S. Leonardo da Porto Maurizio
Da: Opere complete di S. Leonardo da Porto Maurizio Missionario apostolico, Minore riformato del Ritiro di San Bonaventura in Roma riprodotte con alcuni scritti inediti in occasione della sua canonizzazione, vol. III (Prediche quaresimali), Venezia 1868, pag. 43-56.
PREDICA QUARTA
PRIMA DOMENICA DI QUARESIMA.
FUGA DELLE OCCASIONI.
Ductus est Jesus in desertum a Spiritu, ut tentaretur a diabolo.
Matth. 4.
I. Strana foggia di guerreggiare! Vincere colla fuga, e perdere col cimentarsi. Certo è che la nostra vita è una continua guerra: Militia est vita hominis super terram. E l’arruolarsi sotto le bandiere del Crocifisso è lo stesso che esporsi al cimento con più nemici; ma oh quanto diversa è l’arte militare di Cristo dall’arte militare del secolo! Questa non ha azione più indegna che la fuga. Per essa tolgonsi i cingoli militari ai soldati, marcansi i fuggitivi con isfregi di eterna ignominia; all’opposto l’azione più gloriosa della milizia di Cristo è la fuga; per essa si cantano a’ campioni della Chiesa i trionfi, si onorano di palme le loro destre. Affinchè niuno si rechi a vergogna il fuggire, ce ne dà sta mane il nostro capitano un mistico esempio in sè stesso; dovendo battersi col suo avversario, cerca un luogo disabitato, e se ne fugge nel deserto: Ductus est in desertum a spiritu; nè vuole azzuffarsi con più d’uno, ma la vuole a solo col demonio: ut tentaretur a diabolo. Oh gran mistero! Il Figlio di Dio sì bene armato si fortifica col deserto, e vuol cimentarsi con un solo e non più; e l’uomo che è sì debole, cerca il nemico in casa, nelle veglie, ne’ balli, nelle conversazioni, e ardisce di cimentarsi con molti, sfidando oltre il demonio anche le occasioni. Che temerità è mai questa? Deh aprite gli occhi, ciechi volontarî di questo mondo; apprendetela dal Salvatore questa massima di salute, che nelle battaglie d’inferno, chi fugge più lontano, più s’avvicina al trionfo, chi è più romito è più difeso, chi è più solo è più santo: In desertum, in desertum. Al deserto, se così è, al deserto. Rintaniamoci pure in qualche spelonca più rimota per fuggire tutte le occasioni di peccare. Non siete voi quelli che tutto giorno vi lamentate di tante tentazioni, che ormai non si può più respirare, non si può più vivere? Oh perchè dunque vi tentate da voi con esporvi ogni giorno a tante occasioni, fomentando pratiche, amicizie, corrispondenze, giuochi, ridotti, trebbî e bagordi? Come mai fra tanti pericoli tanta sicurezza, e fra un cader sì frequente un presumere così grande? Attendetemi questa mane, che per metter freno alla vostra libertà e illuminare insieme la vostra cecità, vi dimostrerò che il maggior pericolo delle tentazioni è l’esporsi alla occasione, e sarà il primo punto; il maggior rimedio delle tentazioni è fuggire le occasioni, e sarà il secondo. Così è, così va; chi non fugge perde, chi fugge vince. Incominciamo.II. È assioma de’ più versati teologi che nelle tentazioni più veementi e più gravi è necessario per vincerle un aiuto speciale della grazia di Dio; così protesta il Suarez dopo aver consultati quasi tutti sì i moderni, come gli antichi dottori, cioè in circostanza di grave tentazione senza un’assistenza speciale della grazia si cade: Liberum arbitrium speciali auxilio gratiae destitutum sine dubio succumbet. E dice che questa sentenza è comunissima tra’ teologi: Jam est inter theologos communiter recepta. Di più abbiamo dai filosofi morali, che ogni oggetto quando è presente, è di gran lunga più efficace a muovere la volontà, che quando è assente; più muove colle sue vive fattezze, che chiamano specie proprie, che non muova con colori imprestati, che chiamano specie astratte. E infatti il demonio per muover Cristo Signor nostro non gli mostrò il mondo descritto in una carta geografica, ma dalla cima di un monte glielo mise sotto gli occhi: ostendens illi omnia regna mundi. E senza tante ragioni questa cosa ognuno la prova da sè, che quando è assetato o famelico, più l’accende la sete e gli desta l’appetito il vedere una sorgente d’acqua viva, o una mensa imbandita di fumanti e delicate vivande, che il rimirarle solamente dipinte in qualche tela; perchè l’oggetto presente ha questo di proprio, che colla sua vivacità affattura i sensi, affascina l’intelletto, e si strascina dietro la volontà. Posti questi due fondamenti di teologia e filosofia insieme, lavoriamoci sopra col discorso. Se l’anima nostra è sì debole, che in circostanza di grave tentazione senza uno speciale aiuto di Dio cade, non resiste, perchè è languida, inferma, e, bisogna capirla, è inferma ferita dalla colpa originale, che le ha lasciata offuscata la ragione, male inclinata la volontà, e le passioni tutte in rivolta, in maniera che all’affacciarsi di qualche tentazione gagliarda, anche senza oggetto presente, anche senza occasione sta in pericolo: Vides, dice s. Agostino, vides quid intus confligat in te, de te, adversum te. Se dentro di noi abbiamo chi ci fa guerra: In te, de te; e benchè uno se ne stia ritirato e solitario, non istà senza pericolo nelle tentazioni; che si avrà a dire di chi debole, infermo, col peso di tanti peccati vecchi addosso, in tanto svantaggio di posto, sfinimento di forze, violenza di passioni, va a cimentarsi di più colle occasioni? Non è chiaro il precipizio? Or vedete se è vero ciò che sono per mostrarvi, che il maggior pericolo delle tentazioni è l’esporsi alla occasione, e chi non fugge, perde.
III. In primo luogo vorrei sapere dove fondano questa loro matta fidanza coloro che vanno incontro alle occasioni di peccare con animo di non peccare, per vedere se questa sia una speranza giusta, o una pretensione temeraria. Pare a me che a tre supposti, tutti tre falsissimi, appoggino la loro sciocca credenza. Suppongono che la occasione non abbia tanto vigore per farli precipitare; suppongono di aver forze sufficienti per resistere, e suppongono che Dio li assisterà colla sua grazia; si fidano troppo della occasione, si fidano troppo di sè stessi, si fidano troppo di Dio. Ma quanto s’ingannano! In quanto alla occasione, chi non sa che questo è quello scoglio infame dove hanno fatto naufragio tanti uomini santi, che erano come altrettanti cedri del Libano, avvezzi a lottare coi turbini delle più fiere tentazioni, e posti nelle occasioni precipitarono? Quanti ne ho veduti cogli occhi miei, dice s. Agostino, cader prostrati dalle occasioni, che erano stati pastori dei popoli, maestri del mondo ed esemplari di santità, del cui precipizio nulla più sospettava che d’un Ambrogio, o di un Girolamo? Eppure caddero miseramente: multos corruisse vidi, de quorum casu non magis dubitabam, quam Ambrosii, aut Hieronymi. Dicono che nell’Etiopia v’era una maga sì scaltra è sì avvenente nelle sue azioni, che a chiunque la rimirava in faccia, inevitabilmente rubava il cuore; e io dico che questa è proprietà comune a tutte le occasioni, conforme Dio stesso ne accertò il popolo ebreo, trattando delle donne straniere: certissime avertent corda vestra. Perchè nel dilettevole che rappresentano, lusingano in tal maniera i sensi, che, sedotta la ragione, la volontà si arrende, e precipita in ogni male. Ed ecco l’inganno di coloro che si danno ad intendere di poter cogliere dal dilettevole delle occasioni il solo frutto d’una innocente soddisfazione senza acconsentire a male alcuno. Andrò a quella commedia, dice colui, non per male, ma per apprendere la bizzarria dell’invenzione, la novità dell’intreccio e la dolcezza del canto; leggerò quei romanzi, non per male, ma solo per imbeverne la nobiltà de’ pensieri, l’eleganza del dire e la purità della frase; andrò a quella veglia, a quella conversazione, e tratterò liberamente con questa e con quella, non per male, ma per passar la serata in una civiltà geniale, in trastulli indifferenti ed amori platonici. Tacete, di grazia, tacete, perchè il vostro non è discorrere, è un delirare, non è confidenza la vostra, è temerità, è presunzione; e però dico che precipiterete in ogni male; precipiterete, attesochè è sì difficile quel che da voi si pretende, cioè di separare il peccato dall’occasione di peccare, che nè l’eterno Padre risicò a tal cimento i suoi angeli in cielo, nè il divin Figlio i suoi apostoli in terra. Appena peccano gli angeli in cielo, Iddio subito apre l’inferno sotterra, e ve li piomba giù. Perchè così subito? Perchè non si fidò, dice Ruperto abbate, su quel del Genesi: Divisit lucem a tenebris; non si fidò di tenere neppure un momento di tempo gli angeli cattivi insieme coi buoni, per timore che questi non restassero sovvertiti: Ne pessima perfidorum societas caeteros quoque in perfidiam et rebellionem arriperet. Notate voi che dite: andrò alla veglia, alla conversazione, ma non per male; lo stesso Dio non istima sicuri gli angeli suoi anche in paradiso sotto gli occhi suoi, nemmeno per un momento di tempo, non con altra occasione, che colla vicinanza degli angeli cattivi; e voi volete ruzzare, trescare, trattare con ogni libertà con colui che dal demonio è solo differente in questo, che il demonio è mero spirito, e lui è tutto carne, e poi una tal libertà la battezzate per civiltà geniale, eh? Innanzi. Pecca Giuda e commette quel tradimento sì enorme, e subito Cristo Signor nostro caccia Giuda dal sacro collegio apostolico per timore che col suo esempio non si sovvertissero gli altri apostoli: ne a societate tam pessimi viri, dice l’abbate Isacco, alii aberrarent. Or vedete quanto caso faccia Iddio della forza dell’occasione, mentre non si fida nè dei suoi angeli in cielo, nè de’ suoi apostoli in terra. Oh ... io converso solo per dar pascolo alla vista. Bene: ma voi non prevedete la catena dei precipizi a’ quali vi trasporta la vista di quell’oggetto, perchè alla vista succede per l’ordinario il pensiero, al pensiero il diletto, al diletto il consenso, al consenso l’operazione, all’operazione la pratica, alla pratica la morale necessità, alla necessità la morale impossibilità, alla impossibilità la disperazione, la dannazione. Oh maledette occasioni! Vedete se convien dire che le tentazioni senza occasione sono cannonate senza palla, ma le tentazioni unite alla occasione sono precipizî, precipizî per le povere anime.
IV. Già mi avveggo, ripiglia qui un libertino, questa è una predica che ci vuol riempiere la testa di scrupoli. Che tanti timori, che tanti sgomenti? Sicchè dunque converrà che noi tutti o prendiamo partito in qualche chiostro, e ci facciamo romiti, ovvero rinunziamo per sempre al paradiso; perchè se il mal delle occasioni è sì certo, come si spaccia, e lo stare in mezzo alle occasioni è un mal necessario a chi vive nel mondo, eccoci disperati, sotto titolo di volerci emendati; eh, che son tutti spauracchi puerili; non è vero che nelle occasioni vi sia tanto male, quanto si dice; basta incontrarle con buona intenzione di non aderire a’ loro incentivi, non mancando in noi forze bastevoli per rintuzzarle: e però mal si nomina presunzione ciò che è coraggio d’un animo ben risoluto. Eccoci al secondo supposto niente meno falso e presuntuoso del primo. Non è vero che nelle occasioni si trovi tanto male, quanto si dice? E con qual fondamento proferite voi una proposizione che non ardirebbe proferirla senza titubanza un demonio? Forse perchè vi pare d’aver forze sufficienti a resistere, non è così? Ma, ditemi di grazia, avete voi le passioni sì ben domate come tanti santi e servi di Dio? Eppure questi temerono, eppure questi si andarono a rintanar nei deserti, nelle tombe, e neppur quivi stimandosi sicuri, vivevano sempre mesti, pensierosi, attoniti, sordi, ciechi, mutoli volontarî, mal vestiti, mal pasciuti, in continue vigilie e tormenti. Io resto attonito ogni qual volta rifletto alla risposta che diede s. Girolamo a Vigilanzio, il quale domandava al santo di che temesse, e perchè invece di abitar nella città, fosse andato a rintanarsi in un eremo? Sai di che temo, rispose il santo penitente, temo di tanti pericoli, tra’ quali tu vivi, temo i contrasti iracondi, temo i cicalamenti oziosi, temo le avarizie tenaci, temo gli sguardi lascivi; e quasi che l’aver espresso ciò fosse ancor poco, non vergognossi di soggiungere, sino a dire queste precise parole, che se non fossero di sua bocca, non ardirei di proferirle, temo l’incontro delle donne pubbliche, delle pubbliche meretrici: timeo ne capiat me oculus meretricis. E instando Vigilanzio che ciò era un fuggir da codardo, e non vincere da glorioso; pazienza, soggiungeva Girolamo, pazienza; conviene che io confessi la mia propria fragilità: fateor imbecillitatem meam: non mi dà il cuore di venire a cimento con sì poderosi nemici, non ho forze di resistere a tanto. Che dite adesso, sono scrupoli questi, o verità potentissime? Un Girolamo disfatto dalle penitenze confessa di non aver forza di resistere ad un incontro fortuito e non voluto; e voi con le passioni sì vive, voi coi sensi sì licenziosi, voi col corpo sì morbido e l’animo sì delicato, mi volete dare ad intendere che avete il senso sì soggetto alla ragione, che possiate rimirar con tutta libertà quegli oggetti senza accendervi in desiderî, udir quei discorsi lascivi senza sentirne gli stimoli, trattenervi ad amoreggiare con colei senza dare adito a’ rei pensieri, praticar familiarmente in quella casa senza passare i termini dell’amicizia, tener sempre dinanzi agli occhi di quei quadri lascivi, senza dilettarvene lascivamente? Oh che cieca presunzione è mai questa! O mirabile verbum, et omni stupore dignum! esclama sin da Siena il mio Bernardino; è lo stesso che dire camminerò sulle acque, e non mi affonderò, starò vicino al fuoco, e non mi riscalderò, passeggierò sulle bragie accese, ma non mi scotterò: Ligabit quis ignem in sinu suo, et vestimenta non comburet. Ah ciechi, ciechi! peccherete, meschini, peccherete, anzi precipiterete in ogni sorta d’iniquità, andando sempre congiunto, secondo l’Ecclesiastico, ad una tal presunzione il peccato: Vidi praesumptionem cordis eorum, quoniam mala est, et cognovi subversionem eorum.
V. Eppure, padre mio, la cosa non va così; a voi altri ritirati ne’ chiostri ogni fantasma fa specie, ogni ombra fa corpo, ogni puntura fa piaga; ma noi che vediamo e sentiamo tuttodì, ci abbiamo fatto il callo, nè ci risentiamo per sì poco. Mi rallegro: è sceso forse ancora per voi un angelo dal cielo in terra a munirvi i lombi con una zona lattea impastata d’innocenza, come ad un Tommaso d’Aquino? Oppure avete voi trafitta la concupiscenza con le spine, come un Benedetto, o estinto i suoi ardori tra le nevi come il mio padre s. Francesco? Eppure questi temevano, e voi non temete? Noi non temiamo, perchè andiamo per un’altra via, e non la pigliamo così con le cattive con esso noi. Ah ... adesso intendo, andate con le buone con la carne vostra, cioè a dire mangiar bene, bever meglio, dormire in letti morbidi e spiumacciati, e poi senza tener morso alla lingua, pastoie fra’ piedi e cataratte sugli occhi, parlare, vedere, sentire, trattare con ogni libertà, perchè spesso col troppo apprendere si fa il male, dove non è; non volevate dir questo? Questo appunto. Or datemi licenza che mi affacci alla bocca delle spelonche de’ più famosi anacoreti, e quivi a tutta voce esclami: O Ilarioni, o Pacomî, o Arsenî, che fate voi? Uscite fuora de’ vostri romitorî, gettate via i vostri cilizî, lasciate i vostri deserti, venite al mondo ... Non sarà mai vero ... Sulla parola mia venite, perchè è tornato il secolo della innocenza; nè mi state a dire che le passioni sono vive, le occasioni prossime, e la fragilità è grande; mi maraviglio di voi, che uomini pari vostri temano tanto! Almeno affacciatevi, mirate gioventù fresca, che non si macera con le penitenze come voi, non dorme sul terreno come voi, non mangia erbe selvatiche, nè si abbevera con acqua fredda come voi; ma gioventù fresca, vigorosa, spiritosa, ben pasciuta, ben vestita sta in mezzo alle occasioni, amoreggia, scherza e si trastulla col diavolo in seno, e non ha paura, e voi temete? Sì che temiamo e vogliamo temere sino alla morte; esempî troppo funesti abbiamo sugli occhi. È caduto un Davidde sì santo per una sola occhiata; è caduto un Salomone sì savio per una passione indomita; è caduto un Pietro principe degli apostoli senz’altro inciampo che d’un misero rispetto umano; come non avremo a temer noi sì deboli, sì infermi? Sì, sì, vogliamo temere, vogliamo temere, e vogliamo a tutto costo fuggire le occasioni per assicurar la nostra eterna salute. Così rispondono quei santi anacoreti; e voi che dite? Che delirare da frenetici è mai il vostro? Voi dite che state bene, perchè non conoscete il male, e ardete di febbre maligna e mortale; per altro vi fa intendere san Bernardo che, stante la nostra natura sì inferma e le forze sì deboli, è maggior miracolo star saldo nelle occasioni e non cadere, che risuscitare i morti: Majus miraculum est inter vehementes occasiones non cadere, quam mortuos suscitare. Vi confermerà questa verità un esempio, ahi troppo funesto, descritto da san Gregorio Papa. Un vescovo africano nella persecuzione de’ Vandali contro la fede di Cristo in Africa, si lasciò strappar dalle fauci la lingua, piuttosto che lasciar di predicare l’Evangelio di Cristo. Dio gliene ricompensò la perdita con un prodigio, facendo che parlasse sì speditamente senza lingua, come se l’avesse. Eppure dopo aver riportata una sì bella vittoria dei barbari, dopo sofferto un sì glorioso martirio, dopo aver guadagnate tante anime a Dio con la predicazione, riportando seco in trionfo quell’insigne portento di parlar senza lingua, che recava sommo stupore e divozione insieme a chiunque seco parlava, perchè in ogni fiato articolava un miracolo; pure con quel miracolo continuo in bocca, perchè ammise incautamente nelle sue stanze una giovinetta che andò per aver da lui sacri consigli, perdette per un brutto piacere l’innocenza, perdette il merito, perdette il trionfo, perdette il miracolo: Mox in luxuriam lapsus est privatus dono miraculi. Dio immortale! Un prelato, un martire, un predicator sì zelante, un santo che porta i miracoli in bocca posto nell’occasione cade! Andate adesso voi, andate a dire, io so quanto mi posso compromettere, non mi mancano le forze per resistere. Ecco come castiga Dio la presunzione; lascia precipitare in peccati enormissimi. Nè vi è scusa che possa coonestare il vostro mal procedere, perchè, o voi, quando vi esponete a quella occasione, prevedete il pericolo di peccare, o no; se no, la vostra è imprudenza, e cadete per mala condotta; se lo prevedete, la vostra è presunzione, e cadete per temerità; che però o in un modo, o in un altro siete degni di castigo, nè Iddio vi assisterà con la sua grazia, che è l’ultimo vostro supposto, e l’ultima ritirata.
VI. Per appunto siamo arrivati alle strette. O ci sono gli aiuti della grazia, o non ci sono. Se ci sono, a che tanto temere e a che tanto sofisticare? Dove mancano le forze nostre, supplirà la grazia di Dio. Supplirà la grazia di Dio, eh? Via su, concedo che vi siano gli aiuti di Dio; ma pare a voi ragionevole che uno si prometta di aver da Dio aiuti di maggior polso e in maggior abbondanza, allorchè contro il volere di Dio si espone più alla occasione di offenderlo? che Iddio abbia ad aver maggior cura di chi più si allontana dalla sua cura? che Iddio debba assistere con maggior grazia a chi col mettersi tuttodì a rischio di perderla, mostra di non apprezzar la sua grazia? Pretendete dunque che Dio faccia un miracolo con mantenervi illibati in mezzo a quelle occasioni, nelle quali tanti e tanti sono precipitati? Questa è un’arroganza troppo sfacciata: nimium praeceps est qui transire contendit, ubi comperit alios cecidisse, dice s. Cipriano. E poi dove la fondate voi questa sicurezza, che Iddio vi abbia da assistere con la sua grazia? Nella Scrittura? No certamente; anzi troverete nella sacra Scrittura cento esempi, che quando un fine si può avere per un mezzo più comune non è stile di Dio adoperare miracoli. Risuscitò Lazzaro già fetente, e nello stesso tempo poteva far volare all’aria la lapide sepolcrale; ma no, volle che la levassero gli astanti: tollite lapidem, perchè questo si poteva fare senza miracoli. Così parimente spezzò l’angelo a Pietro le sue catene, spezzò i suoi ceppi, ma non già aiutollo a vestire, perchè a porsi i panni poteva Pietro arrivare con le sue forze senza miracoli. Allo stesso modo salvò l’angelo a Paolo la sua nave tra le procelle, salvò i naviganti, ma non già aiutollo a sbarcare, perchè a prender terra potea Paolo arrivare con le sue industrie senza miracoli. Discorrete allo stesso modo d’altri successi, che troverete sparsi per il Vangelo, e poi ditemi: se voi potete da voi stessi ritirarvi da quella casa, lasciar quel compagno, non comparir più in quella conversazione, perchè pretendete che Iddio faccia un miracolo, e vi mantenga illibati in mezzo a quegli incentivi, ne’ quali volontariamente v’introducete? Non conoscete l’inganno? Dove dunque la fondate questa baldanza, questa maledetta sicurezza? Forse negli esempî occorsi in altri? Nemmeno; troverete nelle Scritture che Iddio preservò Giuditta dal furore di Oloferne, preservò una Susanna dalle impure brame dei vecchioni, preservò un gran numero di tenere verginelle esposte dalla violenza de’ tiranni ne’ luoghi infami, ma non troverete che nessuna delle suddette eroine s’inoltrasse di suo capriccio in simili pericoli; e però imprimetevi nel cuore questo notabilissimo documento: mai non ha da pretendere special patrocinio da Dio chi di propria elezione si espone alla occasione di peccare e di offendere Iddio. Chi dunque potrà sperarlo? Chi vi si pone per obbligo dell’ufficio, chi vi si pone per ordine della ubbidienza, chi vi si pone per legge di carità: Angelis suis Deus mandavit de te, ut custodiant te in omnibus viis tuis. Avete sentito? Dove sarete sostenuti, dove sarete soccorsi? Ne’ precipizi non già; nelle vie, in viis, e nelle vie solamente che a voi spettano: in viis tuis. Ma se vi metterete tra dirupi, tra balze, tra precipizi, precipiterete: Ecce spes ejus frustrabitur, dice Iddio per bocca di Giobbe: et videntibus cunctis praecipitabitur.
VII. Ed acciocchè vediate a prova che chi si espone volontariamente al pericolo cade, anzi precipita, nè Dio gli porge la mano per assisterlo con la sua grazia, venite meco nella solitudine di Palestina. Ecco là rintanato dentro d’una caverna un anacoreta scalzo de’ piedi, squallido in volto, e ravvolto quasi vivo cadavere in ispido sacco; egli è Giacomo sì rinomato nelle istorie. La lunga ed incanutita sua barba, e il volto arrugato lo mostrano già veterano nella milizia di Cristo; egli è arrivato a tal grado di santità, che opera prodigî, e con l’impero della sua voce caccia dai corpi ossessi i demoni, e già da per tutto ne vola la fama, e da tutti è canonizzato qual santo. Or ecco per appunto siamo nel caso. Ha cacciato da un’invasata donzella lo spirito maligno che l’affliggeva, ed è supplicato dal padre della medesima a trattenerla per alcuni giorni nel suo tugurio per assicurarla maggiormente dalle insidie del demonio. Ammette l’incauto quell’animato pericolo, e si fida e delle sue forze e dell’assistenza della grazia, che sebbene sederà vicino al fuoco non si riscalderà; ma oh quanto s’ingannò! Satanasso che il vede nella occasione con quella donna dentro il romitorio, comincia a batter Giacomo con impure suggestioni; volete altro? lo espugna; il vecchio, il romito, il santo, l’operator de’ miracoli, il trionfator dei demoni è da loro sì dominato, che toglie alla donzella prima l’onore e poi la vita. Oh grande Iddio, che strano avvenimento è mai questo! Non si vuol credere, non si vuol credere, se non si prova. Andate adesso a dire che Dio supplirà con la sua grazia; date pure la spinta alla vostra audacia con replicare: che tanti sgomenti! che tanti timori! Se cadono uomini sì robusti nello spirito, di voi che sarà? Tutto all’opposto; per questo appunto cadono questi uomini perchè hanno troppo timore e poca esperienza; avviene loro come succede a chi passa sopra d’una tavola alquanto stretta nel guado di furioso torrente; chi è avvezzo, e corre con franchezza, passa sicuro; chi non è avvezzo, e va con timore, l’assale una vertigine, e piomba. A che maravigliarvi, se un romito solo avvezzo a praticar coi tronchi delle foreste, posto nella occasione cade, e per la sua temerità Iddio non gli porge la mano? non è così di chi ha un gran cuore, ed ha l’esperienza che in tante occasioni non è caduto; egli può sperare da Dio il soccorso, benchè di bel nuovo vi si ponga. Oh che baldanza temeraria! Questo fu che perdette Sansone, e quest’è che perde un numero senza numero de’ cristiani. Già sapete che Sansone più volte sbaragliò felicemente i suoi nemici; che però, divenuto superbo per le sue vittorie, mi salverò, diceva sogghignando nel suo cuore, allorchè Dalila, balzatolo dal suo grembo, lo lanciò in braccio a’ Filistei, mi salverò come feci altre volte: Egrediar sicut ante feci, et me excutiam. Le mascelle dei giumenti in mia mano sono fulmini, le porte della città sulle mie spalle sono paglia, le ritorte più salde alle mie braccia sono tele di ragno; chi è che meco la possa? Egrediar, egrediar sicut ante feci, ne uscirò questa volta ancora con gloria. Ne uscì, cristiani miei, ne uscì? Voi lo sapete; ma come? Incatenato, vilipeso, condannato a far l’ufficio d’un giumento intorno ad una mola Oh quanti, oh quanti Sansoni, che, divenuti superbi per qualche occasione malvagia passata con una certa supposta innocenza, perchè non vi fu consumazione di peccato, le affrontano tutte con temerità, e senza far conto dei pensieri, si trastullano con le Dalile, battezzando col titolo di cicisbeismo innocente, di civiltà, di gentilezze, di mode quegli inciampi, che alla fine poi li seppelliscono sotto le rovine, oh quanto peggiori di quelle di Sansone, perchè sono rovine eterne!
VIII. Or dite un po’ quel che volete; l’esperienza è in contrario; o ce lo vogliate credere, o no; tant’è, noi proviamo così. Ma se lo Spirito santo dice: Qui amat periculum, peribit in illo? A spiegar la Scrittura pensateci voi; noi abbiamo in contrario l’esperienza; sicchè dunque a questa esperienza convien rispondere con altre esperienze. Venite meco, di grazia, mirate là in quella contrada quella fanciulla che amoreggia e civetta tutta giorno or sull’uscio di casa, or sulle finestre; osservate con che libertà tratta con quel cervellino che passeggia su e giù per quella via cogli occhi sempre all’aria meditando opera tenebrarum. Eh via, padre, non mormorate, perchè si fa ogni cosa con un santo fine, cioè col fine del santo matrimonio. Bene; ma intanto prima che il parroco intervenga ai matrimonî amministra battesimi; questa esperienza non si vede spesso ai tempi nostri? Andiamo innanzi. In quella casa si fa il ballo, la veglia, quella commediola; vi si strascinano a forza quelle povere fanciulle, e vedono che ogni gesto sconcio è applaudito, ogni motto osceno è lodato, vedono occhiate, vedono cenni, vedono quel che da loro non si dovrebbe vedere, e qui in pubblico non si può dire; fermatevi un poco alla porta di quella casa, dice Girolamo, osservate tutti quelli che escono, e li vedrete mutati affatto da quelli che entrarono: Adulterium discitur, dum videtur, et quae pudica ad spectaculum matrona processerat, revertitur impudica. Questa esperienza non si vede tutto giorno? Quel giovane piglia un romanzo, un poetino; comincia a leggerlo per curiosità, indi per gusto, e poi gli serve per libro da meditare, senza però male alcuno, solo che comincia a dameggiare, va da quella giovane che suona e canta, ma canta pur bene! fa innamorare del paradiso; non è così? Certo, di quello di Maometto. Eh via, voi volete celiare; eppure quel giovane si mantiene illibato come un giglio. Ma frattanto di lì a pochi giorni si sente che ha contratto una pratica indegna, ruba in casa, strapazza il padre e la madre, mette sottosopra il parentado. Oh gli hanno fatto qualche malìa! Sì, certo, la malìa c’è stata, ma di quel romanzo, di quella veglia, di quel trattar libero in quella casa infame; questa esperienza non si vede di continuo nelle famiglie? Avete ragione, padre, sgridateli pure questi giovanetti baldanzosi che hanno le vene piene di zolfo, e vogliono trescare vicino al fuoco; che maraviglia poi se danno in fiamme? Io però, come vedete, ormai sono vecchio, ho le nevi in capo, non sono più capace di nutrir fuoco nelle viscere; se vado in cerca di qualche divertimento, non credo mi s’imputerà a temerità troppo ardita. Siete vecchio, già lo vedo; ma dove apprendeste voi che l’esser vecchio sia essere impeccabile? Voi dite che non siete più capace di fuoco; e qual fuoco più languido di quel fuoco, di cui si scrive nel secondo libro de’ Maccabei al capitolo primo, sepolto da’ sacerdoti entro un’arida cisterna? Ritornati dal lungo esilio, non vi trovarono più fuoco, ma una fogna d’acqua torbida e putrefatta: Non invenerunt ignem, sed aquam crassam. Eppure quest’acqua esposta a’ raggi del sole abbandonò le sembianze di putredine che l’avvilivano e ritornò fuoco, cominciò a splendere, a strisciare, a divampare, e non solo la fece da fuoco, ma da gran fuoco: ut tempus affuit, quo sol refulsit, qui prius erat in nubilo, accensus est ignis magnus. Voi siete vecchio, avete nelle viscere non più fuoco, diciamo così, ma acqua crassa; non vi fidate di quest’acqua, esclama un savio commentatore: Nolite fidere huic aquae, ella è figliuola di fuoco; ella è fuoco: soboles ignis est. Se le mostrate un raggio di qualche sole, oh che ardori! oh che vampe! Vecchio mio, non so se, parlando io così, faccia il pronostico de’ mali che vi sovrastano, o racconti storie de’ mali che sono accaduti; io non lo so, lo sapete voi; quello che so è una esperienza pur troppo veridica che voi non mi potete negare, ed eccola. Due cose si dibattono in questo punto: la prima è lasciar di peccare dopo che uno si è posto nell’occasione, la seconda lasciar di esporsi alla occasione; la più difficile di queste due cose qual è? Certo che è la prima, cioè lasciar di peccare dopo che uno si è posto nella occasione, attesochè vi vuole un miracolo, come udiste da Bernardo; e la più facile è la seconda, cioè lasciar di esporsi alla occasione. Or se voi non fate quel che è più facile, e per quanto l’abbiate promesso a quel confessore di non andar più in quella casa, di non praticar più con quel compagno, di non comparir più in quella conversazione, ancora non si vede effettuato il vostro proposito, e sono già tante Pasque che dite sempre lo stesso e mai non lo eseguite, anzi dite che non ne potete a meno; come volete voi che io creda che farete poi quel che è più difficile, cioè di non peccare, posto che vi sarete nell’occasione? Eh andate... benchè me lo giuraste, non ve lo posso credere, dice Bernardo: Quod minus est, non potes, quod majus est, vis credam tibi? Tutto questo non è fondato sulla esperienza e più frequente, e più fondata, e più autorizzata della vostra?...
IX. Via su, prima di finire voglio fare un atto generoso, vi voglio conceder tutto; sia, come dite voi, che vi potete esporre alla occasione di peccare senza peccato, che non vi mancano forze a resistere, che avete per patrina assistente la grazia, che avete la esperienza in contrario; ma voi però abbassate gli occhi alla terra, e mirate quella voragine aperta che assorbisce Datan con i compagni: aperta est terra, et deglutivit Datan. Sapete chi è questo Datan? È uno di quelli che insieme col popolo ebreo tragittò il mare a piede asciutto, ed ecco l’epitaffio che incide sull’orlo della voragine Teodoreto: Qui per mare medium ambulaverunt, in terra absorpti sunt: quelli che passarono il mare a piedi senza affondarsi, fecero naufragio in terra ferma. Applichiamo a noi. Voi uscite senza piaga da quella veglia; via, sia così; siete stato sicuro in mare; ma quella solitudine pensierosa, quei fantasmi che vi rimangono in capo, quei pensieri notturni, quella viva apprensione di ciò che udiste e vedeste, quella solitaria concupiscenza, come dice Tertulliano, non è una burrasca per voi? non vi reca naufragio in terra ferma? Ma vi voglio concedere anche di più, cioè che nè in tempo della occasione, nè dopo commettiate peccato; vi dovete però fidare? Ah meschini, aprite gli occhi, e sappiate che sono imboscate che vi fa il diavolo per quel mal passo in punto di morte, quelle occasioni cercate e ricercate, quegli affetti nutriti e fomentati con tante visite, amori, memorie, saluti, discorsi, lettere e imbasciate. Voi dite che adesso non vi fanno motivo alcuno; ma io dico che non è così. Ma pure sia come dite voi; sappiate però che se adesso stanno agguatate giù, in punto di morte si alzeranno su tutte quelle occasioni, tutti quei fantasmi, tutte quelle rimembranze, tutte quelle corrispondenze; ed ahi in che angustie porranno il vostro cuore, in che strette metteranno la povera anima vostra! Allora sì toccherete con mano, allora sì confesserete che il maggior pericolo delle tentazioni, anzi l’unico precipizio delle anime e in vita e in morte è l’esporsi alla occasione. Stampatevi dunque nel cuore quest’assioma vero, verissimo: chi non fugge perde, chi non fugge perde. Non ci credete? Dio vi faccia la grazia di non provarlo. Riposiamo.
Seconda parte.
X. Se così è, il caso è disperato; giacchè a chi si trova in qualche occasione di peccare si rende sì contumace e fervida la tentazione, che non giova nè fìdarsi di sè, nè fidarsi di Dio. Dunque che s’ha a fare? Qual sarà il rimedio? Eccolo in pronto: fuggir l’occasione: nè ve n’è, nè ve ne può esser altro, fuggir l’occasione. Convien fare per appunto quello che si fa in tempo di peste, cioè a dire, metter in opera tre cose: fuga, ferro e fuoco; in primo luogo fuga: si vere ploras, exi foras, grida s. Tommaso di Villanova; fuora da quella strada, fuora da quella casa, fuora da quella conversazione. Imitate l’esempio nobilissimo che ce ne diede il pudico Giuseppe, che, lasciando il manto nelle mani della rea padrona, si salvò con la fuga. Io non descrivo il tragico avvenimento, perchè pur troppo è noto; non lo dipingo con artificiosi colori, che pur troppo in ogni sala, in ogni stanza, in ogni galleria vede dipinto, e Dio sa in qual maniera, con quali atteggiamenti; oh vergogna grande dell’arte (lasciatemi sfogare così di passaggio)! oh vitupero della pittura! Come! Non basta vedersi in alcune sale e Veneri ignude, e Adoni sfacciati, tutti fomiti della sozza libidine, che di soprappiù vogliamo che le Susanne, le Maddalene penitenti, i Giuseppi, che furono esempi di purità, servano ad eccitare impurissime fiamme? Capi di casa, a rivederci al tribunale di Dio, tanto voi che tenete esposte pitturaccie sì infami, quanto i pittori che le pinsero; oh che vergogna, vergogna! ... (avrei troppo che dire). Ma per ritornare a noi, ecco il vero modo di vincere: fuggire, fuggire, fuggire. Il buon Giuseppe non consultò, non diede tempo all’impudica, ma subito, non discese no, ma volò, ma precipitò per le scale, che non è cosa nuova, quando brucia la casa, salvarsi dall’incendio col precipizio: Relicto in manu ejus pallio, fugit, et egressus est foras. Ma, padre, quello che viene in casa è amico del marito, compare d’uno de’ figliuoli, antico confidente, già maturo e attempato: e qui c’è pericolo? l’ho da sbandire? Non so che dirvi; sentite però: del soprannomato Giuseppe dice la Scrittura: mulier molesta erat adolescenti. Dice che l’impudica padrona molestava quel giovinetto. Giovinetto? se nel testo di sopra ci vien descritto per uomo già fatto e maturo: erat vir in cunctis prospere agens? Attendete bene; col lungo vivere si diventa vecchio, col lungo convivere si diventa giovine. La prima volta che la padrona vide Giuseppe le parve uomo: Vir erat. Seguitando a vederlo, le parve giovine, et molesta erat adolescenti. Chi m’intende s’approfitti, e se vuole il rimedio, eccolo: fuga, ferro e fuoco. Io, padre, vado a trattenermi in una casa; ma, se vedeste quella con cui ho qualche confidenza, modesta, spirituale, volto dimesso! i pittori ne cavano le idee per le sante Terese e Caterine da Siena; e qui c’è pericolo? Non saprei che dire; ad affascinar Oloferne bastano le sole scarpe d’una Giuditta giovane tutta spirituale; non fu l’avvenenza del tratto, no, ma le sole scarpette: Sandalia eius rapuerunt eum. Pur troppo certe persone spirituali, velate, modeste e ben coperte sono scogli sott’acqua, ne’ quali il naufragio è più sicuro, e forse più frequente; il coltello, di cui si servì Pietro per tagliare l’orecchio a Malco, era consecrato all’uso di trinciar nella mensa l’agnello pasquale: habebat illum in esu agni paschalis. Voglio dire che persone sacre con mezzi sacri, in un luogo sacro possono cadere; pertanto fuga, ferro e fuoco: si vere ploras, exi foras.XI. Ma, padre mio, questo è troppo rigore. Sì! ... troppo rigore! Se così è, strappate l’Evangelio. Non parla chiaro Cristo Signor nostro? Fuga, ferro e fuoco, grida sino dal cielo: si oculus tuus scandalizat te, erue eum, et projice abs te. Ferro e fuoco, si manus tua scandalizat te, abscinde eam, et projice abs te. Ferro e fuoco; ed acciocchè vediate che non è impraticabile questo testo evangelico, vi confonda l’esempio d’una generosa eroina; ah, se ne sapessi il nome, desidererei che fosse registrato a caratteri d’oro ne’ diamanti dell’eternità! Fu questa una santa verginella, religiosa dell’ordine di s. Domenico, e fu amata con affetto troppo eccessivo da un re delle Spagne: ed ella, benchè innocentissima dicesse mille volte, potius mori quam foedari, non lasciava però di apprendere vivamente quanto possa in un sovrano la sregolata passione, e temendo di qualche violenza a sè e sfregio al monastero, dopo lunga consulta col suo cuore, finalmente, mossa da un particolare istinto dello Spirito santo, così risolvette: orsù, giacchè questo principe si dichiarò che gli occhi miei sono le sue stelle, le sue calamite, potrò ben io con questi occhi compiacere a lui, senza dispiacere al mio Gesù. Così dicendo si mette innanzi da una parte la penna e un foglio, dall’altra una piccola tazza, nella quale voleva mandare al re il funesto regalo degli occhi suoi. Prima però di cavarseli, in somiglianti sensi gli scrive: Sire, chi ad un monarca il tutto nega, il tutto concede; pertanto mi son risoluta mandarvi questi occhi miei che tanto vi piacquero, acciocchè vi contentiate di lasciare al mio Gesù quel tesoro, che da tanto tempo gli ho consacrato. Eccovi dunque le due da voi tanto amate pupille; prendetele senza orrore, chè se da lontano vi ardevano, da vicino vi estingueranno gli ardori. Di me poi non vi prenda pietà; nulla perde una monaca che perde la vista; il Crocifisso mio sposo meglio si vagheggia portando in fronte due piaghe, che due pupille; d’una sola grazia, o principe, per questi occhi che vi mando, istantemente vi prego: degnatevi di vedere con questi quanto sia cieco l’amore, e per l’avvenire, contento di avere questi occhi miei, lasciate a Dio questo mio cuore. Così scrisse l’intrepida e coraggiosa, e da divino istinto rapita con la punta di taglientissimo ferro fa schizzare fuor della fronte ambidue gli occhi suoi, e tuttavia palpitanti e stillanti di sangue li manda al re innamorato.
XII. Ascondetevi pure, o stelle del cielo, e cedete la maggioranza a questi lumi. O lumi, nobili trofei della purità verginale! o pupille, venerande reliquie di santità! Qua, o donne, qua, o fanciulle, qua, o giovani, qua tutti questa mane; questi occhi vi confonderanno nel giorno del giudizio, questi vi riprenderanno di tante occhiate lascive date per le chiese, di tanti sguardi maliziosi co’ quali assassinaste tante anime; questi occhi vi faranno intendere quanto era necessario adoperar ferro e fuoco per fuggir la occasione di peccare; e sebbene non dobbiamo imitar quest’anima generosa con cavarci gli occhi, perchè ella operò per istinto dello Spirito santo, dobbiamo bensì imitarla in mortificar questi nostri occhi che sono i traditori dell’anima, abbassandoli, e chiudendoli a tempo e luogo per mantener la purità del cuore; se non altro impieghiamoli in piangere a piè di questo Cristo tanti errori commessi per l’addietro. Venite pur qua, caro mio Redentore, a supplire con la vostra grazia al mancamento della mia lingua, che non ha l’efficacia che si conviene per imprimere ne’ cuori di tutti questa gran verità. Fuga, ferro e fuoco v’intima da questa croce il mio Gesù: si oculus tuus scandalizat te, erue eum, cioè a dire, se quella donna vi è cara come la pupilla degli occhi, l’avete a cacciar fuori di casa. Nè mi state a dire, non sarò più quello, starò sulle mie, vivrò più cauto; no, no; cacciarla, cacciarla: Erue, projice. Ferro e fuoco, ferro e fuoco; quelle lettere che tenete riposte e sì ben custodite, al fuoco; quelle gale, quei nastri, quel ritratto, al fuoco; quell’anello, che portate in dito per pegno d’amore, al fuoco; quei libri infidi, quei libri infetti che tanto vi dilettano, al fuoco, al fuoco; quelle pitturaccie indegne, fate un poco di ricerca se ve ne sono in casa vostra, spiccatele dal muro e gettatele nel fuoco dicendo: uro vos, ne urar a vobis, brucio voi per non bruciar io per voi per tutta l’eternità nell’inferno. Fuga, ferro e fuoco, cioè mai più in quella casa, mai più in quella veglia e conversazione, mai più con quel compagno; mai più ad amoreggiare, a cicisbeare, a bagordare nei ridotti, mai più. Si manus tua scandalizat te, abscinde eam. È Gesù che ve lo comanda da questa croce; non vi consiglia, ve lo comanda, abscinde, abscinde. Fuggite, carissimi, fuggite tutte le occasioni; che se le vostre occasioni sono occasioni prossime; ahimè, ahimè, che ruina! Non vi giovano i sacramenti, perchè sono tutti sacrilegi, sacrilegi le confessioni, sacrilegi le comunioni; non v’è Pasqua, non v’è indulgenza per voi. Qual frutto dunque si ricaverà dalla predica di questa mane? Ahimè che spina! mi sento inspirare da questo Crocifisso che la predica di tutte la più necessaria sarà di tutte la meno profittevole, e nulla si farà di quanto ho detto. Nulla! come! nulla si toglierà di dimestichezza tra persone di diverso sesso? Nulla. Nulla di tanta immodestia di sguardi? Nulla. Nulla di tanta oscenità di parole, di comparse, di nudità scandalose? Nulla. Penderanno adunque dalle pareti le stesse pitture lascive? Penderanno. Si leggeranno colla solita avidità gli stessi libri corrotti? Si leggeranno. Si canteranno con eguale franchezza le stesse canzoni impure? Si canteranno. Si frequenteranno le stesse conversazioni e compagnie dissolute? Si frequenteranno. Si seguirà a cicisbeare, ad amoreggiare, a bagordare negli stessi luoghi sospetti? Si seguirà. Ahimè, povero Gesù mio assassinato, a che servono dunque tanti sudori de’ vostri poveri ministri? a che servono tante prediche? a che tante quaresime, se i vostri cristiani a tutto costo vogliono dannarsi? Toccherà a me, se così è, a piangere sì gran disgrazia, purchè le mie lagrime ottengano il ravvedimento d’una sola di tante anime, che qui m’ascoltano. Un’anima sola vi chieggo questa mane, un’anima sola; sia pur questa la più invischiata nelle pratiche, nelle occasioni, non me la negate, caro Gesù mio. Che volete da quest’anima? lagrime, dolore, pentimento? Io, io piangerò per lei le sue infedeltà, io ve ne chieggo il perdono; e da voi, anima diletta, non voglio lagrime questa mane, non voglio compunzione, no, no; quello che io voglio da voi è una generosa risoluzione di farla finita con quella occasione. Fate un po’ la ricerca nel vostro cuore: qual’è la occasione che vi tiene incatenata e vi rende schiava di satanasso, qual’è? L’avete voi ritrovata? Via su, spezzate quelle catene; che vi costa? Un sì risoluto, e tanto basta. Sì, mio Dio, sì, ditelo di cuore, sì: mio Dio, sì, la fo finita, mai più con colui, mai più con colei, mai più in quella casa, mai più. Oh che bella vittoria, oh che bel frutto, oh che bel trionfo! Ma che dissi, un’anima sola? Tutti, tutti, dilettissimi, fate una sì nobile risoluzione di lasciar tutte le occasioni. Eccoci sulle prime mosse della quaresima; a che servirebbero i miei sudori e i vostri incomodi, se in questi santi giorni faceste cozzare insieme prediche e veglie, oratorî e conversazioni, confessioni e occasioni? Non sia mai; ma tutti offerite a questo santo Crocifisso per primo frutto di questa quaresima il toglier via tutte le occasioni; e per venire prontamente alla esecuzione, rammentatevi che il maggior pericolo delle tentazioni, anzi il precipizio di tante anime nelle tentazioni è esporsi all’occasione; e l’unico rimedio è fuggire tutte le occasioni. È verissimo, arciverissimo; chi non fugge perde, e chi fugge vince. E il mezzo qual è? Eccolo: fuga, ferro e fuoco. Mentre andate alle vostre case, replicatelo cento volte: fuga, ferro e fuoco: fuga, ferro e fuoco.