già me li vedo intenti finalmente a demitizzare il grande scrittore della Shoah”[2].
 “Demitizzare”? Pare che, ancora una volta, si espliciti ciò che Ariel Toaff correttamente definiva come “ebraismo virtuale”[3], un’opera di frettolosa imbalsamazione della storia ebraica, ridotta a facile e pericolosa narrazione mitopoietica. Al conduttore de L’Infedele risulta particolarmente indigesta la contestualizzazione della “presunta autocensura di Levi motivata con la pubblicazione del libro Il Sistema periodico [in cui lo stesso Levi ricorda l’evento descritto] nell’anno 1975, ovvero nel pieno delle celebrazioni del trentennale della Resistenza.
Probabilmente più preoccupante di questi atteggiamenti è la generale – e in parte involontaria – riduzione dell’individuo ad un pezzo del suo passato, quasi che i vari Primo Levi fossero esistiti in funzione della deportazione, da ricordare fino a spersonalizzarli.
Pur in un ambito non sovrapponibile alle vicende resistenziali qui affrontate, questa imbalsamazione è stata ben descritta da Norman Finkelstein che, denunciando le storture interpretative della storica Deborah Lipstadt, affermava: “Mettere in discussione la testimonianza di un sopravvissuto, denunciare il ruolo degli ebrei collaborazionisti, far presente che i tedeschi soffrirono sotto il bombardamento di Dresda o che nel corso della Seconda guerra mondiale altri Stati oltre la Germania commisero crimini: tutto ciò […] equivale a negare l’Olocausto. Allo stesso modo, asserire che Wiesel ha tratto profitto dall’industria dell’Olocausto, o anche soltanto mettere in discussione le sue parole, equivale a negare l’Olocausto”[4].
Se si vuole cambiare metafora, si può dire che la plurimillenaria storia ebraica sembra essere rappresentata come un mosaico sacro in cui lo spostamento di ogni singola tessera è visto con estremo sospetto, in particolare se le “correzioni” sono fatte in quella che è la base dell’opera: la persecuzione durante l’ultimo conflitto mondiale. Ne consegue una tensione dialettica – con risvolti politici – in cui un antisemitismo increato pervade quasi ogni aspetto del passato e del presente, arrivando infine ad essere ciò che l’ex ministro israeliano Shulamit Aloni ha definito “un trucco”: “It’s a trick, we always use it. When from Europe someobody criticize Israel, then we bring out the holocaust. When in this country, people are criticizing Israel, then they are anti-semitic”[5].
Torniamo ai fatti. Sì, è la verità: Primo Levi fu coinvolto in un duplice assassinio e ne scrisse con umano dolore: “Eravamo stati costretti dalla nostra coscienza ad eseguire una condanna, e l’avevamo eseguita, ma ne eravamo usciti distrutti, destituiti, desiderosi che tutto finisse e di finire noi stessi; ma desiderosi anche di vederci fra noi, di parlarci, di aiutarci a vicenda ad esorcizzare quella memoria ancora così recente”[6].
Se l’analisi degli avvenimenti passati, anche dei più controversi, è l’ordinaria occupazione dello storico, l’“ossessione” – absit iniuria verbis – non va necessariamente individuata in chi si limita a far il suo mestiere.

[1] Sergio Luzzatto, «Partigia». Una storia della resistenza, Mondadori, 2013.
[2] Gad Lerner, Primo Levi e l’”ossessione” di Sergio Luzzatto, 16 aprile 2013, gadlerner.it
[3] Ariel Toaff, Ebraismo Virtuale, Rizzoli, 2010.
[4] Norman Finkelstein, L’Industria dell’Olocausto, Rizzoli, 2007, pag. 95.
[5] Amy Goodman – Shulamit Aloni,  Aloni on use of the anti-semitism charges to suppress criticism of Israel, Democracy Now, 14 agosto 2002. Visibile su YouTube: http://www.youtube.com/watch?v=qb4GrtKK42Q
[6] Primo Levi, Opere , Volume 1, Einaudi, 1997, pag. 853
 
Fonte: