venerdì 31 gennaio 2014

Conte Clemente Solaro della Margarita : IL PRINCIPIO DI AUTORITA'

 

Conte Clemente Solaro della Margarita.


LEZIONI DI POLITICA
raccolte fra le sue principali opere

CAPITOLO V. IL PRINCIPIO DI AUTORITA'

I. Condurre gli uomini e reggere una Nazione, ossia regnare, io sento dire, io leggo scritto, è un'arte difficilissima. "Non v'è impresa più difficile e più ardua che il reggere, e governare i popoli" , diceva il nostro Botero nel suo Discorso sulla Riputazione del Principe (Libro II). Io così non penso.
Studiando le storie di tutti i secoli, di tutti i popoli, ho imparato il contrario; l'esperienza di una vita scorsa intieramente nei pubblici affari me ne ha convinto. Difficile può essere quell'arte per chi non ha proprie convinzioni, per chi tentenna fra i partiti, per chi non ha uno scopo certo da raggiungere coll'opera sua, per chi manca d'ingegno, di prudenza e di quelle altre doti che devono servirgli di guida. L'uomo di fermo carattere, di volontà immutabile, di mente sempre rivolta al fine che si è proposto, non trova così malagevole il guidare la greggia umana per quella via d'onde la voce e la sferza del Signore impone di non deviare.
Ciò suppone in tal uomo il diritto e la forza. Assoggettarvisi non è che ubbidire alla legge di natura dacché fu scritto per divino impulso: "Manus fortium dominabitur" (Prov. XII, 24) Haller dimostra all'evidenza l'impero di questa legge "che è profondamente scolpita nel cuore dell'uomo" (Restauration de la science politique, chap. XIII).
Io ne trassi il corollario che il principio d'autorità conosciuto nella sua origine, rettamente seguito, è il fondamento della stabilità e della quiete delle Nazioni. Quanti ammettono l'idea che non derivi dalla legge di natura, ma piuttosto dalla volontà degli uomini, non solo sono in errore, ma cospirano scientemente gli uni, per ignoranza gli altri o per malizia, alla dissoluzione dell'umana società.

II. L'autorità deriva da Dio, "inclinate aures vestras" o superbi; non può esservi diritto nell'uomo, nella società, se vi si ascrive altra origine che quella della volontà del Supremo Fattore e Legislatore dell'universo.
Come i fondatori della Torre di Babele, alcuni perversi sofisti sul fine del XVI secolo, e sul principio del XVII immaginarono l'esistenza d'un patto che stabilì i diritti dell'umano consorzio, e dissero, più non temeremo che s'erga un'autorità che ci domini ed assoggetti. D'uopo è crearne una che da noi derivi; soggiacendo a quella nelle forme, soggiaceremo in realtà a noi stessi; da noi delegati i Sovrani riconosceranno che la sovranità, il potere sono in noi, in essi la facoltà sola si serbi di esercitarli in nome nostro, e secondo il nostro volere, cioè fino al giorno in cui ci piaccia sbalzarli dai troni. Tal fu l'origine del supposto patto sociale; questo ricevè varie modificazioni ne' rivolgimenti sociali, e se ne mutano le condizioni a capriccio de' novatori. In pratica poi si stipula il contratto sociale da una turba di studenti, che disertano le scuole, da una turba di operai che lasciano il lavoro per scendere nelle piazze a chiamare riforme, e fanno eco ai mestatori politici, dai quali furono con vane speranze, e con pecunia sedotti. A queste turbe si uniscono tutti i malcontenti, gli ambiziosi, quelli che sono illusi dalle idee di maggior libertà, quelli che sperano di avvantaggiare la loro sorte, e tutti coloro che simili ai seguaci di Catilina anelano al disordine, alla licenza, e forse anche all'anarchia. Questi sono i primi a stipulare il contratto sociale, su cui gli autori delle rivoluzioni fondano i loro diritti; e se riescono a persuadere anche i Principi della realtà di quel patto, ne sorge la supposta legittimità delle rivoluzioni che sono lo strumento con cui Dio punisce Principi e popoli. Principi che non riconobbero da Lui l'autorità, videro dai sudditi la loro disprezzata e respinta: popoli che s'immaginarono essere Sovrani si sottoposero a padroni che li trattarono come vile gregge di schiavi; tali sono le conseguenze della negazione dell'autorità divina che sola regola ogni cosa e da cui ogni altra autorità deriva. [...]

III. L'Uomo di Stato che ha studiato i veri princìpi della politica considererà quel patto come un vero sogno, come un'invenzione di non antichi pseudofilosofi, comprenderà che la riunione degli uomini in società è la conseguenza della legge naturale che ne regola le condizioni, e non era possibile per mezzo d'alcun patto eseguirla, come non avvenne mai in una famiglia fra i figli ed il padre che ne è naturalmente il capo.
Il principio dell'autorità nasce nei consorzi sociali come nelle famiglie naturalmente per se solo in forza della legge primitiva che ne è indipendente dal voler dell'uomo, ma nel cuor dell'uomo sta scritta. E siccome la natura nell'ordine fisico altro non è che il modo di spiegare la condizione di tutti gli esseri creati che seguono passivamente, impreteribilmente la legge loro imposta dal Creatore; così nell'ordine morale e politico la legge di natura altro non è che quel sentimento innato in noi del giusto e del vero per conformare tutte le azioni, siano individuali, siano sociali, alla volontà del Creatore, che è in sostanza la legge divina. [...]

IV. Qualunque sia la forma di Governo in una società, il principio d'autorità è sempre lo stesso; emana da Dio, e n'è il Rappresentante il Sovrano nelle Monarchie assolute, lo è nelle Monarchie miste, o, come or direbbero, costituzionali, sebbene nell'esercizio del potere debba seguire le leggi particolari dello Stato che ne fissano i limiti. Nelle Repubbliche poi si esercita dai Magistrati del popolo, i quali mentre sono in ufficio sono investiti dell'autorità superiore sempre in conformità della legge divina, di quell'autorità che esercitano bensì per il suffragio, per la scelta del popolo, ma non mai perché in questo risieda la sovranità, che esiste solo in Dio, od in coloro che ricevettero in un modo o nell'altro il mandato di esercitarla per il bene della società e non mai a detrimento, come potrebbe accadere, anzi come quasi sempre accade, se il popolo, che altro non è che una moltitudine discorde e volubile, fosse Sovrano. [...]

V. Le teorie che si diffondono ora con tanto ardore sono l'antitesi di quelle che espongo sulle tracce dei sommi ingegni che le hanno prima, e meglio di me esposte, ma le loro sentenze furono fraintese, o neglette. Non si ragiona per combatterci, si declama invece e si suda per provare che il bene della società esige che si ricorra a tutt'altro principio che a quello dell'autorità divina: il consenso della turba degli insipienti e di molti i quali hanno il cuore corrotto, si guarda come la più forte prova di quanto si spaccia, e n'è la prova più fallace. Se si vuole il vero bene della società, e i veri savi lo vogliono, si segua il principio che vado propugnando. "La loi divine", scriveva Haller, "suffit à tous les besoins, elle impose aux Princes bien plus de devoirs que toutes les ordonnances des hommes ne pourraient l'imaginer; car au lieu que les lois humaines ont toujours de nombreuses lacunes, les lois naturelles n'en ont point. Il est important", soggiungeva, "que les Souverains reconnaissent en effet Dieu pour leur maitre. C'est en celà que les peuples trouvent l'unique garantie possible, et la garantie la plus se recontre tout abus de pouvoir" (Restauration de la science politique, 1 p., chap. XXVII) [...].

VI.[...] Potranno bene dichiararsi dalle assemblee delle nazioni la sovranità del popolo, i diritti dell'uomo; se quella e questi non sono stabiliti dalla legge eterna, i decreti degli uomini constatano una aberrazione d'idee, non altro. Giustissime sono le parole seguenti che lessi in un opuscolo pubblicato da un savio scrittore del Belgio, distinto non meno per le sue virtù che per il suo senno politico. "C'est moins la souveraineté‚ de la raison du peuple, qui a decreté. Les Juifs crièrent à
Pilate: nous n'avons d'autre Roi que Cesar, et nous chretiens après dixhuit siècles du règne du Christ nous crions; nous n'avons d'autre Roi que nous; nous ne voulons plus que celui-là regne sur nous". (De l'ordre par le Comte Robiano de Borsbeckh) [...]

VIII. [...] Arrogarsi di discutere su tali princìpi fondamentali della giustizia indefettibile che emana da Dio, è prova di quanto possa negli uomini traviati l'orgoglio che li spinge a contendere il suo potere all'autore stesso della natura.
Né dicasi che non si contendeva, ma si volle soltanto chiarirlo: se tal fosse stato il pensiero avrebbero dovuto, prima d'interpretare la volontà superna, considerare se erano essi competenti a decidere. Poveri spiriti nella loro superbia coloro che chiamano ad esame i dettati della Provvidenza creatrice e se ne fanno interpreti, e osano dichiarare quali sono i diritti naturali dell'uomo, contraddicendo ciò che la stessa Provvidenza ha insegnato, sia col lume della ragione ove rettamente si consulti, sia colle sue leggi promulgate non per norma del popolo d'Israele soltanto, ma per norma di tutti i popoli nelle successive generazioni di tutti i secoli e durature quanto il mondo!! Ma quei dettami sono da una gran parte degli uomini di Stato e da pubblicisti negletti, onde è che "oramai si parla assai poco di sovranità e di autorità, e si parla assai DI POTERE, parola che esprime piuttosto la forza materiale". (Della Motta, Saggio sul Socialismo, parte II, cap.VI) [...]

IX. Non mi s'apponga che vengo implicitamente propugnando il dispotismo. Il diritto divino da cui ogni altro deriva lo esclude assolutamente. L'autorità è data da Dio ai regnanti, non perché possano fare quanto a loro piace, ma perché l'esercitino con subordinazione alle sue leggi, che loro non è lecito di violare; [...] e tal dispotismo non sarà mai propugnato dai seguaci del diritto divino. Gli strali che contro questi si scagliano mirano a ferire ogni principio d'autorità, perciò tanto sgomento e sdegno destò nel campo del liberalismo la dichiarazione di Federico Guglielmo V Re di Prussia di riconoscere, e prendere da Dio la corona. Quell'implicita condanna della sovranità del popolo, quel ritorno al diritto divino senza cui non è possibile restaurare la cosa pubblica, si è interpretata come un'aspirazione al dispotismo; [...]

XII. L'autorità nel fatto può essere legittima, od illegittima, non entro a considerarla sotto quest'aspetto, a dichiarare i caratteri dell'una e dell'altra; stabilisco che essa è la sola che in fatto governa. Gli uomini che più a lei si ribellano, malgrado loro vi soggiacciono, e avviene sempre che coloro i quali scossero il giogo dell'autorità legittima, si sottopongono a quella che per violenza viene sostituita. Se essi afferrano il potere è in forza dell'autorità che sottomettono i ritrosi, è in forza del principio stesso che per farsene padroni prima negavano. [...]
L'uomo può, quanto vuole, avvolgere nei sofismi il principio dell'autorità, scambiarne l'origine, la base, i diritti, ma non può sottrarvisi, non distruggerla. Essa è nelle natura delle cose, nella natura dell'uomo, e forza è che regni come il sole nel firmamento. Se questo principio si affrange, se si vuol temperare, se si sposta; l'ordine pubblico non sarà mai sicuro, [...]

XVI. [...] Quel Principe che riconosce nel popolo il diritto di eleggerlo, deve per naturale conseguenza ammettere nel medesimo quello di deporlo ove più non convenga alla moltitudine; se lo nega, nega la sovranità del popolo cui assurdo sarebbe dire: la perdeste per l'avvenire nel giorno che l'esercitaste.
[...] il Principe che riconosce la sovranità del popolo ammette implicitamente il diritto in questo di balzarlo dal Trono; se il popolo è Sovrano, egli è suddito; due Sovrani non possono esistere con eguali diritti. [...]

XVII. Il principio d'autorità non ha che fare colla tirannide che è un abuso del potere.[...] l'origine d'ogni autorità viene dal Supremo Legislatore che ha pure ordinato il modo con cui deve esercitarsi, e dal quale non è concesso di allontanarsi mai per qualsiasi circostanza di umani eventi.
Ogni qual volta da loro stessi gli uomini la derivano, si credono padroni d'esercitarla come loro piace; funesta e vana conseguenza d'un principio fallace, poiché in fatto è il più forte che l'esercita, e il popolo resta esposto a cadere in balìa della tirannide, meritato castigo di chi ha scosso il giogo soave dell'autorità che fu costituita per la salute, non per l'oppressione dei popoli. Posso ingannarmi, vorrei ingannarmi, ma un segreto presentimento fondato sugli esempi storici, sulla tendenza che prendono le idee che or più prevalgono, mi fa temere che non mai fu più vicina l'epoca dei tiranni di quello che or lo sia. Guardo la maggior parte de' Governi, e tentennano incerti quasi più non sappiano quali siano i loro diritti, e i loro doveri; guardo i popoli e sono tutti irrequieti e divisi in partiti; di questi gli uni aspirano a stendere la nazionalità distruggendo le autonomie particolari, altri vogliono libertà illimitata; v'è chi desidera fin la Repubblica. Questa parola molti aborriscono e vorrebbero piuttosto Monarchia assoluta; ma questi contrariano i fautori del sistema parlamentare: tutti si agitano e si affaticano per il trionfo della propria idea. Fra tante opinioni discordi nasce il desiderio di pace alla maggioranza, ma se si trova in mezzo a tanti dispareri un uomo scaltro e forte di volontà ferma, aizza le ire e poi come salvatore si mostra ed afferra il potere; vede che ha nemici possenti che vuole atterrare, e questo, se non ha in cuore princìpi di moderazione, d'umanità e di giustizia diverrà tiranno. Costui non farà conto dei limiti posti all'autorità da Dio stabilita a pro del genere umano, e non certo creata dispotica irrefrenabile; Dio chiederà conto a chi l'esercita degli eccessi, del minimo degli eccessi in cui trascorra, d'ogni minima violazione dei diritti altrui. Ma quali sono quei limiti? Per me risponda il sapientissimo Haller: "chacun posseé de en propre quelque chose, la vie, l'honneur, le tems du pauvre et le forces lui appartiennent, tout aussi bien par la grace de Dieu, qu'au Roi sa puissance, sa fortune et sa couronne. Les lois divines, c'est-à-dire les lois de la necessité, et les lois morales, voilà donc les limites du pouvoir souverain" (De la Restauration, chap. XXXIX) [...]

XXVII. Se i Governi conoscessero la forza, il valore, i diritti dell'autorità, le rivoluzioni da gran tempo sarebbero terminate: ma le lezioni tremende che ebbe il mondo dal 1789 al 1814 andarono perdute: si aveva il modo, l'occasione alla caduta di Napoleone I di chiudere l'era infausta facendo ritorno a migliori princìpi. Si fece tutt'altro: lo spirito di vertigine sfoggiò nelle Reggie, nei Gabinetti, perché si aveva trionfato d'un gran guerriero, d'un Imperatore possente; si credette aver vinta la rivoluzione e non si fece altro che spostarne il nido; prima albergava nelle congreghe settarie, essa trovò poscia asilo nelle Corti. Ben a ragione il Conte di Maistre scrivendo al cavaliere d'Olry nel 1815 diceva: "La revolution est debout, et non seulement elle est debout, mais elle marche, elle court, elle rue... La seule difference que j'apercois entre cette époque et celle de Robespierre c'est qu'alors les tétes tombaient et qu'aujourd'hui elles tournent". L'insigne autore non si è sbagliato. Le teste continuarono a girare fra una vertigine generale, girano tuttora, e gireranno finché non venga colui che feroce e possente non le faccia un'altra volta cadere. Preservi il mondo Iddio da tali orrori! Iddio non chiederà conto a coloro che giovani furono educati nelle idee e nelle massime moderne sempre che scientemente non vìolino i princìpi della giustizia; ma lo chiederà ben severo a quanti professano ed insegnano le storte dottrine del filosofismo, ai Ministri che le proteggono e le pongono in pratica, e le diffondono, ai Principi che se ne fanno campioni, e scalzano ciecamente le basi della loro autorità, e della società civile. "Per me Reges regnant", è detto nel libro de' Proverbi: questa è la legge del diritto divino che non può prescriversi mai. "Per me Reges regnant": in queste parole sta l'origine dell'autorità sovrana, sta l'istituzione dei Re, sta il fondamento dei loro diritti: Essi regnano per volere di Dio: "Per me Reges regnant": in queste parole sta ugualmente la ragione dei loro doveri; non regnano che per compiere nell'esercizio del potere la volontà di Dio che li delegò, li costituì, e assunse all'alto ufficio di reggitori dei popoli. I moderni sofisti impugnano quel principio, simili ad uno de' primi loro Patriarchi Hobbes; [...] Hobbes fu il precursore dei banditori dei funesti princìpi del 1789 che sono vagheggiati, e lo saranno finché duri il delirio di sfrenate passioni; ma saranno respinti come tabe di un secolo di sventura, tosto che rinsaviscano gli uomini, e più non pospongano i princìpi veri, inconcussi, eterni alle aberrazioni d'una Nazione cadente nel più orribile precipizio.

XXIX. [...] Sarebbe luogo opportuno questo di esaminare quella celebrata dichiarazione dei diritti dell'uomo, e buttarne a terra i suoi singoli articoli; ma già ne fu fatto il lavoro da penne migliori della mia, e nei volumi VII e VIII serie quinta della Civiltà cattolica furono sagacemente esaminati ed atterrati; [...]

(L'Uomo di Stato, libro III, cap. II, pagg.23-48)