di
Mariolina Spadaro
BORBONICO = aggettivo
qualificativo dispregiativo. Sinonimi: retrogrado,
farraginoso, paternalistico, corrotto, inefficiente; reazionario.
È la sintesi
delle definizioni del termine “borbonico” riportate dalla totalità dei dizionari
della lingua italiana. Si tratta della ricaduta linguistica di un processo
culturale avviato qualche tempo prima dell’unificazione d’Italia, quando la leggenda nera sul Regno delle Due
Sicilie e sulla dinastia borbonica fu creata ad arte, per aprire la strada agli
eventi militari e politici che avrebbero cambiato al faccia della Penisola. Era
necessario costruire un’immagine negativa del Regno per tacitare la reazione
internazionale che sarebbe stata suscitata dall’invasione armata.
Il Regno delle
Due Sicilie, quindi, fu associato alla campagna denigratoria, tanto violenta
quanto menzognera, già scatenata in tutta Europa contro lo Stato Pontificio, orchestrata
dalla massoneria internazionale e condotta con particolare zelo
dall’Inghilterra protestante e dal Piemonte.
Fu così che il
governo di Ferdinando II divenne “la negazione di Dio” attraverso le lettere di
Gladstone, e l’opinione pubblica fu informata sulle “torture” nelle carceri
napoletane dai pamphlet di d’Azeglio.
La campagna
diffamatoria, funzionale all’imminente offensiva risorgimentale, continuò anche
dopo l’unificazione allo scopo di cancellare la memoria storica dei Meridionali
e convincere le nuove generazioni che prima dell’Italia tutto fosse “pianto e
stridor di denti”, nonché per giustificare la ferocia della lotta contro i
cosiddetti briganti, ovvero i
renitenti al nuovo ordine.
Ahinoi, a lungo
andare le menzogne tante volte ripetute divennero luoghi comuni e si radicarono
nell’immaginario collettivo, fino a far parte della nuova cultura italiana. Ciò
che prima era “borbonico” divenne “meridionale” e la leggenda nera non riguardò
più una dinastia ma un intero popolo, retrogrado,
corrotto, inefficiente.
Quello del
significato del termine “borbonico”, dunque, è un elemento non marginale ma
sostanziale della battaglia culturale per il recupero dell’identità meridionale
e va affrontato, come sempre, ripulendolo dalle incrostazioni ideologiche e
riportandolo alla verità documentale.
In questa
direzione va il testo che mettiamo a disposizione dei nostri lettori,
esaminando gli aspetti peculiari dell’amministrazione pubblica borbonica. Ne è
autrice la prof. Mariolina Spadaro, ricercatrice presso dell’Università Federico
II di Napoli, che ha pubblicato numerosi saggi sulla storia del Regno
delle Due Sicilie, a partire dall’epoca spagnola.
Editoriale Il Giglio
Il modello amministrativo borbonico
Dopo
l'esperienza del decennio francese, lo Stato napoletano tornato alla dinastia
legittima dei re Borbone riorganizza il
proprio assetto istituzionale, nella consapevolezza che l'esperienza
napoleonica ha comunque lasciato tracce difficilmente cancellabili, che è
possibile reinterpretare .
Lo
Stato autoritario instaurato dai napoleonidi
non era riuscito ad annullare, come sperava, ogni residua traccia dell' Ancien Régime e la legge 8.8.1806, che trapiantava nel
Regno di Napoli la costituzione dell'anno VIII (vero e proprio manifesto della
Francia rivoluzionaria), senza tenere conto delle oggettive differenze tra i
due Paesi, aveva soltanto centralizzato e burocratizzato l'azione statale,
subordinandone i vari aspetti al controllo del Ministero dell'Interno.
Si era,
perciò creato uno Stato di polizia,
con la conseguenza che solo su un piano formale e di mera apparenza si prevedeva la massima libertà per tutti i
cittadini; nella realtà dei fatti, la repubblica lasciava il posto all'impero,
che era esattamente la negazione di quella.
Lo
Stato napoleonico ritiene che non sia
necessario stabilire o confermare i principi di libertà ed eguaglianza, perchè
essi esistono di per sé e non hanno bisogno di essere affermati da alcuno: ciò
consente, però, di disattenderne il significato in qualunque momento e per
qualsiasi motivo. La stessa distinzione
tra libertà civili e libertà politiche consente di affermare che un cittadino,
sottoposto ad uno Stato autoritario, è tuttavia libero: la libertà che gli si
lascia è infatti quella di pensare ciò che vuole e, soprattutto, di credere ciò
che vuole, nell'intimo della propria coscienza. La religione diventa così un
fatto di opinione personale, non rilevante sul piano politico e praticata “in
conformità dei regolamenti di polizia”.
Si usa,
in definitiva, l'arma politica dell' apparenza,
ma la sostanza delle cose è molto diversa. Da Napoleone in avanti l'ambiguità
regnerà in maniera pressoché incessante nelle istituzioni degli Stati moderni
ed il divario tra diritto e realtà di fatto diventerà la regola.
Nettamente
contrapposte rispetto a questo modello le regole dello Stato assoluto, nelle quali assume una posizione
preminente il re, qualificandosi come
tutor nei confronti dei sudditi, di modo che questi conservano intatta la
loro capacità giuridica, mentre la
capacità di agire è dello stato, impersonato dal re.
Nello
stato assoluto il re ha potere di agire pressoché illimitato: garantisce la
difesa del regno, dirige la politica estera, dispone di tutte le forze armate,
assume la completa amministrazione del regno; ma tutti questi mezzi vengono da
lui usati non per dispotismo o a suo piacimento, bensì perchè il re obbedisce a
regole e tradizioni ad imperativi che gli impongono un determinato
comportamento (p.es. non ha il diritto di annullare le posizioni giuridiche
acquisite, poggianti sulla prescrizione, cd. possesso ab immemorabile).
Certamente
più incline verso questo modello che verso il primo è il Regno delle Due
Sicilie, costituito con legge 8.12.1816 in stato unitario ed in forma di
monarchia assoluta.
Nel re
per grazia di Dio si accentrano tutti i poteri dello stato: legislativo,
esecutivo, giudiziario (anche se quest'ultimo è esercitato nella forma cd.
della giustizia delegata, ossia
attraverso i giudici nominati dal sovrano). Inoltre il re è comandante in capo
dell'esercito e dell'armata di mare; è il vertice dell'amministrazione civile.
La “costituzione”
delle Due Sicilie (ossia le norme fondamentali che caratterizzano l'ordinamento
giuridico dello Stato) presenta caratteri di apertura verso le istanze più
nuove presenti nella società, pur caratterizzandosi come un ordinamento che è e
rimane, in primo luogo, quello di una monarchia assoluta.
Occorre
intendersi sul concetto di “monarchia
assoluta” perchè, contrariamente a quanto si pensa, il sovrano è condizionato
dal rispetto di una serie di regole e da una rete di privilegi, civili ed
ecclesiastici, di ceti, corporazioni, istituzioni, che ridimensionano la sua azione: in effetti
il re non è mai solo: accanto a lui vi sono i rappresentanti di tutti gli
interessi del regno (città, corporazioni, banche, grandi imprese, compagnie di
commercio hanno i loro rappresentanti a corte).
A
partire dal secolo XVII, poi, lo stato si pone come realtà indipendente dalla
persona fisica del re, tant'è vero che l'autorità passa dal re al suo
successore senza intervallo (“è morto il
Re, viva il Re”): lo Stato diventa una realtà in se ed il Re è il primo
servitore dello Stato (gli atti politici del sovrano non muoiono con lui, ma
impegnano il successore).
La celebre frase di Luigi XIV “l'Etat c'est moi”, non rende affatto
illimitato il potere regio, ma lo grava di una serie di obbligazioni che il
sovrano contrae con i sudditi e che ridimensionano notevolmente l'azione del
Re.
Ciò è
storicamente provato per tutte le monarchie assolute europee, dal medioevo ad
oggi. Certamente non fa eccezione il Regno delle Due Sicilie, il cui
ordinamento si presenta addirittura più “moderno”
rispetto a quello delle altre monarchie europee, ossia più pronto a recepire le
istanze presenti nella società, che vengono attuate senza che per questo siano
traditi i principi della Tradizione.
Sicuramente
le norme dell'ordinamento del Regno non realizzano uno Stato fondato sulla
sovranità popolare e sulle garanzie di libertà, ma non configurano una forma di
dispotismo illuminato: recepiscono il principio dell'eguaglianza dei cittadini
davanti alla legge, tutelano la proprietà ed alcuni diritti individuali,
esprimono uno degli indirizzi politici emersi nell'Europa del congresso di
Vienna; non prevedono organi politici o amministrativi elettivi, ma non
oppongono privilegi di nascita alla partecipazione all'esercizio dei pubblici
poteri.
Ed il
Re si pone come il garante e, dunque, il
tutor di questo ordinamento e della
sua attuazione per il bene del popolo.
Le
norme racchiuse nel cd. Codice per lo Regno del 1819 (codice civile, penale, di
procedura civile, di procedura penale, di commercio) configurano sicuramente
l'ordinamento di uno Stato al passo con i tempi e rispecchiano in modo
assolutamente fedele la società meridionale, di cui riproducono i valori
fondamentali (le critiche, del resto, furono scarse e scarne, per lo più
provenienti dai circoli illuministici
che giudicarono una vera e propria “involuzione” rispetto alla normativa
precedente napoleonica, per esempio, la reintroduzione del concetto di
indissolubilità del matrimonio: agli
illuministi questa norma diede fastidio, ma l'istituto del divorzio introdotto dal codice napoleonico
non rispecchiò mai il sentimento prevalente del popolo delle Due Sicilie).
Questa
codificazione, completa e moderna, di cui il regno delle Due Sicilie si dotò,
primo fra tutti gli altri stati italiani, nel 1819, rimase in vigore fino al
1865, senza sostanziali variazioni, se non quelle dettate dalle esigenze di
adattamento ai tempi nuovi (p. es. l'abolizione della tratta dei negri, la sanzionabilità del duello).
Questo
codice, che rappresenta il più insigne monumento della legislazione borbonica e
del pensiero giuridico meridionale, fu, per molti aspetti, precursore di quelli
attuali, anche per quanto riguarda la gerarchia delle fonti o la formulazione
degli articoli di legge o, ancora, il principio, importantissimo, della
irretroattività della legge, sia civile che penale: l'art. 60 LL.PP. sanciva
espressamente che “niun reato può essere
punito con pene che non erano pronunciate dalla legge prima che fosse commesso”
(ed è lo stesso principio posto a base dell'art. 25 della Costituzione italiana
(“ nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata
in vigore prima del fatto commesso”).
Dunque il cd. principio di legalità della pena, che è fondamentale per gli
ordinamenti giuridici degli Stati moderni, era attuato e ben presente nel Regno
delle Due Sicilie.
Questa “modernità”
tuttavia non aveva affatto tradito i principi tradizionali degli stati
assoluti, anzi aveva saputo coniugare
quei valori che più risultavano radicati presso le popolazioni
meridionali con le esigenze di una società
obbligata a confrontarsi con le altre nazioni europee, considerate più
avanzate.
E'
vero, infatti, che i poteri tradizionali dello stato rimanevano nelle mani del
re, che esercitava personalmente tutte le funzioni più rilevanti racchiuse
nell'esecutivo, ossia attribuzioni di governo ed attribuzioni amministrative e,
benchè nessuna norma lo prevedesse espressamente, definiva l'indirizzo generale,
politico ed amministrativo del Governo.
L'organizzazione
amministrativa dello Stato era affidata, principalmente ai Ministri, che
agivano quali coadiutori del sovrano, ponendosi a capo delle varie
amministrazioni o Ministeri. Era stato Carlo di Borbone a dettare le norme organizzative dei ministeri
o reali segreterie di stato, che erano quattro e stabilendo il carattere eminentemente
fiduciario del sistema.
Con
l'avvento dei Francesi, il numero delle segreterie fu portato a sette e perse
questo carattere a favore di una burocratizzazione, che andò sempre più spersonalizzando l'ufficio (in
Sicilia, però, dove regnava Ferdinando IV, il sistema continuava ad essere
quello carolino).
Tornato
a Napoli Ferdinando, dopo un periodo transitorio teso a favorire la
riorganizzazione degli affari di stato, nel 1817 si attuò la riforma
dell'amministrazione.
L'analisi
delle norme dettate da Ferdinando IV (ora divenuto I), testimonia la volontà di
dotare il Regno di una moderna amministrazione, affidata a personale competente
e, al tempo stesso, fedele alla dinastia. Ritorna, quindi, il carattere
fiduciario nel sistema di reclutamento dei funzionari statali, ma si esigono al
tempo stesso doti di abilità tecnica e professionale, propri di uno stato
moderno.
Comincia
anche in questo periodo e continuerà soprattutto con Ferdinando II la riduzione
di tutte le spese superflue ed un progressivo snellimento dell'apparato statale
e della macchina amministrativa.
Ferdinando
II, che salì sul trono delle Due Sicile dal 1830 ma cominciò a regnare anche
prima, come Principe ereditario, in occasione delle numerose assenze del
padre), confermò quasi tutte le leggi emanate tra il 1816 ed il 1817, che
costituirono l'ossatura dello stato fino alla fine del regno, premurandosi di
emendarle o rafforzarle al fine di dare pratica attuazione ai principi
fondamentali dell'ordinamento statale.
L'unificazione
dei due Regni (di Napoli e di Sicilia) costituiva l'obiettivo che più di ogni
altro fu perseguito con ferma determinazione da Ferdinando II. Non era stato
sufficiente proclamarne la riunione sotto la stessa corona; occorreva annullarne
le differenze profonde , che tuttora sussistevano, senza pregiudizio per alcuno.
La
legge 11.12.1816 sanciva la “separazione
degli impieghi” prevedendo l'attribuzione ai siciliani delle cariche e degli
uffici al di là del Faro e dei
napoletani nei domini citra Farum.
Nel
1837 Ferdinando II abrogò questa legge,
stabilendo la “promiscuità degli impieghi nelle due parti del Regno”: ciò non
solo per “eguagliare” i sudditi dei due Regni, ma soprattutto nell'intento di
sradicare dalla Sicilia la soggezione al baronaggio ed abbassare le prepotenze
degli uomini più influenti. Tuttavia, per non
creare situazioni pregiudizievoli , stabilì che i siciliani avrebbero occupato a Napoli lo
stesso numero di posti che i napoletani avrebbero occupato in Sicilia (la
legge, però, non piacque ai siciliani ed il Re la ritirò nel 1848, richiamando
la normativa del 1816).
L'amministrazione
dello stato fu sempre oggetto della massima cura di questo sovrano, che la
considerava “fondamentale cura del governo”, in quanto da essa derivava
immediatamente la felicità dei popoli.
Non
pochi furono del resto i suoi interventi in questo settore, ora per affermarne
i principi fondamentali e dettarne le regole, ora per sottolineare la
responsabilità dei funzionari (“i
funzionari pubblici siano convinti che i
soldi, le onorificienze, le distinzioni, non sono per essi un beneficio
gratuito e molto meno un sine cura. Servitori del Re e dello Stato, a questo
solo titolo sono stipendiati ed
onorati”), ora per ammonirli circa l'osservanza dei propri doveri, ora
per indirizzare loro un forte richiamo
alla personale ed individuale responsabilità, manifestando ogni riluttanza
verso forme sanzionatorie di intervento
(“Ha dichiarato il Re che prenderà
stretto e periodico conto del contegno di tutti i funzionari pubblici
nell'indicata gelosa linea di loro
adempimento, in ispecie per attaccamento al Re ed alla pubblica tranquillità,
onde dispensare la sovrana maestà dall'obbligo di adottare penose ed esemplari misure”). Né mancò mai di
rimproverare i funzionari meno diligenti, quando se ne presentò l'occasione: “il ricordare agli intendenti, ai
sottintendenti, ai sindaci i loro doveri sarebbe lo stesso che di scrivere la
legge ed i regolamenti. ma il Re non può ad alcuno di essi esternare la sua
sovrana soddisfazione, particolarmente nelle circostanze nelle quali ...(si) esigeva sopraffina diligenza ed
attività somma. Il Re è malcontento in generale
della poca e negligente cura che gli intendenti pongono nella scelta di
sindaci, eletti, decurioni”.
Sarebbe
stato sufficiente, sembrava dire il Re, che tutti facessero il proprio dovere,
senza costringere il sovrano ad adottare misure drastiche, poco conformi al suo
stesso carattere.
Pochi
essenziali principi regolavano, d'altra parte il buon andamento della Pubblica
Amministrazione (o “buon governo”): probità, moralità, attaccamento al Re,
abilità tecnica e professionale erano i requisiti richiesti per l'esatto e
decoroso adempimento delle funzioni.
La
legge 21 marzo 1825 stabiliva le norme per essere ammessi alla carriera
impiegatizia. Gli aspiranti presentavano la domanda al Ministro per essere
ammessi come “alunni” in un Ministero ove vi fossero posti vacanti; il ministro
prendeva informazioni sulla moralità degli aspiranti e li sottoponeva ad un
esame per valutare l'abilità corrispondente al servizio, quindi destinava
coloro che avessero superato l'esame al lavoro più opportuno in relazione alle
capacità manifestate.
Tutti
dovevano saper leggere e scrivere “con
abilità, sì per la calligrafia che per
l'ortografia”; per alcuni impiegati
era richiesta, in relazione alla carica, una particolare abilità tecnica.
Gli
avanzamenti nella carriera venivano conferiti “per antichità ed assiduità nel
servizio”: vi era quindi, una sorta di garanzia di stabilità nell'impiego,
una volta assunti; a meno che non si commettessero fatti che potevano dare
luogo a sanzioni disciplinari. Le più comuni erano la sospensione (cautelare o
punitiva) e la destituzione.
La
legge disciplinava i casi nei quali si applicavano tali misure e la relativa
procedura, piuttosto complessa ma abbastanza “garantista”, sottolineando
comunque che gli impiegati potevano essere destituiti “sempre che dieno giusto
motivo a questa misura”. Il sovrano,
però, preferiva generalmente appellarsi al senso del dovere e di responsabilità
dei funzionari ed impiegati, anziché ricorrere a misure sanzionatorie.
E'
sempre il Re che accorda i permessi (congedi e licenze) ai funzionari di grado
più elevato ( intendenti, sottindendenti, segretari generali), mentre sono
i superiori gerarchici che li accordano ai funzionari ed impiegati
di grado subalterno.
Nel
tentativo di scoraggiare favoritismi e clientelismi, Ferdinando II stabilì che
i congedi straordinari (oltre i due mesi) non potevano mai essere accordati dai
funzionari di grado più elevato ai dipendenti immediatamente subalterni, ma
potessero essere disposti solo dai funzionari gerarchicamente superiori ai primi.
L'
Amministrazione centrale dello stato faceva leva sui Ministeri, organi
complessi a struttura piramidale, articolati in più “ripartimenti” e “carichi”
(la distinzione aveva però rilevanza
puramente interna, mentre le strutture
si presentavano all'esterno
piuttosto snelle).
Il
personale impiegatizio era ordinato gerarchicamente in gradi o classi e
distinto in varie carriere. Non esisteva una legge generale sul pubblico
impiego (adottata in Italia nel 1908), ma non poche erano le norme che
regolavano aspetti importanti del rapporto d'impiego (orario di lavoro,
stipendi, pensioni).
La
regola per accedere agli impieghi era quella del concorso per esami, senza
tuttavia escludere completamente la discrezionalità regia.
Gli
impiegati erano, contrariamente a quanto si ritiene, ampiamente garantiti: la
legge 19 ottobre 1818 prevedeva una sorta di “autorizzazione a procedere” per i
reati commessi dai funzionari nell'esercizio delle loro funzioni e questa “garanzia”
era piuttosto estesa. Le ragioni riposavano sull'esigenza di sottrarre i
funzionari ed impiegati alla “ignominia” che poteva ingenerarsi nell'opinione
pubblica dal fatto che essi fossero sottoposti
a giudizio penale (si riconosceva, evidentemente, che la sottoposizione
a giudizio penale, anche in caso di successiva assoluzione dell'imputato, non
poteva non produrre effetti
nell'opinione pubblica. Non solo: il ministro Donato Tommasi riteneva
che se si fossero lasciati i funzionari senza questa sorta di “protezione” essi, “fluttuanti e malsicuri si asterrebbero da
ogni misura energica” nel timore di essere denunciati da
chicchessia e ciò avrebbe fatto sì che “le loro disposizioni segnate sempre con
mano tremante, ed eseguite con egual
trepidazione, mal corrisponderebbero al loro oggetto, cioè alla buona
amministrazione dello Stato”).
Era
insomma sempre quest'ultima l'obiettivo principale da conseguire.
Tuttavia
non mancavano norme a tutela di quelli che oggi si direbbero i “diritti degli
impiegati” (p. es. il diritto alla pensione).
Nel
Regno delle Due Sicilie il trattamento di quiescenza era non solo garantito, ma
addirittura più favorevole di quello attuale (l'impiegato che avesse maturato
40 anni ed 1 giorno di servizio aveva diritto all'intero ammontare dello
stipendio. Poiché si cominciava a lavorare in giovane età, evidentemente i 40
anni di servizio erano facilmente raggiungibili).
I
Ministeri, in epoca ferdinandea erano: Affari esteri, Grazia e Giustizia,
Pubblica Istruzione, Finanze, Affari Interni, ognuno dei quali raggruppava
più competenze.
Solitamente
le competenze facenti capo ai vari Ministeri erano affidate, nelle provincie,
ad uffici periferici (intendenze, sottindendenze), in mancanza dei quali le
funzioni venivano svolte dagli organi della Amministrazione locale ( sindaci,
decurioni).
Occorre
precisare che la distinzione tra Amministrazione centrale e Amministrazione
locale non rispecchia i criteri attuali, dal momento che non esisteva una
amministrazione locale autarchica o autonoma (i concetti di autonomia ed
autarchia sono estranei allo stato
borbonico): certo sono diversi gli uffici degli intendenti e sottindendenti, da
un lato, e comuni e provincie
dall'altro.; ma in ogni caso è sempre il Governo il principio di ogni
amministrazione.
L'intendente,
una figura ereditata dallo stato napoleonico e che Ferdinando II non amò mai,
era la prima autorità della provincia,
con poteri simili a quelli degli attuali prefetti.
Le sua
sfera di competenza era molto estesa e ciò lo rendeva un personaggio assai
temuto e rispettato, ma al tempo stesso lo metteva sotto il diretto controllo
del re e dei suoi ministri, da cui dipendeva.
Il
consiglio provinciale era l'organo rappresentativo della provincia ed era
composto dal presidente, nominato ogni anno
direttamente dal re e dai consiglieri, nominati con decreto reale su
proposta dei consigli decurionali. Si riuniva una volta all'anno per non più di
venti giorni, durante i quali doveva formare lo stato discusso, cioè il
bilancio di previsione delle spese della provincia.
Il
comune era la base dell'amministrazione pubblica.
Il
godimento dei diritti politici era subordinato ad alcuni requisiti: età, sesso, cittadinanza, domicilio nel Comune da
almeno 5 anni, censo (12 ducati annui per i comuni con popolazione inferiore a
3.000 abitanti e 24 ducati annui per i comuni maggiori) o, in alternativa,
esercizio di una libera professione o
l'essere agricoltori per conto proprio benchè su terreno altrui).
Erano
ineleggibili gli ecclesiastici, i domestici ed operai, gli interdetti dai
pubblici uffici, mentre potevano essere eletti anche gli analfabeti.
Le
liste degli eleggibili si formavano ogni quattro anni; in realtà la prassi che
si consolidò fu quella di aggiornare le liste ogni anno nel mese di maggio,
pubblicando anche un elenco di coloro che avessero compiuto il 21° anno di
età e depennandovi i defunti e gli
assenti.
Organi
dell'amministrazione comunale erano il sindaco (nella duplice veste di capo
dell'amministrazione comunale ed ufficiale di governo), due eletti (Napoli,
però ne aveva 12), il decurionato (tre decurioni ogni mille abitanti, fino ad
un massimo di trenta).
Gli
uffici erano gratuiti e tutti gli amministratori avevano l'obbligo di residenza
nel comune, né se ne potevano allontanare senza autorizzazione del
sottintendente; erano inoltre responsabili di qualunque danno che il comune
potesse subire per colpa loro e potevano anche essere multati o ammoniti.
Sicuramente le cariche ricoperte costituivano veri e
propri doveri civici più che diritti e
chi se ne sottraeva senza valido motivo poteva essere multato anche in maniera
pesante.
Nel
complesso, l'amministrazione del Regno
si fonda su un “modello” che non appare né arretrato né rozzo; anzi
perfettamente adeguato ai tempi, in molti casi addirittura in anticipo.
Tale “modernità”,
peraltro, si caratterizza in maniera del tutto peculiare, perchè riesce a
coniugare le istanze più recenti della
società con i valori della Tradizione e mostra quindi, tra il modello
rivoluzionario francese e quello
riformista austriaco un modello amministrativo che non è né filo-francese, né filo-austriaco,
ma solo ed esclusivamente napoletano.
Esso
faceva leva sui valori più genuini espressi dalle popolazioni meridionali,
mantenuti integri a dispetto delle diverse dominazioni che si succedettero nel
territorio del Regno nel corso dei secoli.
Se il
passato serve a comprendere il presente,
la “diversità” che ancora oggi caratterizza le genti del Sud assume il
significato di peculiarità storica di un popolo che ha radici antichissime e
tradizioni degne del rispetto di
tutti.