
RIFLESSIONI SUL SIMBOLISMO
L’uomo è fatto di anima e corpo, ovvero un elemento angelico ed uno animale. L’uomo è una sorta di centauro. Non un cavallo con tronco e testa di uomo, ma un essere corporale con un’anima spirituale analoga a quella dell’angelo. E ciò determina il suo modo di conoscere le cose.
L’angelo conosce le cose senza la necessità di un contatto materiale con l’oggetto. L’uomo, invece, è fatto in modo tale che, per conoscere interamente un oggetto, ha bisogno di un certo contatto materiale con esso. Altrimenti non può conoscerlo nella sua interezza. Perciò, nella Sua sapienza Dio ha disposto che nell’universo vi siano oggetti materiali che, per analogia, per somiglianza, consentono all’uomo di conoscere meglio le cose dello spirito. In altre parole, oggetti che gli permettano di conoscere con i sensi corporali ciò che il suo spirito forse ha già intuito, ma non è ancora riuscito ad afferrare per intero.

Perché conoscendo l’oggetto attraverso i sensi corporei, tutto il nostro essere si accomoda a quella conoscenza che, fino a poco tempo prima, era solo intellettuale. Si stabilisce un’armonia interiore per la quale la conoscenza spirituale viene completata con quella sensibile. Senza l’aspetto sensibile, la conoscenza sarebbe comunque sempre parziale, visto che siamo fatti di spirito e materia. Ci sarebbe uno squilibrio.
Facciamo un esempio estremo: la conoscenza di Dio. Fra tutti i bisogni dell’uomo, il più forte è quello di conoscere Dio. Tuttavia Dio non può mostrarSi all’uomo. Mosè — definito dallo scrittore André Frosard “l’uomo più grande della storia, poiché Gesù Cristo era Dio” — aveva parlato varie volte con Dio ed era stato nella Sua intimità sul monte Sinai. Ma, il bisogno umano di stabilire un contatto sensibile che completi quello spirituale è tale che, a un certo punto, persino Mosè desiderava vederNe il volto. Gli chiese dunque di mostrarSi. La risposta di Dio fu: “Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo”. Ciò nonostante, per misericordia, Egli permise a Mosè di vederLo “di spalle” perché “il mio volto non lo si può vedere”. La grandezza di Dio è tale che, se Lo vedessimo faccia a faccia, ci disintegreremmo ipso facto. Ed ecco un’apparente contraddizione nell’opera di Dio. Da una parte abbiamo il fortissimo bisogno di conoscerLo ma, dall’altra, siamo parzialmente impossibilitati a conoscerLo. Come si risolve quest’apparente contraddizione?
Con la Sua divina sapienza Dio ha disposto, in modo meraviglioso, che, pur non vedendoLo, i nostri sensi corporei possano comunque averne una certa conoscenza. Questo è il ruolo dei simboli. Cos’è un simbolo? È una creatura di Dio che ci permette di conoscere le realtà spirituali, le realtà soprannaturali, le realtà angeliche e Dio stesso attraverso i nostri sensi, in modo da coinvolgere tutto il nostro essere, anima e corpo. In questo modo, la nostra sensibilità accompagna il nostro intelletto.

Ma come si può recepire tutto questo attraverso un animale, cioè un essere di natura inferiore, un essere irrazionale? Dio ha creato il leone in modo tale che, certi suoi atteggiamenti e movimenti sono analoghi, in chiave animale, agli atteggiamenti e movimenti che avrebbe un uomo se fosse un eroe.

Anche l’aquila è un simbolo. Contemplandola possiamo farci un’idea dell’audacia, un’audacia piena di fierezza che non si ferma davanti a interessi meschini, ma vola molto alto. Il volo dell’aquila ricorda certe gesta di uomini audaci. L’uomo “aquilino” non vola, ma il volo dell’aquila può farci conoscere meglio, attraverso i sensi, alcuni aspetti della sua anima.

L’uomo può avere l’impressione che siano le cose sensibili che determinano quella conoscenza. Ma la fede gli dice che è la grazia divina. Cos’è la grazia? La grazia è una partecipazione creata nella vita increata di Dio. Attraverso la grazia, la nostra intelligenza può cogliere, in modo fugace, qualcosa dello stesso lumen divino. In questo senso, le forme architettoniche, i colori, i suoni, possono servire all’uomo da strumenti per conoscere qualcosa di Dio stesso. Sono, appunto, simboli.


Al tempo in cui Venezia faceva parte dell’Impero austro-ungarico, durante un ballo di gala un diplomatico austriaco si rivolse a un nobile veneziano e, con tono giocoso, esclamò: “Che strano il vostro Paese dove i leoni hanno ali!”. Senza scomporsi, il gentiluomo rispose per le rime: “Non più strano di quel Paese dove le aquile hanno due teste...” . In realtà, i due scherzavano, nel modo raffinato consono ai salotti nobiliari, sul fatto che i simboli dei loro rispettivi Paesi sono, dal punto di vista naturale, un’assurdità. Ma, i simboli, essendo tali, sorvolano la realtà concreta, rivelando valori metafisici superiori. Ai simboli si permettono certe audacie che, invece, non si addicono alla realtà concreta.


Immaginiamo un castello gotico arroccato sulla cima di un altissimo monte. È bello. Immaginiamolo adesso avvolto nella bruma. È ancor più bello. La bruma fa risaltare il suo aspetto leggendario, favoloso, quasi irreale. La bruma invita la fantasia ad aggiungere qualcosa alla realtà del castello.
Io ritengo che la sensibilità ai simboli sia un’eccellenza dello spirito. Ma reputo un’eccellenza ancor superiore l’avere uno spirito sensibile ai simboli e, tuttavia, capace di farne a meno. Vi faccio un esempio. Immaginate un esercito in battaglia, quale, ad esempio, quello di Goffredo di Buglione nella prima Crociata. Egli, con impeto incontenibile, incita i suoi soldati a caricare. Nella mischia l’avversario s’impadronisce del gonfalone, lo calpesta e lo brucia davanti agli occhi di tutti. L’esercito può reagire in due modi. Accendersi ancor più di sacro furore, a prescindere dal simbolo vilipeso, e assalire il nemico con maggiore veemenza fino alla vittoria finale. Oppure davanti alla perdita del vessillo, farsi prendere dallo sgomento e indietreggiare. Quale esercito è superiore? Evidentemente il primo. Così deve essere l’uomo: sensibile ai simboli ma, allo stesso tempo, non fare di questa sensibilità un fattore decisivo.

Qualcuno potrebbe obiettare: Se i simboli sono dispensabili, perché complicarsi la vita con essi? Non converrebbe piuttosto puntare tutto sulla formazione strettamente intellettuale e abbandonare i simboli? È esattamente il contrario. Il simbolo aiuta la sensibilità a elevarsi fino alle vette dove l’intelletto è già arrivato con la ragione e, soprattutto, con la Fede. È così che l’uomo, anima e corpo, trova l’equilibro. Non può fare a meno dei simboli un uomo che, prima, non se ne sia servito abbondantemente.
Altri potrebbero controbattere: riconosciamo l’importanza del simbolo per la conoscenza totale dell’uomo, ma una volta assolta la sua funzione, cioè aiutare la sensibilità a unirsi all’intelletto, possiamo dispensarlo? Non si può nemmeno in questo caso. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole. Può darsi che un uomo molto coraggioso pensi di non avere bisogno dei simboli. Ma ci sono momenti in cui il pericolo è tale che egli comincia, istintivamente, ad aver paura. L’istinto di conservazione è troppo forte. Nella ribellione contro gli istinti, un simbolo può essere un potente aiuto.

Ancora un’obiezione: Ma c’è la grazia divina. Dunque il simbolo diviene dispensabile. Andiamoci appiano. La grazia supplisce quando mancano i simboli. Ma, avendo la possibilità di usare simboli, messi alla sua portata dalla Divina Provvidenza, l’uomo dovrebbe servirsene per il suo bene. D’altronde, col supporto dei simboli, l’azione della grazia è molto più possente e dinamica. Dio ci ha dato la possibilità di praticare l’eroismo attraverso l’azione congiunta della preghiera, che ci ottiene la grazia divina, e dell’intelletto, ma non ci esonera dal servirci dei simboli che ha messo a nostra disposizione per il nostro bene spirituale.
È chiaro quindi perché la formazione nella TFP dovrebbe essere intensamente simbolica. L’entusiasmo collettivo suscitato dalle nostre cerimonie — per esempio, la solenne Messa celebrata in occasione del Natale appena trascorso [1987] — è dovuto in larga misura all’uso dei simboli. In tutte le nostre manifestazioni essi sono presenti. E la nostra sensibilità, devastata da milioni di simboli cattivi con cui la Rivoluzione ci bombarda ogni giorno, viene ripulita, quasi come se le cerimonie fossero un detergente spirituale. Le cerimonie disintossicano l’anima dall’azione malefica della Rivoluzione e ristabiliscono l’equilibrio. Ecco perché sono convinto che le TFP dovrebbero, beninteso senza eccessi, moltiplicare i loro simboli.
In quest’ottica va altresì considerata la cortesia abituale che contraddistingue le TFP. Noi ci diamo del “Lei” e siamo nei confronti del prossimo molto cerimoniosi. Qualcuno potrebbe replicare: ma cosa cambierebbe se cominciassimo a darci del “tu”? Rispondo: cambierebbe il valore simbolico. Il “Lei” è una parola simbolica che induce la persona a collocarsi, nei confronti dell’altro, in una posizione di apprezzamento del suo lato più elevato. Due fratelli, sin da piccoli, si danno naturalmente del “tu”, un’abitudine che traduce la legittima uguaglianza che esiste tra fratelli. Ma se entrambi diventano, poi, sacerdoti, il loro passato di intimità viene superato dalla nuova condizione, molto più nobile. Quegli stessi bambini, che giocavano insieme ai soldatini di piombo, sono stati chiamati dalla grazia a servire Dio in modo molto speciale. È come se Dio parlasse loro: “Figli miei, Io vi ho scelto per servirmi nel sacerdozio, deviando il corso naturale delle vostre vite. Dovete abbandonare le piccole prospettive delle vostre vite passate e camminare invece su quelle dell’eroismo e dello splendore. Voi adesso siete Miei!” Una cosa analoga succede nella TFP. Se due fratelli entrano nella TFP, accedendo dunque a uno stile di vita di dedizione e di eroismo nella lotta contro la Rivoluzione, è logico che il loro comportamento debba rispecchiare la stima per la nuova situazione dell’uno e dell’altro. E, quindi, usano il “Lei” per esprimere reciproco rispetto.

Un altro esempio. Immaginiamo due principi fratelli che ereditano il trono di due diversi Paesi. Essi non possono più chiamarsi con i nomignoli che usavano quando erano bambini. In un discorso pubblico, per esempio, uno non potrebbe assolutamente rivolgersi all’altro come “mio caro Peppino...” Dovrà chiamarlo “Altezza Reale”. E viceversa. Qualcuno dirà: Ma questo è il modo in cui un suddito si rivolge al Re. Il fratello del Re, invece, non ha bisogno di queste formule di cortesia poiché è uguale in dignità. Invece ne ha proprio bisogno! Proprio perché l’uguaglianza fra i due rischierebbe di non far risaltare la dignità della carica occupata dall’altro, entrambi i fratelli devono usare formule che esprimano questo rispetto.
Alla luce di queste considerazioni si comprendono tutt’una serie di usanze nelle TFP. Per esempio, il modo di inginocchiarsi e di pregare il Santo Rosario: deciso, militante. Un modo che sembra dire: Io sono cattolico, apostolico, romano! E me ne vanto! Non meno emblematico è il nostro modo di salutarci: Salve Maria! Questo saluto è stato introdotto da me, quando ero leader delle Congregazioni Mariane [negli anni 1930]. Quando ci incontriamo, noi non ci diciamo “Buon giorno” o “Buona sera”, ma “Salve Maria!”. Questo saluto intende sottolineare la nostra primordiale appartenenza alla Madonna. Se noi ci incontriamo per pregare, per pranzare o per lavorare, ci salutiamo Salve Maria! per indicare che facciamo tutto ciò per la gloria di Nostra Signora.

Esiste, poi, un rapporto molto intimo fra la purezza e la sensibilità ai simboli. Vi ricordate della beatitudine “Beati i puri di cuore perché vedranno Dio”? Questa beatitudine implica una promessa: i puri di cuore vedranno Dio. E questo si può realizzare già su questa terra. Il puro di cuore diventa molto sensibile ai simboli, che gli permettono di elevarsi a Dio. Egli approfitta abbondantemente dei simboli che Dio ha messo a sua disposizione sulla terra. Il puro di cuore è dotato, inoltre, un certo discernimento dello spirito per cui è capace di vedere la virtù nelle altre persone, ravvisandovi il soprannaturale, proprio perché “vede Dio”. Cioè, egli “vede Dio” simboleggiato in quella virtù. Egli discerne la grazia che è una partecipazione nella vita di Dio. Questa purezza di cuore produce la castità. Fra tutti i difetti dell’uomo, l’impurità è quella che più lo avvilisce perché colloca la sua intelligenza al di sotto della sua sensibilità, degradandolo a una condizione quasi animalesca. L’impurità impedisce all’uomo di “vedere Dio”. L’uomo impuro insegue soltanto i godimenti della carne, perde interesse per le cose più elevate e può addirittura diventare insensibile alla grazia divina. Dio non smette mai di bussare al cuore di un peccatore. E se questi se ne infischia, al punto da diventare insensibile a questo appello? Dio affida a certe persone la missione di essere simboli. Esse hanno un portamento, un modo d’essere che corrisponde a una certa grazia, accompagnato dalla capacità di esprimere sensibilmente questa grazia. Hanno un modo d’essere che rende particolarmente allettante la virtù legate alla grazia. Perciò sono chiamate non solo a praticarla in modo esimio, ma a simboleggiarla. Scusatemi per la banalità della metafora, ma queste persone sono come cartelloni pubblicitari della virtù.
Plinio Corrêa de Oliveira
(Annotazioni raccolte durante una conversazione informale nel corso di una cena nella Fazenda de Morro Alto, San Paolo, 6 gennaio 1988 - senza revisione dell'autore)