domenica 30 dicembre 2012

«Con i soldi del Vaticano si potrebbero salvare i bambini africani”: ma è proprio vero? ( seconda ed ultima parte)

 
 
Mitra
 
 
 
 
 
 
Perché la ricchezza non è, in sé, un peccato, ma è molto facile che la ricchezza induca a peccare… Proviamo a porre ad uno qualsiasi dei nostri amici o conoscenti la fatidica domanda “cosa faresti se vincessi 100 milioni di euro al superenalotto?”… Ben difficilmente otterremo risposte edificanti.
E tuttavia – lo ripetiamo – non è la ricchezza in sé ad essere peccaminosa. Supponiamo di spendere 50mila euro per una autovettura. Potremmo acquistare un’auto sportiva, con la quale “rimorchiare” ragazze, o un mini-pulmino, con il quale accompagnare le vecchiette alla Messa. In entrambi i casi avremmo la stessa “ricchezza” (un autoveicolo da 50mila euro), ma nel primo caso la ricchezza sarebbe stata utilizzata per finalità “edonistiche”, nel secondo caso per compiere un’opera di bene. Come si vede, dunque, la differenza non è nella ricchezza, ma nell’uso che se ne fa.
Da sempre la Chiesa ha insegnato che la ricchezza deve essere “ordinata al bene”, cioè “utilizzata a fin di bene”. E – senz’altro – rendere culto a Dio è un’opera di bene, anzi L’OPERA di bene per eccellenza (sebbene la mentalità moderna non concordi). Paramenti, calici, candelabri etc d’oro costituiscono una ricchezza utilizzata a fin di bene, in quanto sono diretti a rendere culto a Dio. Ed infatti possiamo fare la “prova del 9” chiedendoci: «queste “ricchezze” spingono ad un qualche peccato?» Ci accorgeremo che la risposta è negativa. Un Pontefice od un vescovo non portano una “collana d’oro” od un “anello d’oro” per soddisfare qualche desiderio peccaminoso. Non sono paragonabili agli ornamenti di una ragazza o di un giovanotto che servono per essere “più belli”, “più affascinanti” e poter in tal modo più facilmente soddisfare, ad esempio, i propri desideri lussuriosi. Tali ricchezze non inducono alla “pigrizia” come quelle di chi “vive di rendita”. Tali ricchezze non conducono a “peccati di gola” come quelle spese per organizzare banchetti.
Prendiamo l’esempio di un Pontefice Santo quale Pio XII. Egli indossava senz’altro tutti i paramenti d’oro necessari alle varie circostanze liturgiche, utilizzava candelabri e calici d’oro dei più preziosi. E tuttavia lo stesso dormiva, per fare penitenza, su dure tavole di legno e si cibava, per gran parte dell’anno in maniera molto modesta. Lo stesso si può dire per Sant’Ignazio di Loyola, fondatore dei Gesuiti (già molto “potenti” sin da quando il fondatore era in vita) che tuttavia per tutta l’ultima parte della sua vita si cibò solo di pane ed acqua.

E allora mi chiedo e vi chiedo: chi vive con maggiori “comodità”? Chi utilizza paramenti e calici d’oro per celebrare la Messa, ma poi dorme su tavole di legno e mangia solo pane ed acqua o chi, guadagnando mille o duemila euro al mese, torna a casa propria, mangia ciò che vuole e si corica con la propria moglie (anche questo dettaglio non di poco conto) su di un comodo materasso?
Non è dunque la ricchezza in sé ad essere peccaminosa, ma il peccato potrebbe nascere dall’animo umano che dalla ricchezza e dal più facile accesso che la stessa offre alle comodità mondane ed alle possibilità di peccare, si lascia tentare e corrompere.
Ma la storia ci ha offerto esempio di grandi personaggi, oggettivamente ricchi, che hanno vissuto santamente la propria condizione, avendo considerato con “distacco” e senza “cupidigia” la propria ricchezza ed avendola, anzi, utilizzata a fin di bene. Ci sono – ad esempio – numerosi casi di Re Santi, come San Luigi IX, Re di Francia, o Santo Stefano d’Ungheria, fino allo stesso Carlo Magno.
Per non parlare poi del grande salmista, il Re Davide, che veniva additato addirittura quale esempio di povertà ed umiltà[1], pur essendo egli stesso un Sovrano, poiché viveva con distacco la propria condizione, mettendo al primo posto Dio soltanto.
Dunque, visto che a Dio tutto è possibile, ci sono stati e ci saranno nella storia uomini ricchi che useranno santamente la propria ricchezza e che grazie ad essere potranno compiere opere benefiche divenendo pertanto santi. Ma, ordinariamente, la povertà è preferibile.
 
Ma la ricchezza, se utilizzata per rendere gloria a Dio, è ben utilizzata, come si è mostrato con alcuni esempi, e come Cristo stesso ci dice, nel brano seguente:
 
«Maria allora, presa una libbra di olio profumato di vero nardo, assai prezioso, cosparse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì del profumo dell’unguento. Allora Giuda Iscariota, uno dei suoi discepoli, che doveva poi tradirlo, disse: “Perché quest’olio profumato non si è venduto per trecento denari per poi darli ai poveri?”. Questo egli disse non perché gl’importasse dei poveri, ma perché era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro. Gesù allora disse: “Lasciala fare, perché lo conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me”»[2].
 
Si noti, che è proprio Giuda Iscariota a fare l’obiezione dei laicisti ed anticlericali moderni: «ma quei soldi [che Maria, sorella di Lazzaro, utilizza per “rendere culto” a Gesù] non li potremmo utilizzare per darli ai poveri?». Leggendo il Vangelo di Marco, sembrerebbe addirittura che fu questo episodio a convincere Giuda a tradire Gesù[3]!
 
Si noti un’altra cosa fondamentale di questo passo: che Gesù e gli Apostoli erano personalmente poveri, ma avevano in comune una cassa!
Bisogna dunque distinguere fra povertà del singolo sacerdote o vescovo, che sarebbe cosa buona in quanto imitazione di ciò che fecero Gesù e gli Apostoli, e la “povertà della Chiesa” reclamata dai laicisti ed anticlericali!
 
La povertà della Chiesa (come istituzione) non è stata affatto e mai ordinata da Gesù! Non solo gli tutti gli ordini religiosi dal Medioevo (ed anche prima) in poi hanno sempre distinto fra povertà personale del singolo monaco o frate e possibilità (lecita) per l’ordine di detenere beni e ricchezze in proprietà od in uso, ma – come abbiamo visto – già gli apostoli, durante il tempo della predicazione di Gesù, avevano una “cassa in comune”, cosa che si potrà ulteriormente riscontrare leggendo anche gli Atti degli Apostoli.
 
Dunque, giunti in conclusione, vorrei riassumere in maniera schematica quanto detto, auspicando che queste considerazioni siano utili non tanto per i laicisti ed anticlericali (i quali troveranno sempre una “non buona” “sragione” per attaccare la Chiesa), quanto piuttosto per quei fedeli che rimangono “scandalizzati” da tali argomentazioni e non sanno in che modo rispondere né verbalmente né “in cuor loro”.
 
Abbiamo dunque dimostrato che:
 
1 – la ricchezza in sé non è un peccato;
2 – la ricchezza può essere utilizzata bene o male, ed usarla per rendere culto a Dio è un modo buono (anzi “IL modo OTTIMO”) di utilizzarla;
3 – il fatto utilizzare paramenti sacri, calici e candelabri d’oro non reca all’utilizzatore alcuna “comodità” né “agevolazione” nella sua vita personale, che anzi spesso è costellata di penitenze che l’uomo comune non pratica neppure lontanamente;
4 – ogni cristiano (quindi laici e sacerdoti allo stesso modo) personalmente è chiamato (“se vuole essere perfetto”) alla povertà, ma ciò non vuol dire che debba essere povera la Chiesa in quanto istituzione. Anzi fin dai tempi di Gesù gli apostoli avevano una “cassa”;
e soprattutto:
5 – ogni cristiano è chiamato, per amore del prossimo, a dare da mangiare agli affamati, da bere agli assetati etc, ed il “fine ultimo” di questi gesti non è tanto aiutare materialmente il povero, quanto aiutare spiritualmente chi compie il gesto. Pertanto delegare questo compito ad istituzioni astratte (Stato, Caritas, Chiesa, Servizi Sociali, ONU, etc) è un gravissimo errore che abbiamo additato come “inganno satanico”;

6 – pertanto, visto che il fine ultimo della Chiesa è quello di salvare le anime dei cristiani , Essa non deve fornire in prima “non-persona” (visto che è una “istituzione”, per quanto divina, e non una “persona”) assistenza ai poveri, ma deve insegnare ai cristiani la Fede e spingerli ad evitare i peccati e compiere le “buone opere” necessarie alla salvezza, fra le quali senz’altro c’è anche l’assistenza ai bisognosi che ciascuno di noi deve compiere.

 
Pierfrancesco Palmisano

[1] un esempio fra i tanti possibili, ad attestare tale considerazione:
«Un tale disse al padre Giovanni il Persiano: “Abbiamo tanto penato per il regno dei cieli; lo erediteremo infine?”. E l’anziano disse: “Confido di ereditare la Gerusalemme dell’alto iscritta nei cieli: Colui che ha promesso è fedele, perché dovrei dubitare? Sono stato ospitale come Abramo, mite come Mosè, santo come Aronne, paziente come Giobbe, UMILE COME DAVIDE, eremita come Giovanni, contrito come Geremia, dottore come Paolo, fedele come Pietro, saggio come Salomone. E credo come il ladrone che colui che per la sua bontà mi ha donato tutto ciò, mi darà anche il regno dei cieli”». (Apoftegmata Patrum: 237d-240a).
[2] Gv. 12:3-8
[3] Mc 14:10


Fonte:

http://radiospada.org/