lunedì 6 gennaio 2014

La “Radetzky Marsch”, che non piace ai patrioti del “Bordello Italia”

di ROMANO BRACALINI


Anche quest’anno ho seguito il Concerto di Capodanno da Vienna, conclusosi com’è tradizione con la Marcia di Radetzky. Il concerto della Filarmonica di Vienna, diretto dal maestro Daniel Baremboim, ha avuto ancora una volta la magia di riportare alla mente il mondo calmo e ordinato della Mitteleuropa, di cui fece parte anche il Lombardo-Veneto; un mondo che nostalgicamente contrasta per stile e concezione col “bordello” italiano.
Un susseguirsi di emozioni e di immagini che hanno appunto il loro momento culminante nella trascinante “Radetzky Marsch”, diretta argutamente da Baremboim e ritmata entusiasticamente dal pubblico in teatro. Contro la marcia di Radeztky hanno regolarmente protestato ad ogni inizio d’anno i “patrioti” italiani che avrebbero voluto che l’orchestra di Vienna la cancellasse dal suo programma di Capodanno. Il motivo era che la marcia offendeva i sentimenti degli italiani. Niente di più cretino. Al provincialismo si aggiungeva il ridicolo. Sarebbe come abolire le opere “patriottiche” verdiane per non offendere gli austriaci. Se l’identità italiana è debole, o inesistente, non è colpa di Radeztky che sul campo di battaglia sconfisse più volte i vili e fiacchi italiani e Johann Strauss lo celebrò giustamente come il più popolare eroe dell’Impero, dopo il principe Eugenio. Radetzky non è stato il mostro descritto dalla propaganda italiana che non ha trovato metodi meno ripugnanti e falsi per denigrare un prode soldato.
Nel 1848, allo scoppio delle Cinque Giornate, Radetzky disponeva di un esercito di 16.000 uomini, pochi ma sufficienti a soffocare la rivolta popolare milanese se solo avesse fatto uso dell’artiglieria. Avrebbe potuto farlo, non lo fece perché, disse, non voleva passare per un novello Barbarossa. Uscendo dal Castello la sera della quinta giornata, ossia il 22 marzo, giunto a Porta Romana, sulla strada che lo avrebbe ricondotto nel Quadrilatero, si voltò verso la città che abbandonava giurando che sarebbe presto ritornato. Mantenne la promessa sconfiggendo il debole Carlo Alberto a Custoza e rientrando a Milano ad agosto dello stesso 1848, mentre i borghesi voltagabbana si toglievano il tricolore dal bavero e gridavano “Viva Radetzky”. Non ebbe gli stessi scrupoli morali l’oscuro generale piemontese Bava Beccaris, che non s’era distinto in nessuna campagna del risorgimento, il quale nel 1898, esattamente mezzo secolo dopo, prese a cannonate il popolo di Milano, accusato dal capo del governo marchese Di Rudinì, siculo di pelo rosso, di volere la rivoluzione secessionista. Magari. Ma non era vero. Il popolo milanese protestava per le tasse, per il caro pane, per la fame. Non bisognerebbe mai perdere di vista i migliori esempi della storia, come quando nel 1814, sotto i francesi, i milanesi insorsero contro l’oppressione fiscale dando l’assalto al palazzo di Giuseppe Prina, ministro delle finanze, lo massacrarono e lo scaraventarono dalla finestra.
Il dominio austriaco ha lasciato tracce profonde nella città, nel costume, nella civiltà dei comportamenti, che col tempo e sotto l’influenza italiana, si sono affievoliti. Le tasse erano gravose ma restavano sul territorio.Venezia rinacque sotto la buona politica territoriale di Vienna. Maria Teresa aveva introdotto il catasto del quale ancora oggi non c’è traccia in gran parte del Sud Italia. Le grandi istituzioni culturali milanesi e lombarde risalgono all’epoca austriaca: il Teatro alla Scala, la Biblioteca di Brera, il Palazzo Reale, la Villa Reale di Monza. Solo dopo la definitiva partenza degli austriaci dalla Lombardia, nel 1859, i milanesi si accorsero di ciò che avevano perduto. Avevano rinunciato alla civile Austria per darsi alla torva e levantina Italietta, famosa in Europa come fedifraga e ladra di terre.
Pur ammettendo che nessun popolo ha maggiori diritti di un altro, Carlo Cattaneo riconosceva che se un popolo raggiunge traguardi più avanzati di incivilimento vuol dire che ha caratteri originari che lo distinguono dagli altri. Era il caso dell’Austria. Con l’Austria, prima del 1848, quando poi il Piemonte regio si impadronì della vittoria del popolo milanese, Cattaneo pensava di poter usare il linguaggio della ragione e non quello delle armi, e proponeva si rinunciasse ad ogni progetto insurrezionale per indurre il governo austriaco a concedere le riforme richieste. Restava fermo nel proprio convincimento, contrario alle “opere di violenza”, anche quando erano in gran parte conflitti per la libertà. Era convinto, senza sbagliare, che ai lombardi convenisse più la civilissima Austria che l’Italia della gabola e della truffa. Gli avessero dato retta, la Lombardia e il Veneto, riuniti sotto un unico scettro, avrebbero continuato a far parte dell’Impero e di un patrimonio di civiltà comune.
Radetzky appartiene alla storia, legittimamente anche alla nostra. Parlava perfettamente italiano, amava Milano, abitava in via Brisa, una piccola strada che incrocia l’attuale corso Magenta, amava le partite a carte, la buona tavola, le osterie popolari; conviveva con una milanesona, la Giuditta Meregalli, che faceva la stiratrice. Ogni mattina andava a piedi, senza scorta, fino al Castello e all’ingresso i mendicati gli andavano incontro ed egli, uomo di buon cuore, dava un obolo a tutti. Morì nel 1858 e volle restare a Milano, finchè gli avvenimenti politici glie lo consentirono. I suoi resti vennero traslati a Vienna nel 1859, quando la Lombardia, con il solito imbroglio italiano, venne annessa al Piemonte.
Leonardo Sciascia diceva che Milano è diversa perché ha avuto Maria Teresa e il dominio austriaco, lo diceva da siciliano; Napoli è quella che è perché ha avuto gli spagnoli e i Borboni. La differenza si vede. Stoffa diversa. Radeztzy era il leale difensore dell’Impero, di gran lunga il più civile e tollerante del nefasto regno d’Italia. Bava Beccaris è stato dimenticato, Radetzki vive nella memoria e nella devozione degli antichi ex sudditi dell’Impero.