venerdì 12 ottobre 2012
L’Italia è morta! Anzi, in verità non è mai nata! Se non come farsa
di PAOLO L. BERNARDINI*
L’Italia è morta. Anzi, forse potremmo dire che non è mai vissuta davvero. Forse neanche mai davvero nata. Perché gli Stati nascono quando esiste un consenso, o un consenso potenziale, della maggioranza dei loro futuri abitanti, consenso all’inizio espresso, veicolato, e mostrato al mondo dai loro leader, e fondato su di un’identità condivisa. C’era un consenso certo nel 1291, nella Svizzera del patto fondativo; c’era nel 1581 tra sette delle diciassette province d’Olanda, che volevano liberarsi dell’oppressione dell’Impero di Filippo II. C’era nel 1776 tra le tredici colonie americane; all’inizio, non era diffuso, ma potenzialmente c’era eccome e crebbe enormemente tra il 1776 e il 1783. Nacquero gli Stati Uniti d’America.
L’Italia nacque invece su inganno e violenza. La violenza unita all’inganno sottomise il Regno delle due Sicilie; l’inganno, unito ad una buona dose violenza espressa nelle modalità di svolgimento del plebiscito, la Venetia e Mantova nel 1866. Con la violenza i bersaglieri entrarono a Porta Pia nel 1870. I patrioti che difesero per anni il Regno delle due Sicilie dopo la conquista vennero definiti “briganti”. Ma morirono da eroi per la loro patria, e chi muore per la propria Patria non muore mai del tutto, non muore mai davvero.
Con tutta la goffaggine di chi vuole imitare gli altri e smania per conquistarsi un Impero, l’Italia neonata volle contribuire ad altri genocidi, e dopo quello perpetrato al Sud – Fenestrelle, il lager sabaudo, non era che l’anticipazione di Auschwitz, perfino nell’esaltazione della forza liberatoria del “lavoro” – ne compì diversi in Africa, orribili. Agli storici ufficiali venne intimato di tacere. Poi ecco Angelo del Boca, classe 1925. E tutte le porcherie fatte dagli italiani in Libia ed Etiopia vennero fuori, le stragi con i vari gas, i bombardamenti sui civili. Quanti morti? Tanti. Ma anche i tentativi coloniali furono così maldestri, che la sconfitta di Adua fu, per tutta l’Africa, l’anticipazione, mezzo secolo prima, di tutte le decolonizzazioni a venire. Ce la possiamo fare, pensarono gli africani.
Nel frattempo, l’Italia neonata, ma ancor prima di nascere, pensava a come liberarsi dei suoi abitanti “inutili”. Figure abominevoli, sotto ogni punto di vista, come Nino Bixio, viaggiavano nel Pacifico per trovare luoghi, possibilmente inameni, dove convogliare gli italiani inutili e improduttivi. Ancor prima del fatidico 1861. Quanti andarono via? Forse 27 milioni. Quasi la metà degli abitanti attuali dell’Italia, la metà esatta se si escludono gli emigranti, molti di loro bravissime persone, ma molti altri delinquenti e assassini fatti entrare solo per far aumentare il consenso al governo, o a giunte comunali criminali, come quella di Padova.
La sorte dei migranti italiani è a tutti nota. Alcuni faranno fortuna, nel mondo nuovo, altri nel mondo nuovo neanche arriveranno, spolpati vivi dagli squali, ad esempio, nel Golfo del Messico.
Poi la storia continua, la storia d’Italia, e si declina sempre più in farsa. L’Italia entra in tutte e due le guerre mondiali, in entrambi i casi tradendo bruscamente l’alleato di prima. Tragicamente, poi, si tratta dello stesso alleato, e la violenza cieca dei tedeschi nei confronti degli italiani tra 1943 e 1945 deriva anche da questo. Nella prima guerra mondiale, la più vergognosa ed inutile strage della storia, muoiono 600.000 “italiani”. Per “redimerne” 400.000 che poi, d’allora in poi, cercheranno in vari modi di tornare all’Austria. I feriti sono 2.000.000. Di loro poco si parla, dei torsi umani senza braccia né gambe, serviti come vivande sul banco del macellaio, nei vassoi immondi colorati di rosso bianco e verde. Anzi, si getta una cortina d’oblio su quei poveri mutilati e quei miseri morti, quasi tutti bambini, basti guardare le lapidi scolorite con i loro cognomi e nomi, in tante chiese del Veneto. Maciullati e dimenticati. Durante la seconda guerra mondiale si consuma una vera e propria guerra civile, ma perché sia chiamata con il nome che tecnicamente e naturalmente le spetta occorre attendere il 1992, un libro di Claudio Pavone. Nel frattempo l’Italia sacrifica qualche altra vittima sui suoi immondi altari, da far impallidire, per vergogna e nequizia, quelli dei Maya. Sono gli ebrei. Ne manda ai forni forse 6000.
Neri, ebrei, “terroni”, “polentoni”, tutti assassinati. Manca qualcuno? Ad esempio i lavoratori milanesi massacrati dalle truppe sabaude – alla faccia della Padania che unisce – di Bava Beccaris. Gli orrori perpetrati dagli scherani del potere fanno rabbrividire i tenutari del potere stesso, Umberto I si risente (e pagherà con la vita le colpe di quel macellaio) tanto quanto perfino Mussolini, certo non un cuore tenero, inorridisce all’udire le funeste imprese di Graziani in Africa.
Devastata dalla guerra, come quasi tutta l’Europa, l’Italia cerca di rinascere. Una dittatura dal 1861 al 1945, vuole risorgere su basi nuove. Ci prova, anche eroicamente, perché molti dei partigiani furono vero eroi, perché molti dei costituenti erano uomini davvero perbene. Ma gli errori sono tanti, proprio perché le basi originarie mancano e non si possono costruire ex-post. Viene sottoposto a referendum l’assetto politico futuro, ma non la Costituzione. Come lo statuto albertino del 1848, viene imposta al popolo. Questo errore non lo ripeterà la Spagna, ad esempio, trent’anni dopo, ma neanche l’Iraq pochi anni fa.
La Costituzione è un documento complesso. E’ un patto di sottomissione perpetuo di un territorio e dei suoi abitanti ad un governo centrale, ma non sottoposta ad un referendum, non è veramente sottoscritta dal popolo. E’ un contratto firmato da una parte sola. Tecnicamente, ancora una volta, è una charte octroyée anche se non la concede più formalmente un re.
Parte molto male. Ad un osservatore estraneo, che guardi dal punto di vista dell’effettività e non della normatività di una legge, anzi, di un principio, “l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro” suona strano. Perché “fondata sul lavoro”? Il lavoro lo possono esercitare anche le macchine. E tutti coloro che sono disabili, vecchi, malati, bambini? Su di loro la repubblica non si fonda. Il concetto di “lavoro” non era neutrale nel 1948: per quanto resa incerta, alla vista, dal fumo dei suoi camini, Auschwitz si apriva con un cancello su cui era scritto “Il lavoro rende liberi”, e allora si sarebbe dovuto fondare su qualcos’altro, ad esempio sull’”individuo” (come nella costituzione del Kazakhstan), questa “repubblica democratica”. Se è vero poi quel che segue, che “la sovranità appartiene al popolo”, allora perché solo “nelle forme e nei limiti” della Costituzione? E’ una contraddizione patente. Insomma o governa il popolo, o governa una carta. Se davvero questa carta vuole governare, allora avrebbe dovuto essere sottoscritta dal popolo. Ma così non è.
Le mostruosità poi abbondano: si veda l’art. 75, che disciplina il referendum abrogativo: “Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali.” Ovvero, possiamo ipotizzare un governo che imponga con una legge il 100% di tassazione, e tale legge non è sottoponibile a referendum abrogativo. Le contraddizioni sono infinite. Come si concilia quest’articolo con quello che regola la tassazione in generale, basata sulla “capacità contributiva”?
Vi sono poi però aperture straordinarie: all’articolo 10: “L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.”. Ecco aperta la strada per il referendum che riporterà il Veneto alla libertà, ad esempio, a ritornare ad essere la Repubblica Veneta. Senza rendersene veramente conto, l’Italia si piega al volere del mondo, dei popoli che lo compongono. A qualcuno dei costituenti più accorti questo però sarà balenato alla mente (e al cuore). Il diritto internazionale viene riconosciuto come istanza più alta, senza che ci si renda conto che questo equivale a veder un giorno la fine di tale Costituzione stessa. D’altra parte, e quella di Weimar (tragicamente però) lo dimostra, quasi tutte le Costituzioni hanno dei meccanismi di autodistruzione inseriti al proprio interno.
E’ un documento vecchio, quasi antico, la Costituzione italiana. Le costituzioni dovrebbero vincolare per una generazione al massimo. O meglio, non esserci neppure. Israele, che nacque esattamente negli stessi anni dell’Italia, non se ne è data una. E’ un documento vecchio, scritto da morti che vogliono costringere dei vivi a condividere le loro proprie speranze, le loro proprio paure, le loro fobie, la forma della loro mente. E poi, è violata ogni giorno: c’è pieno di abominevoli leggi retroattive, e che l’Italia sia “una ed indivisibile” è dottrina e precetto molto elastico, ad Osimo nel 1975 venne siglato un vergognoso trattato che però mostrò bene come l’Italia fosse “divisibile” eccome.
Eppure, dopo la distruzione del 1945 vi furono (pochi) decenni di rinnovata energia. Ma le basi di quella rinascita erano troppo labili, era il capitale americano, era la voglia di vivere finalmente liberi, erano congiunture internazionali non riproponibili, era il capitale umano di uomini che si erano temprati combattendo un dittatore, e non volevano diventare uguali a quello, erano meteore inarrivabili, come Luigi Einaudi. Era, anche, un livello impositivo molto più basso di quello di oggi. Ma non si tratta di una mera questione fiscale. L’Italia fascista non era morta nel 1945. L’Italia, nata fascista, doveva continuare ad esserlo per non smembrarsi. E allora ecco che nascono le nuove categorie, nasce il “terrone”, si consolida l’odio tra Sud e Nord perché voluto da una classe politica alimentata dalla mafia, che vuole dividere per governare, operando una forma orrenda di “dumping”. Uccide, lentamente, l’economia del Sud, per poter poi sempre fungere da intermediaria nella, necessaria, redistribuzione delle risorse. Dopo aver compiuto il sacco del Sud, dal 1861 al secondo dopoguerra, appresta quello del Nord, nei modi e nelle cifre mostruose che di recente ha esposto agli occhi del mondo Luca Ricolfi. Naturalmente deve aggiungere un sovrappiù ideologico, e allora inventa “terroni” e “polentoni”. Incrementa un odio inesistente, e lo rende vivo. E’ l’unico modo per continuare ad ingrassare.
Tutto questo è stato portato alla luce del sole da storici come Nicola Zitara, e reso perfino pubblica a livello di best seller, ovvero di coscienza popolare, da Pino Aprile. Poi Pino Aprile può anche decidere di voler salvare l’Italia, ma “Terroni” vive aldilà degli orientamenti presi dopo dal suo autore. “Terroni” ci dice che l’Italia deve finire. L’Italia era insostenibile dal 1861. Avesse prevalso Cattaneo, forse, forse, un sistema federato sarebbe durato di più. Ma insigni costituzionalisti come il mio collega Bertolissi a Padova insegnano che per avere una federazione prima occorre avere entità statuali indipendenti che decidano di federarsi. Cattaneo se ne morì triste in Svizzera. Non era quella l’Italia per cui aveva rischiato la vita, e non era più in giovincello, nelle Cinque Giornate. Dov’erano gli stati indipendenti, dopo il 1870, che potessero liberamente federarsi tra di loro? Tutte le ciance sul federalismo in Italia e per l’Italia avrebbero potuto essere evitate, se solo si fosse riflettuto su queste banalissime verità.
Ora che la farsa ha preso tutti i contorni che le sono propri, nessuna maschera ideologica, nessuna finzione regge più. A metà Ottocento scomodarono Lombroso, perché vedesse nei “briganti” i criminali nati, e desse una giustificazione eugenetica al loro sterminio. Ora, nel 2012, scomodano Abatantuono, che prende in giro l’imprenditore veneto. Mentre l’imprenditore veneto, che ha sostenuto una baracca insostenibile con il suo sovrumano lavoro, si suicida. Forse Abantatuono viene messo in campo perché gli imprenditori che si suicidano non siano guardati con la compassione che meritano, come Lombroso, che rese accettabile lo sterminio dei patrioti del Sud. Ma invece guardiamo a loro con amore, guardiamo alle loro famiglie con amore e pietà cristiana. Loro, e i pensionati che si ammazzano perché non ce la fanno più ad andare avanti, sono gli ultimi morti di questa immonda creatura vorace, di questo vampiro sdentato, di questa disgraziata entità politica. Ed ecco che il valzer di morte che accompagna l’incerta creatura Italia dal 1861, o dal 1854, ad oggi, compie i suoi ultimi giri. E’ suonata la sua campana. Non solo a Venezia il 6 ottobre. E’ suonata nelle nostre coscienze e nei nostri cuori, nelle nostre menti, e nelle nostre azioni.
Requiescat.
*Professore ordinario di Storia moderna, Università dell’Insubria – socio di “Indipendenza veneta”