di ENZO TRENTIN
In questi ultimi tempi ci è capitato di rileggere un libro che Arnoldo Mondadori editore ha pubblicato nel 1984 con il titolo: «CAPORETTO. UNA BATTAGLIA E UN ENIGMA». L’autore è Mario Silvestri, veronese, già professore di Impianti Nucleari presso il Politecnico di Milano, ideatore del reattore «CIRENE», all’epoca cattedratico di Energetica presso lo stesso Politecnico. Autore di circa 200 memorie scientifiche, dal 1972 al 1981 è stato Presidente del Comitato Tecnologico del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Appassionato di storia contemporanea, i suoi contributi in campo storiografico sono numerosi ed alcuni financo premiati.
Caporetto calamita tuttora l’attenzione degli italiani. Anche chi non conosce i fatti sente volar per l’aria la parola «caporetto», scritta con la c minuscola, per indicare un collasso improvviso, un disastro quasi irreparabile. Storicamente Caporetto è una delle più grandi battaglie di annientamento della storia contemporanea e la più grande disfatta dell’esercito italiano, nella prima guerra mondiale. Un conflitto caratterizzato dallo stillicidio di interminabili e sanguinose battaglie di logoramento. Caporetto rappresentò, concentrato nel tempo, lo scontro più immane. Ed anche se nel secondo conflitto mondiale, in cui le battaglie di annientamento furono assai più numerose, queste non superano le dimensioni di Caporetto. Persino la battaglia di Stalingrado, benché le sue conseguenze strategiche e politiche siano state molto maggiori, è di proporzioni inferiori
Sentendosi ripetere con monotona cadenza la storia di Caporetto fino alla noia, gli italiani ne possono tuttavia restare disgustati. Caporetto? Che c’è ancora da dire su Caporetto, che non sia già stato detto e ridetto?
A queste domande l’autore risponde, dopo aver consultato documenti inediti o sottostimati, per ben 263 pagine. Le ultime 37 del libro le dedica a quello che lui definisce «l’Italia caporetta» dei giorni nostri. E così abbiamo la constatazione di governi inadeguati nella prima come nella seconda guerra mondiale; così come inadeguati sono i governi della repubblica italiana. Inadeguati, anzi peggio: professionalmente scarsi nell’arte militare che si concretizza in tattiche e strategie, tutti i generali italiani. Dai più famosi Cadorna, Diaz e Badoglio, ai meno noti o sconosciuti loro colleghi, perennemente surclassati nell’arte militare non solo dagli avversasi, ma sottostimati persino dagli alleati. I generali italiani si distinguono per la loro produzione immensa di ordinanze e circolari; per mandare all’assalto frontale decine di migliaia di uomini che si fanno massacrare, pena fucilazioni e decimazioni, dalle mitragliatrici e dall’artiglieria nemica. Generali, ancora, che per ogni uomo che combatte e imbraccia il fucile, acconsentono che sia un altro uomo ed anche di più che nelle retrovie è impegnato a redigere e consegnare i loro ordini o in altre attività lontane dal fronte per cui tali soldati, che spesso non sanno nemmeno imbracciare il fucile, vengono chiamati imboscati.
Qualcuna delle ultime pagine l’autore la riserva alla sua esperienza di ufficiale del genio trasmissioni in occasione della II G.M. Dove il panorama governamentale e delle forze armate non cambia. Per finire con alcune analisi dell’Italia contemporanea che, per almeno un paio di pagine troviamo utile riportare qui allo scopo di dimostrare come «l’Italia caporetta» permanga sino ai giorni nostri:
«Imboscati e combattenti; sfruttatori e sfruttati. Nel 1973 in Italia veniva introdotta una nuova riforma fiscale, che doveva razionalizzare il sistema e applicare un’imposta progressiva, più razionale della precedente, sui redditi delle persone fisiche. A essa si era arrivati dopo anni di dibattiti parlamentari. E poiché le aliquote fiscali erano state fissate per legge in una situazione di moneta più forte, nel 1975 esse vennero modificate, secondo aliquote meno aspre, riportate in tutti i «moduli 740» dell’epoca.
Dal 1975 al 1982 il prodotto nazionale lordo, in termini reali, è aumentato del 30 per cento pro-capite, ma l’inflazione, attraverso la quale la lira si è volatilizzata, ne ha ridotto il potere d’acquisto a un terzo. In termini monetari correnti il prodotto nazionale lordo è aumentato – nel periodo considerato – di 3,9 volte. Quali conseguenze ha avuto ciò sulla pressione fiscale?
Consideriamo un nucleo familiare, che nel 1975 godesse di un reddito imponibile di 5 milioni all’anno. L’imposta da pagare (escluse le deduzioni di legge) era pari a 590.000 lire, cioè all’11,8 per cento e il reddito netto, cioè quello vero, ammontava a 4.410.000 lire. Nell’ipotesi che i redditi imponibili siano aumentati proporzionalmente al prodotto lordo pro-capite – cosa non inverosimile per un periodo tanto breve, con trascurabili variazioni nelle abitudini – l’aumento reale dell’imponibile ha portato nel 1982 tale reddito a 6,5 milioni, il che avrebbe implicato una tassazione di 890.000 lire, pari al 13,7 per cento, mentre il reddito netto è salito a 5,61 milioni. Pagate le tasse, il reddito è perciò salito di 1,2 milioni di lire, ossia del 27 per cento, mentre l’imposizione fiscale, passata da 590.000 a 890.000 lire, è aumentata del 51 per cento. Si tratta di un inasprimento fiscale, di cui è lecito mettere in dubbio la legittimità, perché andrebbe giustificato con un miglioramento dei servizi di Stato in proporzione all’aumentato tenore di vita: giustizia più celere, poste più veloci, treni più puntuali e confortevoli, scuole migliori. Se ciò non avviene – e ognuno ha sotto gli occhi cosa sta avvenendo -, il cittadino ha il diritto di contestare la legittimità dell’inasprimento fiscale.
Ma il peggio è figlio dell’inflazione. A causa di essa nel 1982 il reddito reale di 6,5 milioni (espresso in lire del 1975) si è gonfiato di 3 volte, passando a 19,5. L’imposizione fiscale è salita a 4,7 milioni di lire e il reddito netto a 14,8. Deflazionando tali cifre, cioè esprimendole con lire al valore del 1975 – con una divisione per 3 – si ricava il reddito netto (sempre in lire 1975) di 4,9 milioni. Il reddito è quindi aumentato, in termini reali, del 12 per cento. E le imposte? Esse, sempre in lire 1975, sono salite a 1.565.000, si sono cioè quasi triplicate, aumentando, per la precisione, del 165 per cento. Esse rappresentano il 25 per cento dell’imponibile, anziché il 13,7 per cento, se la moneta avesse conservato inalterato il suo valore.
In conclusione – e per riassumere – nel periodo 1975-1982, di fronte a un aumento del prodotto lordo pro-capite del 30 per cento in termini reali, il reddito netto è salito solo del 12 per cento e l’imposizione fiscale del 165 per cento. Questo aumento è costituito da due addendi: un primo di 300.000 lire 1975, di dubbia legittimità, dovuto all’inasprimento fiscale, e un secondo, pari a 675.000 lire 1975, che viene eufemisticamente denominato «fiscal drag», ma che in italiano si traduce «grassazione fiscale». Tale grassazione, perpetrata dallo Stato, apparentemente non viola alcuna legge, salvo la legge morale e il settimo comandamento.
Questa insostenibile situazione è in parte alleviata dall’aumento delle detrazioni, che favorisce e attenua – senza annullarla – la grassazione fiscale a danno delle famiglie meno abbienti. I ceti molto ricchi, pochi di numero, sono in grado di difendersi con molti metodi legali, consentiti dalla vigente legislazione. La grassazione fiscale si esercita quindi, con tutta la sua violenza, sulle classi medie e sugli agricoltori, che rappresentano le fanterie della prima guerra mondiale.
Molti sono gli elogi per l’ingegno italico, per i piccoli imprenditori, per i funzionari, per gli ingegneri, per i professori, verso i quali si sprecano le parole di esaltazione, perché l’Italia «tiene» (la nostra bilancia dei pagamenti è infatti pressoché in pareggio da tempo immemorabile). Ciò non toglie che la massa degli italiani sia divisa in combattenti e imboscati; in super lavoratori e in parassiti. E come, nella prima guerra mondiale, le fanterie erano una grossa minoranza e gli altri una esigua maggioranza, così anche oggi gli sfruttati sono una grandissima minoranza e gli sfruttatori una piccolissima maggioranza.
Chi sono gli uni e gli altri? Sono sfruttatori le migliaia di impiegati che si fanno timbrare il cartellino da uno di loro a turno e poi arrivano in ufficio quando vogliono; sono sfruttatori coloro che non già svolgono un secondo lavoro, ma lo svolgono nelle ore in cui dovrebbero svolgere il primo; sono sfruttatrici le pensionate di Stato dopo 14 anni, sei mesi e un giorno di servizio. Queste ultime sono sfruttatrici legali. Sono sfruttati ad esempio le migliaia di ingegneri, con alcuni anni di laurea, che le industrie metalmeccaniche pagano una volta e mezzo la dattilografa neoassunta. Sfruttata, in generale, è tutta la classe intellettuale.
Naturalmente la grassazione fiscale derivante dall’inflazione è secondaria rispetto alle conseguenze dell’inflazione stessa. L’inflazione non viene dal cielo, non è una piaga biblica: è fabbricata dallo Stato. Una parte – minoritaria – è conseguenza della situazione internazionale ed è quindi importata (importarla non è fatale, ma si può chiudere un occhio); ma il resto è moneta falsa, che lo Stato stampa a piacere, avendo come solo limite la tolleranza sociale, che, nei riguardi dell’inflazione, è storicamente elevata. La stampa di carta moneta si traduce in una espansione della circolazione monetaria, che lo Stato accresce anche per un terzo motivo: a un aumento del reddito reale, a parità di velocità di circolazione, corrisponde un maggiore fabbisogno di carta moneta. E quantunque l’aumento del prodotto nazionale sia opera di tutta la collettività, è lo Stato a incassare la tangente, stampando e utilizzando a suo talento la massa monetaria messa in circolazione.
Dal 1975 al 1982 la circolazione monetaria in Italia è aumentata da 55.000 a 188.000 miliardi, si è cioè moltiplicata per 3,45. Nello stesso arco di tempo nella Repubblica Federale tedesca la circolazione monetaria è passata da 142 a 236 miliardi di marchi, moltiplicandosi per 1,66. In Germania l’inflazione è stata praticamente tutta di importazione e l’espansione del prodotto nazionale è stata molto vicina a quella verificatasi in Italia. Possiamo allora, semplificando molto le cose, affermare che l’aumento «perdonabile» nella circolazione monetaria in Italia fra il 1975 e il 1982 avrebbe potuto eguagliare quello tedesco, aumentando di un fattore 1,66 e passando da 55.000 a 91.000 miliardi. La differenza fra l’espansione di circolante effettivamente verificatasi e quella (fittizia) sopra calcolata, rappresenta i miliardi di moneta falsissima, stampati dalla Banca d’Italia per ordine dello Stato, miliardi di valore diverso a seconda dell’anno in cui furono stampati, e comunque rappresentante un valore ben superiore alla grassazione fiscale, di cui si è parlato prima. E quando mai lo Stato ordina di stampare moneta falsa? Quando, come si dice, i suoi «mezzi di pagamento», nonostante le tasse, l’inasprimento fiscale, la grassazione fiscale, l’emissione di cartelle obbligazionarie, cioè l’indebitamento, non riescono a far quadrare i conti. Un’azienda fallirebbe: lo Stato non può fallire, perché può rubare legalmente.»
Dal giorno in cui è uscita questa analisi sono passati ben 28 anni. Quasi nulla è cambiato. Alla Banca d’Italia si è sostituita la BCE, ma l’andazzo è quello. C’è l’inasprimento di quello che l’autore ha definito grassazione fiscale. Come dimenticare, a titolo esemplificativo, Giuliano Amato (ex Psi, soprannominato dottor sottile, colui che pur stando a strettissimo contatto con di Bettino Craxi non si accorse che costui “rubava” per il partito. Tsz!) Nel suo primo mandato da Presidente del Consiglio si trovò ad affrontare una difficile situazione finanziaria. Per questa ragione, l’11 luglio del 1992 il suo Governo approvò un decreto-legge da 30.000 miliardi di lire in cui tra le altre cose veniva deliberato (retroattivamente al 9 luglio) il prelievo forzoso del 6 per mille dai conti correnti bancari per un “interesse di straordinario rilievo”, in relazione a “una situazione di drammatica emergenza della finanza pubblica”. Le eccezioni di incostituzionalità contro quel decreto vennero successivamente respinte dalla Consulta Tsz! Perché il 6 per mille, e non il 10%? Ovviamente perché con quel 6 per mille si poteva dare successo all’operazione. Dunque sapevano già allora quanti soldi hanno in tasca, Pardon, in C/C, i cittadini del Belpaese. Alla faccia della cosiddetta privacy. Leviamoci dalla testa che esista. I nostri conti correnti bancari sono esposti a qualsiasi “occhiuto” statalista.
In cambio i servizi pubblici sono ulteriormente peggiorati e ridotti di numero. La grassazione fiscale prosegue. I governi italiani continuano ad ottenere la scarsa stima dei partner internazionali. Ottenere l’indipendenza dallo Stato italiano nato e cresciuto sulle sconfitte di Custoza, Lissa, Adua, Caporetto e proseguito con la tristissima giornata dell’8 settembre 1943 (solo per farla breve), sia per mezzo della secessione, che di un referendum o in qualsiasi altro modo, è un imperativo morale, inevitabile, logico, naturale, necessario, inderogabile.