di Luca Fumagalli
Guai a chi osasse sostenere che il ministro Cecile Kyenge non è italiana. Anzi, dopo i primi cento giorni di governo si sta sempre più dimostrando totalmente, integralmente, essenzialmente italiana. Poco importa il colore della pelle, l’origine geografica o la carta d’identità: in tutto e per tutto incarna, nel profondo, lo spirito di un popolo.
Sarà per quella sua “erre moscia” che, più che denotare l’origine straniera, assume la posa canonica del radical chic di sinistra, il tipo – tanto per intenderci – che campa grazie ai soldi di un popolo oppresso (ma bue) e va ciarlando di ovvietà in tutti i media nazionali: se questa non è Italia…
Di più: la conduzione del suo stesso ministero è un’affascinante ritratto strapaesano. Si affastellano dichiarazioni su dichiarazione che, naturalmente, con italico orgoglio, non precedono nessuna azione pratica o concreta proposta di legge (giusta o sbagliata che sia). Un gran chiacchiericcio inutile: se questa non è Italia …
La rivoluzione però è già certamente iniziata con la sua stessa nomina, tra l’altro frutto del più bieco razzismo lettiano. Senza alcun merito – solo per il colore della pelle – è stata scelta per il prestigioso incarico di Ministro dell’integrazione, ma è trattata dagli stessi colleghi come una Madonna pellegrina, una simpatica carta mediatica da giocare per riempire la desolante inattività del governo: se questa non è Italia…
Basterebbe elencare gli imbarazzanti scivoloni, come quello sul velo delle suore, per respirare l’aria di casa. Per non parlare poi dello ius soli. Se venisse veramente applicato in un paese come l’Italia, soggetto a forti ondate migratorie, il welfare si disintegrerebbe nel giro di un decennio. Molte donne straniere, infatti, verrebbero nel Bel paese – i cui controlli, notoriamente, sono paragonabili ai buchi dell’Emmental – solo per partorire e ottenere la cittadinanza per i figli. Solo noi vantiamo statisti così lungimiranti (non è un caso che venga paragonata alla Thatcher): se questa non è Italia…
Alla fine è il solito gioco delle parti, il “conflitto di civiltà” dell’ignoranza tra chi lancia banane e chi disserta sulla falsariga di narrazioni grottescamente poetiche. Forse, più semplicemente, l’ennesimo straordinario prodotto politico dell’Università Cattolica, in tempi recenti, dopo Angelino Alfano: In poche parole, l’iperitaliana.