martedì 30 aprile 2013

Terrorismo liberale: in ricordo dei morti di Milano (6-9 maggio 1898)

 
Barricate degli insorti  ed aggressione dei bersaglieri, Milano 1898, foto di Luca Comerio


Non solo il presente è testimone delle efferate violenze liberal-democratiche (Iraq, Afghanistan, strangolamenti economici liberisti) ma anche la storia ha molto da mostrare a noi ingenui posteri; i primi decenni di vita del regno sabaudo furono costellati dalla repressione violenta e legalizzata di moti popolari fossero essi espressione del pensiero controrivoluzionario e legittimista, come quello dei briganti duosiciliani sterminati dal gen. Enrico Cialdini in ottemperanza alla legge Pica del 1863, spontanee insurrezioni, come i moti del macinato del 1868-69 contro la omonima tassa, oppure manifestazioni organizzate legate alle prime forme di associazionismo operaio e contadino. Queste ultime, in cui si diluirono le insurrezioni spontanee, incominciarono a dimostrare una certa pericolosità per l’integrità del regno negli anni ’80 quando ai primi scioperi nel Nord Italia (Cremona e Rovigo) seguirono manifestazioni sempre più virulente ed endemiche, anche a causa del crollo della fiducia nelle istituzioni motivato dalle sconfitta di Dogali (1887) e dagli scandali della Banca Romana (1889). L’ultimo decennio del secolo si aprì con la fondazione dei Fasci Siciliani di contadini e operai, la cui grande capacità aggregativa costrinse l’allora capo di governo, Francesco Crispi, a ricorrere alle maniere forti attraverso leggi “contro la sovversione sociale”, ossia contro l’associazionismo proletario.
La morte politica colpì però Crispi in seguito alla sconfitta di Abba Garima del 1896 quando il fortore delle critiche inviperite e la durezza degli scontri, soprattutto a Milano dove il popolo bloccò i binari della stazione centrale per impedire la partenza dei soldati (rimediandone parecchie baionettate), costrinsero il primo ministro alle dimissioni. A quel punto il sovrano Umberto I, nonostante avesse preferito un primo ministro ancora tenacemente bellicista, dovette nominare il marchese siciliano Antonio Starrabba di Rudinì che, pur nell’aleatorietà delle posizioni politiche in quell’epoca, avrebbe dovuto rappresentare la linea liberal-conservatrice; il marchese di Rudinì si era segnalato al truce sguardo di casa Savoia già dal 1866 quando da sindaco di Palermo aveva rifiutato qualsiasi compromesso coi separatisti attuando una repressione nel sangue degli insorti.
Fin da subito assunse un atteggiamento contraddittorio cercando di compiacere le fazioni organizzate di sinistra, con la concessione dell’amnistia ai condannati politici, eppure colpendo la popolazione nei suoi bisogni basilari, con un aumento del dazio sul granoturco da L. 1,15 a L. 7,50, il che ebbe effetti catastrofici considerando che dopo il pane (già colpito dall’aborrita imposta sul macinato) la polenta era l’alimento più consumato.
La montante collera popolare, inasprita dallo scarso raccolto del 1897, portò a una revisione della politica governativa in direzione destrorsa attraverso provvedimenti di soppressione delle camere di lavoro: ciò provocò l’alienazione di qualsiasi appoggio dei socialisti di Turati, mentre rimanevano in attesa i repubblicani radicali e i democratici. Le gravi condizioni d’indigenza premiarono però la posizione del partito socialista rispetto alle altre correnti di sinistra mostrando un inequivocabile scivolamento a sinistra: “i democratici sono moribondi, i repubblicani assorbiti giorno dopo giorno dai socialisti, questi avanzano!” scrisse il Corriere della sera l’indomani delle elezioni politiche del 1897. Ad ogni modo di Rudinì coinvolse la sinistra non socialista nel suo nuovo governo del 1898, nel quale affidò a Giuseppe Zanardelli il ministero di Grazia e Giustizia, equilibrando in tal modo, con un’azione al limite del trasformismo, le forze conservatrici. Integrati nel sistema erano anche i cattolici liberali, ribelli al Non expedit di Pio IX, i quali rinchiusi nella loro ottica elitaria e borghese erano incapaci di interpretare i moti popolari come spontanea espressione della disperazione, preferendo evidenziarne l’azione eversiva e chiedendone, di conseguenza, la repressione.
Il cattolicesimo intransigente invece, avendo rifiutato il coinvolgimento nei tetri meandri del potere liberale e preferito le vie dell’azione caritativa e assistenziale all’interno dell’Opera dei congressi , capì alla perfezione la situazione intuendo, al di là dell’aspetto rivoluzionario e socialista che molti moti avevano, quanto male lo stato liberale stesse provocando alla popolazione; principale voce guida del cattolicesimo intransigente era il giornalista Don Davide Albertario che abitualmente tuonava dalle colonne de L’osservatore cattolico evidenziando come “il liberalismo si dibattesse nell’agonia e portasse i germi di una prossima dissoluzione” e scagliandosi contro “il governo iniquo, gli sperperi e i ladronaggi ufficiali”. Dal 1898 le sollevazioni divennero sempre più diffuse e veementi soprattutto a causa del rialzo dei prezzi del pane, in parte causato dalla guerra ispano-americana ma in parte artificiali (come fu chiesto infatti il governo avrebbe potuto temporaneamente sospendere il dazio), e della chiamata alle armi della classe 1873, tanto da costituire una vera e propria minaccia al governo di Rudinì che non lesinò minacce e veri e propri bagni di sangue. La repressione manu militari, attuata da generali formatisi sull’esempio dei massacratori risorgimentali e sostenuta dagli stati d’assedio proclamati dall’indifferente capo del governo, provocò decine di vittime in tutta la penisola: ciò non fece che acuire la protesta che divenne generalizzata e visse il suo culmine a Milano, in quella che Napoleone Colajanni definì la protesta dello stomaco.
Il 6 maggio nello stabilimento Pirelli di via Galilei i sindacati distribuirono volantini accusanti il governo per la diffusione della carestia, oltre a denunciare l’uccisione il giorno precedente a Pavia di Muzio Mussi (figlio del vicepresidente della camera Giuseppe), che aveva tentato di agire da paciere tra popolo e militari; immediatamente si scatenò una protesta spontanea eccitata dall’intervento della polizia che arrestò svariati sindacalisti e operai. Presentendo il pericolo di una strage, Turati intervenne riuscendo a calmare il tumulto e far rilasciare tutti gli imprigionati tranne uno, una sorta di ostaggio. La permanenza di costui in prigione provocò la spontanea riattivazione della rivolta che si spostò alla caserma di polizia di via Napo Torriani bersagliata da sassate provenienti dalla folla: le fucilate sparate sui manifestanti provocarono la morte di due operai; i moti proseguirono timidamente la sera con piccoli drappelli di esagitati in piazza Duomo e in galleria.
Il 7 maggio mentre il cardinal Ferrari, mal consigliato dal braccio destro Filippo Meda, lasciava i suoi concittadini nel momento del bisogno per una visita pastorale, la mobilitazione popolare sfociò in uno sciopero generale che, memore delle altre cruente repressioni del ‘98, non esitò a erigere barricate per difendersi dalla preventivata reazione dell’esercito guidato dal gen. Fiorenzo Bava Beccaris; a costui, su pressione regia, il marchese di Rudinì aveva affidato la carica di commissario regio che gli permise di dichiarare, nel pomeriggio, lo stato d’assedio, sospendendo in tal modo i diritti civili. Il giorno seguente il generale ordinò alle truppe di sparare ad altezza uomo e, di fronte alla strenua resistenza del popolo che gettava tegole contro i militari ostacolati dalle barricate (soprattutto a porta Vittoria, Romana, Garibaldi e alle colonne di san Lorenzo), mise in azione l’artiglieria pesante che cannoneggiò i popolani ad alzo zero, cioè con la deliberata volontà di commettere un carneficina; tale fu il risultato, dato che la stima ufficiale di 80 morti e 400 feriti è solo un pallido riflesso del reale e sanguinoso effetto. La repressione militare spietata e indiscriminata (fu cannoneggiato e occupato dai soldati anche il convento dei cappuccini in via Monforte) fu accompagnata a partire dal 9 maggio da quella giudiziaria: ne fecero le spese non solo i giornali socialisti (come Critica sociale di Turati e Lotta di classe) e repubblicani, ma persino l’Osservatore cattolico di don Albertario il quale, accusato di aver aizzato la folla coi suoi caustici editoriali, venne condannato a 3 anni di carcere, in compagnia dello stesso Turati, condannato 12 anni, e alla Kuliscioff, 2 anni. Pur non avendo preso parte ai moti direttamente, il cattolicesimo intransigente venne perseguitato per la sua azione di protesta nei confronti della società liberale e anticattolica, tanto è vero che nella repressione vennero coinvolte anche l’Opera dei congressi e il comitato diocesano. La conclusione di questa vergognosa pagina non potè essere che il conferimento al Bava Beccaris della croce di Grande Ufficiale dell’ordine militare di Savoia, per volontà di Umberto I, che due anni dopo pagherà con la vita per mano dell’anarchico Gaetano Bresci, vindice dei morti milanesi, questo gesto sconsiderato. Il naturale connubio cattolico-socialista, inconciliabilmente divisi in tutto il resto tranne che nell’opposizione allo stato liberale, non fu forse del tutto sterile: nei moti di Pavia un giovane focoso universitario di medicina, Edoardo Gemelli, nei panni del militante socialista, professava la sua contrarietà allo stato assassino e affamatore… qualche anno più tardi sarebbe diventato fra Agostino Gemelli!
Il Fronte Indipendentista Lombardia ricorda quindi quei morti e quei coraggiosi che seppero opporsi (con la penna e con la spada) alla belva della Rivoluzione italiana e li mostra ai distratti e ignari lombardi di oggi.



L’ufficio politico del Fronte Indipendentista Lombardia
5 maggio 2010



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