lunedì 15 aprile 2013

Francesco IV di Modena e il caso Giuseppe Andreoli durante le cospirazioni carbonare del 1820-1821.

 
 
Introduzione

Pochi conoscono i fatti che videro protagonista Francesco IV di Modena durante le cospirazioni carbonare del 1820/1821, e sono  ancora meno coloro che conoscono i dettagli dell'accaduto.
Francesco IV è stato accusato di tirannia da molti storici di parte esplicitamente risorgimentale ,e tra le innumerevoli accuse vi sono quelle che riportano la sua condotta nei confronti degli affiliati alla setta accusati e processati tra il 1821 e il 1822. Tra questi settari emerge il nome di Giuseppe Andreoli  , giovane sacerdote  di San Posidonio. Ma come si svolsero veramente i fatti e quale fu la condotta del Duca di Modena?


Francesco IV e la minaccia settaria

Francesco IV d'Asburgo-Este  era dotato d'ingegno pronto, di carattere forte e risoluto e di una forte coerenza. Signore del Ducato di Modena, egli desiderava ardentemente far rispettare quei principi esposti al Congresso di Vienna, e che venisse rispettata la legittimità dei governi Restaurati.

Francesco IV era nemico acerrimo del liberalismo che minacciava i principi retti ai quali lui credeva fermamente : era perfettamente a conoscenza del fatto che nel suo Ducato esistevano diverse sette tra le quali vi erano    "Carbonari, Adelfi, Sublimi Maestri Perfetti" e affiliati della "Spilla nera".
Francesco IV  con notifica del 20 settembre 1820 minacciò la pena capitale a tutti coloro che costituivano parte di società segrete, e l'ergastolo a chi, conoscendoli, non li denunciava; quindi ordinò al cavalier Giulio Besini , direttore di polizia, d'indagare per scoprire i  settari che risiedevano nello stato modenese. Fervevano le indagini della polizia, ma senz'alcun risultato, quando, nel gennaio del 1821, mentre l'esercito imperial-regio  attraversava il Ducato diretto verso Napoli, tra le file dei soldati ungheresi e la cittadinanza di Modena fu diffuso un proclama sovversivo in lingua latina con il quale si esortavano i soldati a "disertare per non partecipare a quella guerra ingiusta": ovviamente , per "guerra ingiusta" , si  riferivano all'intervento della Santa Alleanza contro il moto sovversivo che aveva permesso ai liberal-settari di accrescere il loro potere nel Regno delle Due Sicilie.

 Offeso e sdegnato di fronte a quell'atto dei liberali che appariva come una vera e propria provocazione, Francesco IV ordinò che s'intensificassero le ricerche della polizia per rintracciare gli autori e propagandisti di quel sovversivo  scritto. Il Besini si impegnò per scoprire i responsabili e riuscì ad arrestare una trentina di persone che però, a poco a poco, furono poste in libertà,  essendoci poco o nulla a loro carico.
Le indagini continuavano da quasi un anno e più di cinquanta sospettati  erano in stato d'accusa o nel mirino delle indagini, quando la sera del 14 marzo del 1822, il direttore di polizia, rincasando, fu mortalmente ferito all'inguine da un colpo di pugnale infertogli da uno studente affiliato e manovrato dalla setta, un certo Antonio Morandi.
II Besini che non era morto subito, non riconobbe il suo aggressore, tuttavia pensò che fosse Gaetano Ponzoni, suo nemico personale, il quale fu subito arrestato e sottoposto a processo: egli riuscì a provare che nell'ora del ferimento egli si trovava ben lontano da quel posto dove il direttore di polizia era stato ferito.
Francesco IV, temendo che l'aggressione del Besini fosse il preludio di un'insurrezione, sollecitò a Mantova l'invio di un battaglione di milizie Alleate (austriache), ordinò che fossero fatte severissime ricerche per assicurare alla giustizia l'assassino e gli istigatori e istituì un tribunale speciale a Rubiera, che doveva  giudicare e condannare  tutti i settari responsabili della divulgazione del proclama e dell'uccisione del Besini. "La Commissione di Rubiera è generalmente creduta composta da fedeli sudditi e da temperamenti retti e severi, ed è nominata con saggezza", si trova scritto in certe informazioni segrete della polizia austriaca; ed era vero.
Per comporre il collegio dei giudici non si era faticato molto come certa storiografia vuol far credere .      Il magistrato Giulio Vedriani , quando si accorse che i suoi colleghi erano disposti a far rispettare la legge, essendo invischiato in certe simpatie , non se la sentì  e diede le dimissioni.

I metodi usati a Rubiera per ottenere dagli imputati la confessione furono tutto sommato corretti e non sanguinari . La leggenda nera messa in giro dai risorgimentalisti , la quale narra di somministrazione di  medicine, di  digiuno per costringere gli arrestati a parlare, di stimolo della gelosia, oppure della storia dell'imputato  tenuto per cinquantaquattro giorni disteso sopra un asse, o di altri  chiusi in sotterranei angusti, umidi e bui, sono soltanto menzogne di propaganda.

 Quello che avvenne in realtà furono una serie  di  interrogatori estenuanti i quali condussero a delle rivelazioni. Il processo di Rubiera, svoltosi contro cinquantasette settari e simpatizzanti della setta, ebbe termine l'11 settembre del 1822 con una sentenza che ne condannava quarantasette, riconosciuti colpevoli di appartenere alla setta dei Carbonari.
Nove furono i condannati a morte: il sacerdote Giuseppe Andreoli  di San Posidonio, giovane poco più che trentenne, colto e di simpatie liberali , i possidenti Giovanni Sidoli , Sante e Francesco Conti di Montecchio , il dottor Carlo Franceschini di Burano, il dottor Prospero Pirondi di Reggio, il dottor Pietro Umiltà di Montecchio, il conte Giovanni Grillenzoni Fallappio di Reggio, e Pietro Bosi , segretario comunale di Montecchio. Di questi i primi due erano detenuti; gli altri erano contumaci.
Il Duca di Modena commutò in dieci anni di carcere la pena contro Francesco Conti perché il suo delitto, nonostante grave , sembrò provocato più per influenza altrui che di propria malizia, inoltre non fu accompagnato da altre circostanze aggravanti; poi perché fece una pronta e spontanea confessione mostrando il suo pentimento: nell'anno 1814 cooperò per coadiuvare l'armata Imperiale e dei suoi alleati quando liberarono gli stati italiani, e perché pure nei successivi anni 1816 e 1817, in occasione della maggiore carestia, si adoperò attivamente per procurare grano estero per la popolazione.

Invece, fu confermata la condanna a morte  del sacerdote Andreoli.


Giuseppe Andreoli: vita e condotta di un cattoliberale.


Giuseppe Andreoli nacque a San Possidonio (Modena)nel 1791 da genitori di umile condizione. Cresciuto in un'atmosfera decisamente rivoluzionaria durante l'occupazione napoleonica ne fu di conseguenza condizionato. Avviato agli studi letterari dal parroco del paese natio, da giovinetto indossò l'abito clericale coll'intenzione di abbracciare il sacerdozio, ma la mancanza di mezzi economici per portare a termine gli studi e l'ostilità paterna lo costrinsero a seguire per il momento un'altra strada. Aiutato dallo zio Giovan Battista A., arciprete di S. Martino in Rio, ed ottenuto un sussidio dai collaborazionisti marchesi Taccoli, feudatari di San Possidonio, poté iscriversi nel 1811 all'università di Bologna e compiervi gli studi di perito agrimensore. Fu lì che egli entrò in stretto contatto con l'ambiente settario.
Ma egli non amava questa professione e entrò nella vita sacerdotale e si dedicò agli studi letterari. Nel 1819 divenne istitutore in casa dei conti Soliani Raschini a Reggio Emilia, affiliati alla setta in periodo napoleonico,  con l'appoggio dei quali, tra il 1820 e il 1821, ottenne la cattedra di retorica nel collegio degli oblati a Correggio. Alla primavera del 1820, secondo gli atti del processo, si può far risalire la sua affiliazione alla carboneria, alla quale era stato iniziato in casa Fattori a Reggio Emilia.
Nel clima rivoluzionario e filo-giacobino nel quale l'Andreoli crebbe   si può inserire  il suo consenso alle perniciose e sovversive idee carbonare, ma l'evoluzione di pensiero e la totalità dei  motivi che lo condussero ad aderire a questa società segreta per natura opposta all'abito che portava e al messaggio che lui , avendo intrapreso il cammino sacerdotale , doveva divulgare non è  possibile accertare con esattezza, data la scarsità di documenti e, soprattutto, di suoi scritti: nel 1821, proprio nel periodo dell'affiliazione dell'Andreoli alla setta, venne emanata  la  bolla Ecclesiam a Iesu Christo con la quale Pio VII condannava la carboneria.


File:PalazzoArcivescovile PiusVII.jpg
Pio VII accolto a Modena nel Palazzo Arcivescovile dal Duca Francesco IV d'Asburgo-Este e dalla moglie la Duchessa Maria Beatrice di Savoia.


Dagli atti processuali risulta che l'Andreoli  era stato un attivo diffusore delle idee liberali e che aveva saputo corrompere numerosi giovani. Non avrebbe interrotto la sua azione sovversiva neppure quando, nel 1821, erano cominciati gli arresti per la scoperta a Modena del già prima citato  proclama in latino. All'inizio del 1822, in occasione di altri fermi eseguiti dalla polizia, il suo nome venne  rivelato all'autorità inquirente nel corso degli interrogatori. La notte del 26 febbraio egli fu arrestato a Correggio e condotto prima a Reggio, poi a Modena, nelle prigioni del palazzo comunale.

 La sua attività politica, quale risulta dagli atti del processo, appare piuttosto intricata.
Sul periodo trascorso in carcere e sulle vicende della condanna e dell'esecuzione i compagni di prigionia e i contemporanei di parte liberal-settaria hanno scritto pagine patriotticamente smielate e faziose , ma tra loro contraddittorie nei fatti e nelle valutazioni. L'Andreoli negò sfacciatamente di essere colpevole dinnanzi al governatore L. Coccapani e al capo della polizia G. Besini. Ma poi confessò a un compagno di cella - che si dice  fosse una spia - di essere carbonaro e,  grazie alla delazione di costui, si istituì il processo, svoltosi a Rubiera, dove si era insediato il tribunale statario straordinario, istituito nel maggio 1822 con un decreto ducale col quale veniva abolito qualsiasi privilegio di foro; di conseguenza il sacerdote modenese fu giudicato dal solo tribunale civile senza che si tenesse conto di quello ecclesiastico che per aver commesso un così grave peccato non venne considerato .
L'11 settembre  1822 fu emessa la sentenza di condanna alla decapitazione per lui e per altri nove carbonari, rei di lesa maestà e di appartenenza a sette segrete. Francesco IV, con lettera autografa dell'11 ottobre successivo, commutava la pena di morte degli altri  detenuti confermandola  solo per l'Andreoli , perché il suo stato di sacerdote aggravava il reato : l'Andreoli  ,  difatti, da perfetto cattoliberale a modi "post-concilio",  sosteneva la possibilità di conciliare la religione cattolica con le ideologie risorgimentali che sono in realtà totalmente incompatibili con esse.


Francesco IV scrisse  sull'Andreoli:
Francesco IV d'Asburgo-Este


 
"Confermiamo la pena di morte inflitta al detenuto Don Giuseppe Andreoli sacerdote, per essere non solo reo convinto e confesso di delitti per cui fu da Noi espressamente comminata la pena di morte, ma per essere di più stato seduttore della gioventù, e più reo per la sua qualità di sacerdote e di professore, della quale abusò per sedurre la gioventù ed attirarla nella società dei Carbonari alla quale lui apparteneva. Noi, in considerazione della sua qualità di sacerdote, abbiamo usato tutti i riguardi e perfino fatto sperare clemenza se subito il primo giorno dell'arresto confessava i suoi delitti, pur minacciandolo che in caso diverso il giorno dopo non avrebbe più fatto in tempo e sarebbe stato abbandonato ai rigori delle leggi; ma egli avendo per ben tre volte costantemente negato ogni cosa, fu avvertito che non c'era più in tempo per sperare in una grazia".


 Monsignor Ficarelli , vescovo di Reggio, e conoscente dell'Andreoli, si recò a Modena per implorare che fosse risparmiata la  vita dell'amico  , ma ricevendo un rifiuto  si rifiutò a sua volta di sconsacrarlo. Sebbene non fosse ancora giunto il permesso da Roma, si prestò alla sconsacrazione il fedele vescovo di Carpi. Il 16 ottobre  Giuseppe Andreoli si sentì leggere la condanna che  ascoltò con apparente tranquillità;. poi, avendo saputo che nessuno dei suoi compagni sarebbe stato giustiziato, ringraziò il Signore perché non era colpevole di aver condotto al patibolo altri uomini con le sue idee. Volle da sé tagliarsi i capelli e pregò uno dei presenti che li recasse alla madre; ai compagni di carcere lasciò in ricordo i pochi oggetti che aveva. Tale comportamento indurrebbe a credere che l'Andreoli non si pentì totalmente della scelta da lui intrapresa.


L'esecuzione dell'Andreoli

   

Il giorno dopo, il prete sconsacrato, fu condotto presso il forte, dove doveva esser decapitato. Mentre il corteo procedeva verso il luogo del supplizio, scoppiò un furioso temporale e il  corteo sostò qualche attimo ma poi raggiunse ugualmente il palco con la pioggia che cominciò a cader giù dirotto; il settario sacerdote avrebbe voluto rivolgere delle parole alla folla. Riuscì soltanto a dire: "Cupio dissolvi et esse cum Cristo", ma neppure la parola Christo riuscì interamente pronunziare, la mannaia era già calata rapida sul condannato.
Così terminava la triste vita di un sacerdote caduto nell'inganno del demonio che agendo tramite le sette cercava , come fa tutt'oggi, di corrompere le anime alla causa della Rivoluzione.


 
 
 
 
Conclusione




Si può dire forse che secondo gli avvenimenti narrati  Francesco IV si comportò da "despota" e "tiranno"? Assolutamente no! Egli fece il suo dovere di Duca e di padre per il bene del suo popolo. Possiamo affermare che Francesco IV sopra tutti dimostrò che più alta è la carica che Dio ti affida su questa terra e più doveri sei tenuto ad osservare; così , se vieni meno al tuo compito conducendo altre persone nell'errore (come fece l'Andreoli) la pena inflitta sarà di conseguenza severa ed esemplare.
E' una lezione che tutti dovrebbero imparare e farne tesoro.

 













Fonte:

Wikipedia

Treccani

Cronologia.it

Memorie storiche intorno la vita dell'Arciduca Francesco IV d'Austria-Este, Duca di Modena. (di Cesare Galvani , Modena, 1846).

Scritto da:

Redazione A.L.T.A.