martedì 11 dicembre 2012

Uno Stato ‘borbonico’ ? Magari !

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di

Gennaro De Crescenzo



Ricostruire a livello storiografico o documentario il rapporto che legava lo Stato delle Due Sicilie al popolo non è facile. Il senso dello Stato o, meglio, della nazione non poteva non essere presente e forte di fronte ad una dinastia che seppe governare nel pieno rispetto del suo popolo, delle sue vocazioni e delle sue tradizioni fino al 1860 e anche, e soprattutto, durante l’età di Ferdinando II.

Si può solo cercare di ricostruire, allora, questo rapporto profondo e reciproco prima tenendo conto di alcuni dati che risultano ancora attuali e significativi e dopo sottolineando la reazione che la fine di questo “buon governo” borbonico provocò tra i Napoletani.

 

“Eravamo barbari e pure eravamo in possesso dei migliori ordinamenti. Che i nostri ordini amministrativi fossero eccellenti e per alcuni particolari superiori anche ai francesi lo hanno dimostrato parecchi nostri scrittori né lo contrastano i francesi stessi” e lo stesso si poteva dire per “gli ordini finanzieri”, per “la nostra procedura penale”,  per “i temperamenti della pubblica istruzione”, per “gli ordini della magistratura” come per la “completa legislazione per la pubblica beneficenza”1.

Le critiche positive verso la politica dei Borbone emergono di frequente analizzando (come in questo caso) i testi di scrittori filo-governativi o quelli di storici anti-governativi che molto spesso non potevano evitare di riportare fatti e dati oggettivi.

Ne può derivare un quadro interessante poiché alcuni di questi fatti o di questi dati possono essere ancora utili costituendo dei parametri di giudizio molto vicini a quelli attuali. Il rapporto (oggi quasi inesistente) tra Stato e cittadini risulta infatti ancora legato al buon funzionamento degli uffici pubblici, alla correttezza, alla preparazione e all’onestà dei pubblici impiegati, alla realizzazione di opere pubbliche anche in relazione al peso fiscale, all’ordine pubblico o alla sicurezza sociale che lo Stato deve assicurare, al rispetto e alla valorizzazione di culture, tradizioni e vocazioni.

Non avendo, però, tempo e spazio per esaminare tutta la politica dei Borbone nei suoi vari settori, vale la pena fare riferimento a qualche legge e a qualche osservazione in particolare che possiamo utilizzare da esempio, tralasciando aspetti che meriterebbero più di un approfondimento (pensiamo solo ai provvedimenti per  “per rendere più lieve alle popolazioni il peso delle imposte” o alle bonifiche per favorire l’agricoltura o alle numerosissime istituzioni per l’assistenza e la beneficenza diffuse in tutto il Regno).                                                            

 

“Nessun ministro ebbe mai voce di ladro”; “i capi della nostra Tesoreria  hanno maneggiato per cinquanta e più anni centinaia di milioni di ducati e sfidiamo chicchessia a citare un nome solo che sia rimasto macchiato”; “i molti amministratori delle provincie [...] sono usciti di carica poveri e molti morendo hanno rimasta onorata povertà per unica ricchezza alla loro famiglia”2.

Sui contratti pubblici non si poteva “far lucro”: basti pensare che le gare per gli appalti prevedevano l’aggiudicazione ulteriore “di decima e di settima” dopo l’aggiudicazione definitiva per dare spazio ad eventuali migliori offerte3.

 

A proposito dell’efficienza degli impiegati pubblici “al fine di promuovere lo zelo e l’attività nel servizio pubblico” si dispose che un terzo delle promozioni dovevano darsi per merito “ovvero a coloro che più si distinguono nell’adempimento del loro dovere e nell’esatto esercizio delle loro attribuzioni”4.

La qualità professionale dei funzionari, deducibile da istruzioni, atti, certificati e documenti vari, appare comunque sempre di un buon livello complessivo: provenienti quasi tutti dal ceto medio, erano generalmente dotati di una buona cultura giuridica ed economica derivanti da studi ad indirizzo classico.

La legge, inoltre, tendeva a proteggere i cittadini dagli eventuali errori commessi dagli impiegati pubblici.

Significativo il fatto che il famoso sistema pensionistico già attuato dai Borbone era più favorevole di quello attuale: era prevista la totalità dello stipendio per gli impiegati collocati a riposo con 40 anni e un giorno di servizio, cosa che, oggi come oggi, considerata la prossima probabile eliminazione della possibilità di andare in pensione, sembra quasi poco credibile5.

Gli impiegati, inoltre, potevano usufruire anche di un congedo “per ragionevoli motivi ben giustificati”6.

I criteri di selezione dei professori delle università o dei numerosi collegi o licei si potevano considerare adeguati e moderni: gli esami consistevano in una dissertazione scritta in latino o in italiano; in una lezione in italiano di circa mezz’ora; nella risposta a due “quesiti o difficoltà” o in un esperimento pratico; il tutto mantenendo segreto il nome del candidato nella revisione dei suoi compiti scritti7.

 

Anche se (come nel resto dell’Europa) non era previsto l’obbligo scolastico, esso veniva incentivato richiedendo la frequenza alla scuola primaria a coloro che volevano esercitare un’arte o un mestiere o a coloro che volevano beneficiare di una qualsiasi forma di beneficenza pubblica. Ogni anno, inoltre, venivano distribuiti premi ai maestri o agli allievi più meritevoli8.

 

Esempio minimo ma significativo della efficienza dell’apparato legislativo lo ritroviamo curiosamente nelle norme che disciplinavano le farmacie: oltre al “divieto di ammettere nelle farmacie persone che passavano oziosamente il tempo”, era in vigore l’obbligo di non abbandonare mai le farmacie stesse installando alla loro porta “una corda da sonare un campanello per risvegliare anche in tempo di notte i farmacisti nei casi che siano urgenti i soccorsi”. Era inoltre proibito, con una norma quanto mai attuale, qualsiasi legame tra i farmacisti e i medici o i chirurghi “che possa dar luogo a sospetto di intelligenza colpevole”9.

 

Inutile, forse, sottolineare con quanto consenso fosse accolta dai Napoletani la non obbligatorietà della leva. Alla scarsa percentuale di militari scelti infatti con il sorteggio, si aggiungevano le decine di possibilità di “eccezioni dal marciare” (valide, ad esempio, per i figli unici, per i laureati, i chierici, i fratelli unici dei sacerdoti, i fratelli dei militari, gli operai di Pietrarsa o Mongiana o i corallari di Torre del Greco)10.

Nella tutela di quelli che oggi chiameremmo “beni culturali” un decreto del 1839 riformava in maniera veramente moderna tutto il settore “al fine di preservare da ogni degradazione gli antichi e patri monumenti d’arte, sia per l’illustrazione della storia patria, sia per dare alla gioventù del Regno stesso gli esempi degli antichi maestri”11.



Nel 1845 si riformarono le “novelle carceri [...] e si specificarono le norme da seguire [nella costruzione e nella gestione] per la salubrità, la sicurezza, la capacità [...]; si ripartirono i detenuti in varie categorie; si provvide alla loro occupazione mediante il lavoro periodico nelle manifatture e con una determinata mercede; e da ultimo si diedero opportuni regolamenti intorno alla loro istruzione”12.

 

Sempre in tema di lavori pubblici le grandi opere si dividevano “in porzioni competenti onde escludere i grandi appalti ed ammettere alla concorrenza i piccoli intraprenditori”, provvedimento che in tempi di egemonie politico-economiche come i nostri ci fa riflettere non poco. Il direttore dei lavori, poi, stabiliva alla fine di ogni settimana il “numero dei travaglianti” da impiegare e che dovevano essere ricercati nei comuni vicini solo se non si trovavano nel comune interessato13. Era prevista anche la “sospensione del soldo o la destituzione dei responsabili dei lavori “per le spese eccedenti la previsione del progetto”14. 

Secondo recenti calcoli i lavori secolari da qualche mese ripresi per l’ampliamento della Salerno-Reggio Calabria (unica via di comunicazione stradale meridionale) avranno dei ritardi finali ottimisticamente vicini ai  18 anni.

 

Particolarmente significativa anche l’istituzione e l’accurata regolamentazione relativa alle “guardie urbane”, forze ausiliari che integravano la gendarmeria nei servizi di polizia o ordine pubblico: “la più utile istituzione nostra -secondo le parole del De’ Sivo- senza remunerazioni servivano la patria per amore [...] erano la vera rappresentanza armata del popolo [...] erano l’antidoto della rivoluzione anzi la controrivoluzione in potenza”15. Mentre altrove allora e oggi questi “vigili” volontari “armati di baionette, cangiarro e coccarde rosse sui cappelli”,  sarebbero diventati il simbolo di un senso civico giusto e politicamente corretto, nella Napoli dei Borbone essi diventano, nella storiografia ufficiale, l’espressione armata del potere dei “tiranni”16.

 

Tutto questo faceva del governo borbonico un “buon governo”. E non poteva non essere “buono” un governo che si fondava sul Codice per lo Regno delle Due Sicilie, “il più grande monumento della legislazione borbonica e del pensiero giuridico meridionale”, in vigore dal 1819 con i sui 2187 articoli: “un completo corpo di diritto patrio che -come si leggeva nel preambolo- fosse adattato all’indole dei nostri popoli [...] e che racchiudesse il grande oggetto della sicurezza delle persone e della società” dopo che l’occupazione francese aveva “sottoposto i nostri popoli a leggi straniere non sempre corrispondenti alle abitudini, alle idee religiose, alle passioni e ai bisogni della nazione”17. Non a caso tra i primi provvedimenti si segnala quello relativo all’abolizione del divorzio18.



Spunti interessanti e attuali li troviamo ancora nel dibattito post-unitario, quando anche oppositori e critici si trovarono a fare i conti con la fine di un governo che risultava più che “buono” soprattutto se messo in relazione con quello italiano.

Di fronte alla moda dilagante del federalismo a tutti i costi, ad esempio, Enrico Cenni osservava 140 anni fa: “Oggi è di moda la parola decentralizzazione ma i più non capiscono di cosa si tratta. Se per decentralizzazione si intende lo sciogliere i ceppi che impediscono il libero movimento delle parti essa è buona e salutare. Ma se per decentralizzazione si intende la dissoluzione del tutto nelle sue parti quest’ordine è morte, non vita... Ogni comune reso autonomo ha una naturale tendenza a guardare sé solamente e il proprio utile senza brigarsi degli altri: come si vuole che un comune di Abruzzo studi a mettersi in armonia con uno di Calabria?”19.

Come si vuole oggi, allora, che la Regione Veneto resti in armonia con la Campania quando si tratterà di fare accordi in Europa, ad esempio? 

 

E di fronte all’imposizione altrettanto forzata della moneta unica europea di oggi sono ancora attuali altre osservazioni sull’imposizione della moneta unica italiana di allora: “Or di grazia il perdere una moneta buona e fare acquisto di una cattiva non è un danno materiale? E gli speculatori come possono arricchire se non a danno dei possessori della vecchia moneta d’argento? E che dire poi dell’idea di unizzare la moneta senza che realmente l’unica moneta esistesse?”20.

 

Per quanto riguarda l’istruzione, senza esaminare nei particolari una situazione tutt’altro che negativa, c’è da sottolineare una interessante osservazione fatta sempre dal Cenni e ancora molto attuale visto l’acceso dibattito in corso tra i sostenitori delle scuole pubbliche e quelli delle scuole private. Nel Regno, infatti, prevalevano i professori privati e “la concorrenza di tanti professori era un acuto sprone per loro a perfezionarsi sempre di più [...] la indipendenza di cui godevano, del resto, li assolveva da ogni attitudine servile verso il governo”.

I piemontesi, invece, vollero “mettere nelle mani del governo l’insegnamento, solo mezzo efficace per renderlo vacuo e immobile” e probabilmente i nostri sforzi futuri andrebbero concentrati proprio verso alunni e docenti, sempre al centro dei processi di formazione delle nuove classi dirigenti21.

 

Il concetto di “malgoverno” appare invece evidente e rende ancora di più l’idea del “buon governo” borbonico appena passato, quando si accendono appunto le polemiche sulle nuove classi dirigenti che avrebbero dovuto rappresentare il Sud nell’Italia unita.

“Il governo che doveva essere conciliante invece si dichiarò partigiano. Si trovò per adonestare queste enormezze un vocabolo: l’aggettivo “borbonico”. E la parola comprendeva anche quelli che per convinzione tenevano al reggimento antico. Che importanza avesse il vocabolo borbonico non fu spiegato giammai: era una specie di  materia elastica che, tira di qua, tira di là, poteva aggiustarsi ad un numero infinito di persone; e fu dato del borbonico a chiunque mostrava di dissentire dall’indirizzo governativo. E fu decretata col più cinico sangue freddo la rovina di migliaia di impiegati e delle loro famiglie a molti dei quali non rimase altro che andare elemosinando. Si stette contenti di ridurre solamente la gente alla miseria e coprirla di vergogna. Chi mirava a qualche ufficio lucroso o no, non aveva via più sicura che dare del borbonico a colui che aspirava a soppiantare: alla magica parola questi era scavalcato e l’avversario montava in sella al luogo suo. Si videro sbucare da ogni parte torme di unitari, di martiri e di salvatori della patria: fu piacevole spettacolo assistere a frequenti metamorfosi non meno maravigliose delle ovidiane. La camorra fu universale ma questa volta era governativa. Questo vocabolo con la rapidità del lampo si dilatò per le province per un posto di ufficiale della milizia cittadina,  per ottenere quell’appalto”22.

Ed è qui la chiave per leggere la storia e la politica successiva: di qui la formazione di classi dirigenti che rinnegano se stesse, la loro cultura, le loro radici, rivendicando al contrario l’appartenenza ad una cultura non nostra per quell’incarico, per quel posto, per quella cattedra o per quell’appalto: è proprio di questi giorni la polemica di uno dei più famosi intellettuali napoletani “ufficiali” contro Pulcinella-simbolo negativo del popolo che non vuole cambiare nonostante gli “sforzi” della cultura illuminata, con la teorizzazione della cancellazione di Pulcinella e dell’eliminazione veramente rivoluzionaria della “plebe che non capisce” in perfetto stile-1799.



“Anche i nostri popolani capivano bene l’unità del regno napoletano ma quella d’Italia era per loro un’incognita. Le moltitudini volevano in primo luogo essere ben governate e non essere tormentate negli affari loro. L’avrebbero amata l’unità se loro fosse tornata a bene”23.

Allo stesso modo i Napoletani di oggi, forse, andrebbero a votare se solo avessero fiducia in una politica che fosse gestita “a loro bene”.

 

“Si è in mille occasioni pubblicamente calpestato il nome napoletano e non si è alzata una voce a difendere questo nobile popolo. Si sono lanciate filippiche violente e bugiarde contro la corruzione, l’ignoranza, l’intemperanza, l’incapacità civile dei napoletani e non vi è surto alcuno che abbia raccolto il guanto e rintuzzato le indegne calunnie. Si sono assalite screditandole e deridendole le nostre migliori istituzioni e dai nostri deputati si sono lasciate combattere e distruggere senza una contesa. Si è apertamene oltraggiata la religione dei nostri padri e non si è sciolta una lingua per rimbeccare l’offesa. Sono questi i rappresentanti del popolo napoletano e del popolo napoletano cattolico?”24.

E risultano di un’attualità sorprendente queste considerazioni di fronte alla totale assenza di una classe dirigente degna dei meridionali. E’ un’assenza che dura ormai da 140 anni e, a prescindere da schieramenti, partiti, progetti o chiacchiere, è il primo, unico e vero problema del nostro Sud.

 

Gennaro De Crescenzo

Gaeta, 3 giugno 2000

 


NOTE

 

(1)      Enrico Cenni, Delle presenti condizioni d’Italia e del suo riordinamento civile, Napoli, 1862, p. 205

(2)      Ivi, p. 206

(3)      Ivi, p. 208

(4)      Collezione delle leggi e de’ decreti del Regno delle Due Sicilie, decreto reale del 18 giugno 1842; Gennaro Volpicelli, Cenno storico su i miglioramenti legislativi e amministrativi operati nel Reame di Napoli dal 1830 al 1847 [del magistrato Gennaro Volpicelli], Napoli, 1851, p. 37

(5)      Collezione cit., decreto del 22 marzo 1823; cfr. Guido Landi, Istituzioni di diritto pubblico del Regno delle Due Sicilie (1815-1861), tomi 2, Milano, 1977, pp. 238,239

(6)      Collezione cit., decreto del 6 novembre 1821

(7)      Collezione cit., decreto del 17 luglio 1846

(8)      Collezione cit., decreto del 21 dicembre 1819

(9)      Collezione cit., decreto del 5 agosto 1853

(10)    Cfr. il lungo elenco riportato da G. Landi cit., pp.568-578

(11)    Collezione cit., decreto del 16 settembre 1839

(12)    Collezione cit., decreto del 21 aprile 1845; cfr. G. Volpicelli cit., pp. 46 47

(13)    Cfr. G. Landi cit., p.662; Collezione cit. decreti del 13 marzo 1835 e del 12 ottobre 1830

(14)    Collezione cit., decreto del 7 gennaio 1846

(15)    Giacinto de’ Sivo, Storia delle Due Sicile dal 1847 al 1861, Trieste, 1868, II vol., p.12

(16)    Cfr. il regolamento riportato da G. Landi cit. da p. 684 e i suoi giudizi positivi; v. Collezione cit., decreto del 24 novembre 1827

(17)    Preambolo del Decreto Reale del 2 agosto 1815

(18)    Collezione cit., decreto del 13 giugno 1815

(19)    E. Cenni cit., pp.213-215

(20)    Ivi, pp.220 221

(21)    Ivi, pp.228 229

(22)    Ivi, pp.266 267

(23)    Ivi, pp.197-200

(24)    Ivi, pp.266 267