venerdì 7 dicembre 2012

RIVOLUZIONE E TOTALITARISMI: AVVENTURA E DESTINI DELLA MODERNITÀ POLITICA


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Martino Mora insegna storia e filosofia nei licei. E’ nato e vive a Milano, dove ha compiuto anche il suo ciclo di studi. 
Ha già pubblicato “Il nazionalismo” (2003), nonché molti articoli per la carta stampata e per siti internet. 

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Illuminismo e Rivoluzione Francese rappresentano ancora oggi la vetta della cosiddetta modernità, cioè di quella categoria astratta che ha prodotto un pensiero filosofico in polemica col Cristianesimo. L’autore compie una vera e propria radiografia del giacobinismo, intuendo come da esso nascano le varie diramazioni della modernità politica: quelle totalitarie e quelle agnostiche parafrasando Marcel De Corte. 

Non tanto le forme di governo, quanto il Principio dell’autorità divide i due campi in lotta: per la Chiesa ogni autorità deriva da Dio, per la Rivoluzione deriva dal Popolo. Un “popolo” però, inteso non come organica rappresentazione delle famiglie e dei corpi intermedi, ma come astratto portatore di una volontà generale. La “rivoluzione” riuscì a coprire il significato di se stessa, in quanto l’etimo indurrebbe a considerarla piuttosto un “ritorno” ai primordi e non un salto nell’indefinito umano. L’autore usa però troppa cautela nel non mettere troppo nella mischia la Chiesa e il ruolo spirituale e militare della resistenza cattolica nei fatti che vanno dal 1789 al 1793 ed oltre, forse per un ossequio ad una visione ancora troppo poco “vandeana” e ancora “girondina” e moderata della tragedia francese. Rimane infatti l’equivoco ermeneutico del fenomeno bifasico rivoluzionario: fase liberale (buona o accettabile) e fase giacobina (cattiva e totalitaria), in antitesi o in sviluppo omogeneo? A parere dello scrivente il fenomeno fu in realtà unitario, perché ogni tensione utopica comporta un processo di accelerazione rivoluzionaria, ma su questo equivoco di fondo si agita un certo antigiacobinismo di stampo cattolico-liberale, troppo premuroso di seguire le esigenze della politica contemporanea piuttosto che di fare chiarezza in se stesso. Un limite dell’opera è quello di aver voluto attenuare la portata rivoluzionaria degli eventi precedentemente occorsi in Inghilterra e Stati Uniti nell’evidenza del maggior radicalismo del giacobinismo francese ed europeo. In realtà in quei Paesi l’opera fu più lenta perchè la dissoluzione rivoluzionaria era iniziata già col protestantesimo mentre in Francia si trattò semplicemente di recuperare il “tempo perduto”. L’opera più perversa di ogni “rivoluzione” è il tentativo di degradazione del Sacro e la lotta acerrima scagliata alla Chiesa, dissimulata oggi grazie all’azione di una storiografia compiacente e al clima neo-modernista di troppi cattolici sedicenti “adulti”. L’autore svela il senso profondo di una esigenza: la Rivoluzione dovette poi inventarsi una Nuova prospettiva Universale, dovette e deve ancora confusamente ritrovare con altre forme quella Unità Collettiva perduta perchè ghigliottinata. Una ricerca di senso e una scommessa che ancora perdurano e che invano cercano di realizzare quella Città Utopica sognata. Gli epigoni attuali del “clima ottantanovesco” liberal-giacobino sono coloro che attraverso la proposta di un “morale laica”, intendono prescindere totalmente da fondamenti metafisici ancorando la morale all’Uomo stesso, in sé considerato come nuovo alfa e omega, Principio e Fine. La storia ha dimostrato che ogni valorizzazione dell’umano che abbia avuto la pretesa di eludere la dimensione finita e creaturale dell’uomo stesso, ha generato la subordinazione dell’uomo a idoli come la Rivoluzione, la Razza, la Classe, lo Stato, la Storia, il Denaro, la Tecnica e la Libido. Il Maestro indiscusso di questi epigoni è stato Jean-Jacques Rousseau che ebbe modo di inventarsi una sorta di “Immacolata Concezione del Genere Umano”, in buona sostanza un capovolgimento radicale della teologìa cattolica, teso a riconsegnare l’Innocenza all’Uomo, già cittadino di un Mondo Nuovo che redime. Peccato che lo stesso Rousseau, pur essendo “buono per natura” abbandonò i figli in un orfanotrofio. La Rivoluzione si oppone radicalmente alla “mentalità medievale” ancora rivolta alla metafisica e agli insegnamenti della Scolastica, muovendo da un’antropologìa che mette il pensiero prima dell’essere. Molto acutamente Ennio Innocenti ha scritto nei suoi lavori sullo gnosticismo, come la Rivoluzione rappresenti il tentativo di “immanentizzazione dell’ eschatòn cristiano”: Dio si identifica col mondo e non è più trascendente ad esso perchè avrebbe la medesima sostanza di esso. Se il mondo non è più “creato” ma dal nulla si sviluppa indefinitamente assieme a Dio, esso non sarà soggetto alla Chiesa ma sarà la Chiesa a secolarizzarsi, non sarà l’umanità a dover tornare a Dio, ma sarà Dio stesso a realizzarsi pienamente nell’Uomo. In sintesi si approda alla concezione cabalistica della negazione di Dio e della Divinizzazione dell’Uomo. Il Concilio Vaticano II ha rappresentato per la Chiesa, aprendola agli influssi spurii delle filosofìe moderne sorte dalla rivolta contro la metafisica e il tomismo, ciò che la Rivoluzione Francese ha rappresentato per la società politica europea e la Breccia di Porta Pia per l’Italia. Da Arca di Salvezza a parodìa dell’INPS, stretta tra conservatori della rivoluzione e ultraprogressisti un pò come qualsiasi parlamentino occidentale. L’autore può essere considerato certamente un intellettuale di punta della Controrivoluzione che  palesa con garbo forse eccessivo come in estrema sintesi vi sia lo scontro “agostiniano” tra una Città che mette sul trono Dio e una Città che pone invece l’Uomo divinizzato, misura di tutte le cose, al Centro dell’Universo e della società stessa. La costatazione degli stessi rivoluzionari che gli uomini rimanevano però sempre gli stessi, con tutti i loro vizi e le loro meschinità, induceva a non considerare più il Male come proveniente dall’interno stesso dell’umano, ma che la Rivoluzione doveva crescere di intensità per trasformare del tutto lo statuto genetico dell’Uomo per proiettarLo nel “bene”: ecco il Terrore. Appare dunque ovvio che qualsiasi mezzo potrà essere usato per giungere al trionfo della Purezza incarnata dalla Rivoluzione e che la non accettazione della Rivoluzione significava appartenere ad una razza sub-umana (i “briganti”), indegna di vivere: ecco il genocidio vandeano. Del resto lo stesso Maximilien Roberspierre disse alla Convenzione nel 17 febbraio 1794: “Il Terrore altro non è se non la giustizia, pronta, severa, inflessibile….un’emanazione della virtù”. Pulizia materiale quindi di tutto lo “sporco” che occuperebbe la società, con esaltazione dello sterminio così come voluto da Jean Paul Marat (10 agosto 1792): “…non lasciate dietro a voi che cadaveri e sangue”. Peccato per il “popolarismo” giacobino che neanche il 10% delle vittime sarebbero state di “aristocratici”, avendo la furia omicida colpito proprio il popolo che rifiutava la Rivoluzione. Venne così abolita ogni formazione di associazioni contadine con legge del 1793, facilitando l’acquisto da parte della borghesia più facoltosa delle terre demaniali ed ecclesiastiche, prima gravate dall’ipoteca sociale che contemplava diritti maggiori e minori, una proprietà non assoluta ma comunitaria: ecco l’individualismo economico. E così la nuova fraternità avrà come base non la figliolanza (avere un Padre comune) ma la condivisione di una collocazione immanente e neanche un’idea di appartenenza concreta, ma di autosufficienza. Qui appare un altro punto debole della pregevole opera del professor Martino Mora e cioè l’aver sopravvalutato la partecipazione effettiva del popolo ai fatti rivoluzionari compreso l’assalto alla Bastiglia, che in realtà fu una cosetta quasi insignificante se non per il valore simbolico. Ma un libro come questo, per l’importanza delle questioni trattate, per l’acume dimostrato nello scandagliare una tale complessità di argomenti merita di essere non solo letto, ma anche ri-letto in questa epoca di disfacimento nella quale quelle “magnifiche sorti e progressive”, vanno sempre più ed inesorabilmente ad assumere il volto mortifero e ripugnante del serafino apostata, eternamente sconfitto.

  Pietro Ferrari



Fonte:

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