di
Gennaro De Crescenzo
Ricostruire a livello storiografico o documentario il rapporto che legava lo
Stato delle Due Sicilie al popolo non è facile. Il senso dello Stato o, meglio,
della nazione non poteva non essere presente e forte di fronte ad una dinastia
che seppe governare nel pieno rispetto del suo popolo, delle sue vocazioni e
delle sue tradizioni fino al 1860 e anche, e soprattutto, durante l’età di
Ferdinando II.
Si può solo cercare
di ricostruire, allora, questo rapporto profondo e reciproco prima tenendo
conto di alcuni dati che risultano ancora attuali e significativi e dopo
sottolineando la reazione che la fine di questo “buon governo” borbonico
provocò tra i Napoletani.
“Eravamo barbari e
pure eravamo in possesso dei migliori ordinamenti. Che i nostri ordini
amministrativi fossero eccellenti e per alcuni particolari superiori anche ai
francesi lo hanno dimostrato parecchi nostri scrittori né lo contrastano i
francesi stessi” e lo stesso si poteva dire per “gli ordini finanzieri”, per
“la nostra procedura penale”, per “i
temperamenti della pubblica istruzione”, per “gli ordini della magistratura”
come per la “completa legislazione per la pubblica beneficenza”1.
Le critiche positive
verso la politica dei Borbone emergono di frequente analizzando (come in questo
caso) i testi di scrittori filo-governativi o quelli di storici
anti-governativi che molto spesso non potevano evitare di riportare fatti e
dati oggettivi.
Ne può derivare un quadro interessante poiché alcuni di
questi fatti o di questi dati possono essere ancora utili costituendo dei
parametri di giudizio molto vicini a quelli attuali. Il rapporto (oggi quasi
inesistente) tra Stato e cittadini risulta infatti ancora legato al buon
funzionamento degli uffici pubblici, alla correttezza, alla preparazione e
all’onestà dei pubblici impiegati, alla realizzazione di opere pubbliche anche
in relazione al peso fiscale, all’ordine pubblico o alla sicurezza sociale che
lo Stato deve assicurare, al rispetto e alla valorizzazione di culture,
tradizioni e vocazioni.
Non avendo, però,
tempo e spazio per esaminare tutta la politica dei Borbone nei suoi vari
settori, vale la pena fare riferimento a qualche legge e a qualche osservazione
in particolare che possiamo utilizzare da esempio, tralasciando aspetti che
meriterebbero più di un approfondimento (pensiamo solo ai provvedimenti
per “per rendere più lieve alle
popolazioni il peso delle imposte” o alle bonifiche per favorire l’agricoltura
o alle numerosissime istituzioni per l’assistenza e la beneficenza diffuse in
tutto il Regno).
“Nessun ministro
ebbe mai voce di ladro”; “i capi della nostra Tesoreria hanno maneggiato per cinquanta e più anni
centinaia di milioni di ducati e sfidiamo chicchessia a citare un nome solo che
sia rimasto macchiato”; “i molti amministratori delle provincie [...] sono
usciti di carica poveri e molti morendo hanno rimasta onorata povertà per unica
ricchezza alla loro famiglia”2.
Sui contratti
pubblici non si poteva “far lucro”: basti pensare che le gare per gli appalti
prevedevano l’aggiudicazione ulteriore “di decima e di settima” dopo
l’aggiudicazione definitiva per dare spazio ad eventuali migliori offerte3.
A proposito
dell’efficienza degli impiegati pubblici “al fine di promuovere lo zelo e
l’attività nel servizio pubblico” si dispose che un terzo delle promozioni
dovevano darsi per merito “ovvero a coloro che più si distinguono
nell’adempimento del loro dovere e nell’esatto esercizio delle loro attribuzioni”4.
La qualità
professionale dei funzionari, deducibile da istruzioni, atti, certificati e
documenti vari, appare comunque sempre di un buon livello complessivo:
provenienti quasi tutti dal ceto medio, erano generalmente dotati di una buona
cultura giuridica ed economica derivanti da studi ad indirizzo classico.
La legge, inoltre,
tendeva a proteggere i cittadini dagli eventuali errori commessi dagli
impiegati pubblici.
Significativo il
fatto che il famoso sistema pensionistico già attuato dai Borbone era più
favorevole di quello attuale: era prevista la totalità dello stipendio per gli
impiegati collocati a riposo con 40 anni e un giorno di servizio, cosa che,
oggi come oggi, considerata la prossima probabile eliminazione della
possibilità di andare in pensione, sembra quasi poco credibile5.
Gli impiegati,
inoltre, potevano usufruire anche di un congedo “per ragionevoli motivi ben
giustificati”6.
I criteri di
selezione dei professori delle università o dei numerosi collegi o licei si
potevano considerare adeguati e moderni: gli esami consistevano in una
dissertazione scritta in latino o in italiano; in una lezione in italiano di
circa mezz’ora; nella risposta a due “quesiti o difficoltà” o in un esperimento
pratico; il tutto mantenendo segreto il nome del candidato nella revisione dei
suoi compiti scritti7.
Anche se (come nel
resto dell’Europa) non era previsto l’obbligo scolastico, esso veniva
incentivato richiedendo la frequenza alla scuola primaria a coloro che volevano
esercitare un’arte o un mestiere o a coloro che volevano beneficiare di una
qualsiasi forma di beneficenza pubblica. Ogni anno, inoltre, venivano
distribuiti premi ai maestri o agli allievi più meritevoli8.
Esempio minimo ma
significativo della efficienza dell’apparato legislativo lo ritroviamo
curiosamente nelle norme che disciplinavano le farmacie: oltre al “divieto di
ammettere nelle farmacie persone che passavano oziosamente il tempo”, era in
vigore l’obbligo di non abbandonare mai le farmacie stesse installando alla
loro porta “una corda da sonare un campanello per risvegliare anche in tempo di
notte i farmacisti nei casi che siano urgenti i soccorsi”. Era inoltre
proibito, con una norma quanto mai attuale, qualsiasi legame tra i farmacisti e
i medici o i chirurghi “che possa dar luogo a sospetto di intelligenza
colpevole”9.
Inutile, forse,
sottolineare con quanto consenso fosse accolta dai Napoletani la non
obbligatorietà della leva. Alla scarsa percentuale di militari scelti infatti
con il sorteggio, si aggiungevano le decine di possibilità di “eccezioni dal
marciare” (valide, ad esempio, per i figli unici, per i laureati, i chierici, i
fratelli unici dei sacerdoti, i fratelli dei militari, gli operai di Pietrarsa
o Mongiana o i corallari di Torre del Greco)10.
Nella tutela di
quelli che oggi chiameremmo “beni culturali” un decreto del 1839 riformava in
maniera veramente moderna tutto il settore “al fine di preservare da ogni
degradazione gli antichi e patri monumenti d’arte, sia per l’illustrazione
della storia patria, sia per dare alla gioventù del Regno stesso gli esempi
degli antichi maestri”11.
Nel 1845 si
riformarono le “novelle carceri [...] e si specificarono le norme da seguire
[nella costruzione e nella gestione] per la salubrità, la sicurezza, la
capacità [...]; si ripartirono i detenuti in varie categorie; si provvide alla
loro occupazione mediante il lavoro periodico nelle manifatture e con una
determinata mercede; e da ultimo si diedero opportuni regolamenti intorno alla
loro istruzione”12.
Sempre in tema di
lavori pubblici le grandi opere si dividevano “in porzioni competenti onde
escludere i grandi appalti ed ammettere alla concorrenza i piccoli
intraprenditori”, provvedimento che in tempi di egemonie politico-economiche
come i nostri ci fa riflettere non poco. Il direttore dei lavori, poi,
stabiliva alla fine di ogni settimana il “numero dei travaglianti” da impiegare
e che dovevano essere ricercati nei comuni vicini solo se non si trovavano nel
comune interessato13. Era prevista anche la “sospensione del soldo o
la destituzione dei responsabili dei lavori “per le spese eccedenti la
previsione del progetto”14.
Secondo recenti
calcoli i lavori secolari da qualche mese ripresi per l’ampliamento della
Salerno-Reggio Calabria (unica via di comunicazione stradale meridionale)
avranno dei ritardi finali ottimisticamente vicini ai 18 anni.
Particolarmente
significativa anche l’istituzione e l’accurata regolamentazione relativa alle
“guardie urbane”, forze ausiliari che integravano la gendarmeria nei servizi di
polizia o ordine pubblico: “la più utile istituzione nostra -secondo le parole
del De’ Sivo- senza remunerazioni servivano la patria per amore [...] erano la
vera rappresentanza armata del popolo [...] erano l’antidoto della rivoluzione
anzi la controrivoluzione in potenza”15. Mentre altrove allora e
oggi questi “vigili” volontari “armati di baionette, cangiarro e coccarde rosse
sui cappelli”, sarebbero diventati il
simbolo di un senso civico giusto e politicamente corretto, nella Napoli dei
Borbone essi diventano, nella storiografia ufficiale, l’espressione armata del
potere dei “tiranni”16.
Tutto questo faceva
del governo borbonico un “buon governo”. E non poteva non essere “buono” un
governo che si fondava sul Codice per lo
Regno delle Due Sicilie, “il più grande monumento della legislazione
borbonica e del pensiero giuridico meridionale”, in vigore dal 1819 con i sui
2187 articoli: “un completo corpo di diritto patrio che -come si leggeva nel
preambolo- fosse adattato all’indole dei nostri popoli [...] e che racchiudesse
il grande oggetto della sicurezza delle persone e della società” dopo che
l’occupazione francese aveva “sottoposto i nostri popoli a leggi straniere non
sempre corrispondenti alle abitudini, alle idee religiose, alle passioni e ai
bisogni della nazione”17. Non a caso tra i primi provvedimenti si
segnala quello relativo all’abolizione del divorzio18.
Spunti interessanti
e attuali li troviamo ancora nel dibattito post-unitario, quando anche
oppositori e critici si trovarono a fare i conti con la fine di un governo che
risultava più che “buono” soprattutto se messo in relazione con quello
italiano.
Di fronte alla moda
dilagante del federalismo a tutti i costi, ad esempio, Enrico Cenni osservava
140 anni fa: “Oggi è di moda la parola decentralizzazione ma i più non
capiscono di cosa si tratta. Se per decentralizzazione si intende lo sciogliere
i ceppi che impediscono il libero movimento delle parti essa è buona e
salutare. Ma se per decentralizzazione si intende la dissoluzione del tutto nelle
sue parti quest’ordine è morte, non vita... Ogni comune reso autonomo ha una
naturale tendenza a guardare sé solamente e il proprio utile senza brigarsi
degli altri: come si vuole che un comune di Abruzzo studi a mettersi in armonia
con uno di Calabria?”19.
Come si vuole oggi,
allora, che la Regione Veneto resti in armonia con la Campania quando si
tratterà di fare accordi in Europa, ad esempio?
E di fronte
all’imposizione altrettanto forzata della moneta unica europea di oggi sono
ancora attuali altre osservazioni sull’imposizione della moneta unica italiana
di allora: “Or di grazia il perdere una moneta buona e fare acquisto di una
cattiva non è un danno materiale? E gli speculatori come possono arricchire se
non a danno dei possessori della vecchia moneta d’argento? E che dire poi
dell’idea di unizzare la moneta senza che realmente l’unica moneta esistesse?”20.
Per quanto riguarda
l’istruzione, senza esaminare nei particolari una situazione tutt’altro che
negativa, c’è da sottolineare una interessante osservazione fatta sempre dal
Cenni e ancora molto attuale visto l’acceso dibattito in corso tra i
sostenitori delle scuole pubbliche e quelli delle scuole private. Nel Regno,
infatti, prevalevano i professori privati e “la concorrenza di tanti professori
era un acuto sprone per loro a perfezionarsi sempre di più [...] la
indipendenza di cui godevano, del resto, li assolveva da ogni attitudine
servile verso il governo”.
I piemontesi,
invece, vollero “mettere nelle mani del governo l’insegnamento, solo mezzo
efficace per renderlo vacuo e immobile” e probabilmente i nostri sforzi futuri
andrebbero concentrati proprio verso alunni e docenti, sempre al centro dei
processi di formazione delle nuove classi dirigenti21.
Il concetto di
“malgoverno” appare invece evidente e rende ancora di più l’idea del “buon
governo” borbonico appena passato, quando si accendono appunto le polemiche
sulle nuove classi dirigenti che avrebbero dovuto rappresentare il Sud
nell’Italia unita.
“Il governo che
doveva essere conciliante invece si dichiarò partigiano. Si trovò per
adonestare queste enormezze un vocabolo: l’aggettivo “borbonico”. E la parola
comprendeva anche quelli che per convinzione tenevano al reggimento antico. Che
importanza avesse il vocabolo borbonico non fu spiegato giammai: era una specie
di materia elastica che, tira di qua,
tira di là, poteva aggiustarsi ad un numero infinito di persone; e fu dato del
borbonico a chiunque mostrava di dissentire dall’indirizzo governativo. E fu
decretata col più cinico sangue freddo la rovina di migliaia di impiegati e
delle loro famiglie a molti dei quali non rimase altro che andare elemosinando.
Si stette contenti di ridurre solamente la gente alla miseria e coprirla di
vergogna. Chi mirava a qualche ufficio lucroso o no, non aveva via più sicura
che dare del borbonico a colui che aspirava a soppiantare: alla magica parola
questi era scavalcato e l’avversario montava in sella al luogo suo. Si videro
sbucare da ogni parte torme di unitari, di martiri e di salvatori della patria:
fu piacevole spettacolo assistere a frequenti metamorfosi non meno maravigliose
delle ovidiane. La camorra fu universale ma questa volta era governativa.
Questo vocabolo con la rapidità del lampo si dilatò per le province per un
posto di ufficiale della milizia cittadina, per ottenere quell’appalto”22.
Ed è qui la chiave
per leggere la storia e la politica successiva: di qui la formazione di classi
dirigenti che rinnegano se stesse, la loro cultura, le loro radici,
rivendicando al contrario l’appartenenza ad una cultura non nostra per
quell’incarico, per quel posto, per quella cattedra o per quell’appalto: è
proprio di questi giorni la polemica di uno dei più famosi intellettuali
napoletani “ufficiali” contro Pulcinella-simbolo negativo del popolo che non
vuole cambiare nonostante gli “sforzi” della cultura illuminata, con la
teorizzazione della cancellazione di Pulcinella e dell’eliminazione veramente
rivoluzionaria della “plebe che non capisce” in perfetto stile-1799.
“Anche i nostri
popolani capivano bene l’unità del regno napoletano ma quella d’Italia era per
loro un’incognita. Le moltitudini volevano in primo luogo essere ben governate
e non essere tormentate negli affari loro. L’avrebbero amata l’unità se loro
fosse tornata a bene”23.
Allo stesso modo i
Napoletani di oggi, forse, andrebbero a votare se solo avessero fiducia in una
politica che fosse gestita “a loro bene”.
“Si è in mille
occasioni pubblicamente calpestato il nome napoletano e non si è alzata una
voce a difendere questo nobile popolo. Si sono lanciate filippiche violente e
bugiarde contro la corruzione, l’ignoranza, l’intemperanza, l’incapacità civile
dei napoletani e non vi è surto alcuno che abbia raccolto il guanto e
rintuzzato le indegne calunnie. Si sono assalite screditandole e deridendole le
nostre migliori istituzioni e dai nostri deputati si sono lasciate combattere e
distruggere senza una contesa. Si è apertamene oltraggiata la religione dei
nostri padri e non si è sciolta una lingua per rimbeccare l’offesa. Sono questi
i rappresentanti del popolo napoletano e del popolo napoletano cattolico?”24.
E risultano di
un’attualità sorprendente queste considerazioni di fronte alla totale assenza
di una classe dirigente degna dei meridionali. E’ un’assenza che dura ormai da
140 anni e, a prescindere da schieramenti, partiti, progetti o chiacchiere, è
il primo, unico e vero problema del nostro Sud.
Gennaro De Crescenzo
Gaeta, 3 giugno
2000
NOTE
(1) Enrico Cenni, Delle presenti condizioni d’Italia e del suo
riordinamento civile, Napoli, 1862, p. 205
(2) Ivi, p. 206
(3) Ivi, p. 208
(4) Collezione delle leggi e de’ decreti del Regno delle
Due Sicilie,
decreto reale del 18 giugno 1842; Gennaro Volpicelli, Cenno storico su i miglioramenti legislativi e amministrativi operati
nel Reame di Napoli dal 1830 al 1847 [del magistrato Gennaro Volpicelli],
Napoli, 1851, p. 37
(5) Collezione cit.,
decreto del 22 marzo 1823; cfr. Guido Landi, Istituzioni di diritto pubblico del Regno delle Due Sicilie (1815-1861),
tomi 2, Milano, 1977, pp. 238,239
(6) Collezione cit., decreto del 6 novembre 1821
(7) Collezione cit., decreto del 17 luglio 1846
(8) Collezione cit., decreto del 21 dicembre 1819
(9) Collezione cit., decreto del 5 agosto 1853
(10) Cfr. il lungo elenco
riportato da G. Landi cit., pp.568-578
(11) Collezione cit., decreto del 16 settembre 1839
(12) Collezione cit., decreto del 21 aprile 1845; cfr. G.
Volpicelli cit., pp. 46 47
(13) Cfr. G. Landi cit.,
p.662; Collezione cit. decreti del 13
marzo 1835 e del 12 ottobre 1830
(14) Collezione cit., decreto del 7 gennaio 1846
(15) Giacinto de’ Sivo, Storia delle Due Sicile dal 1847 al 1861,
Trieste, 1868, II vol., p.12
(16) Cfr. il regolamento
riportato da G. Landi cit. da p. 684 e i suoi giudizi positivi; v. Collezione cit., decreto del 24 novembre
1827
(17) Preambolo del
Decreto Reale del 2 agosto 1815
(18) Collezione cit., decreto del 13 giugno 1815
(19) E. Cenni cit.,
pp.213-215
(20) Ivi, pp.220 221
(21) Ivi, pp.228 229
(22) Ivi, pp.266 267
(23) Ivi, pp.197-200
(24) Ivi, pp.266 267