venerdì 17 gennaio 2014

LA LOTTA PER LA RAPPRESENTANZA NELL'IMPERO ROMANO (di Eric Voegelin)

 
1.


Il capitolo precedente ha messo in luce che i problemi della rappresentanza non si esauriscono nell'articolazione interna di una società nell'esistenza storica. Si è constatato che la società, nel suo complesso, rappresenta una verità trascendente e, quindi, si è dovuto integrare il concetto di rappresentanza in senso esistenziale con il concetto di rappresentanza trascendentale, A questo punto, poi, si è profilata un'ulteriore complicazione, attraverso lo sviluppo della teoria come una verità relativa all'uomo, in competizione con la verità rappresentata dalla società. Ma neppure questa complicazione è l'ultima. I tipi competitivi di verità aumentano storicamente con la comparsa del cristianesimo. Tutti e tre questi tipi lottano per il monopolio della rappresentanza esistenziale nell'impero romano. Questa lotta sarà il tema centrale di questo capitolo; ma, prima di affrontare la trattazione del tema, è necessario chiarirne alcuni aspetti terminologici e teorici generali. Questo procedimento, che consiste nel circoscrivere in antecedenza le questioni generali, ci consente di evitare le ingombranti digressioni e spiegazioni che altrimenti interromperebbero la trattazione del tema politico vero e proprio.
Dal punto di vista della terminologia è necessario distinguere tre tipi di verità. Il primo, la verità rappresentata dagli antichi imperi, lo designeremo con l'espressione "verità cosmologica". Il secondo tipo di verità, che compare con la cultura politica di Atene, lo denomineremo "verità antropologica", con l'avvertenza che l'espressione si riferisce all'intero complesso di problemi relativi alla psiche come sensorio della trascendenza. Il terzo tipo di verità, che compare con il cristianesimo, sarà denominato "verità soteriologica".
La differenziazione terminologica fra il secondo e il terzo tipo è necessaria, in sede teorica, perché il complesso platonico-aristotelico di esperienze fu allargato in un punto decisivo dal cristianesimo. La novità introdotta da quest'ultimo può essere forse meglio intesa se si prende come punto di partenza la concezione aristotelica della philia politike, dell'amore politico.(1) Codesto amore è per Aristotele la sostanza della società politica: esso consiste nella homonoia, nel consenso spirituale fra gli uomini, ed è possibile solo nella misura in cui questi uomini vivono in conformità con il nous, cioè con la parte divina del loro essere. Tutti gli uomini sono partecipi del nous, sia pure con diversi gradi di intensità, e quindi l'amore degli uomini per il loro proprio io noetico fa del nous il vincolo comune che lì salda in unità (2). L'amicizia è possibile solo nella misura in cui gli uomini sono uguali nell'amore verso il loro io noetico; i vincoli fra disuguali, invece, sono per forza deboli. A questo proposito, Aristotele formulò la tesi che l'amicizia è impossibile fra Dio e l'uomo, proprio a causa della loro radicale ineguaglianza.(3)
L'impossibilità della philia fra Dio e uomo si può considerare tipica dell'intero ambito della verità antropologica. Le esperienze che i filosofi, mistici tentarono di compendiare in una teoria dell'uomo avevano in comune la caratteristica di porre l'accento sul momento umano dell'orientamento dell'anima verso la divinità. L'anima si volge a Dio, fisso nella sua immobile trascendenza; essa raggiunge la realtà divina, ma non riceve risposta dal trascendente. L'idea cristiana di un Dio che con la grazia si curva verso l'anima è completamente estranea all'orizzonte di queste esperienze, benché, per essere esatti, leggendo Fiatone si abbia continuamente l'impressione di essere prossimi alla scoperta di questa nuova dimensione.
L'esperienza della reciprocità nel rapporto con Dio, dell'amicitia in senso tomistico, della grazia che soprannaturalizza la natura umana, costituisce la caratteristica specifica della verità cristiana.(4) La rivelazione di questa grazia nella storia, attraverso l'incarnazione del Logos in Cristo, portò a conclusione l'incerto movimento dello spirito nei filosofi mistici. L'autorità critica sopra la vecchia verità della società, che l'anima si era conquistata con la sua apertura e il suo orientamento verso la misura invisibile, viene ora confermata dalla rivelazione della misura stessa. In questo senso, quindi, si può dire che il fatto della rivelazione è il suo stesso contenuto.(5)
Quando si parla in questi termini delle esperienze dei filosofi mistici e del loro compimento nel cristianesimo, si sottintende una concezione della storia che bisogna esplicitare. Si tratta del presupposto secondo cui la sostanza della storia sono le esperienze attraverso le quali l'uomo acquisisce la consapevolezza della propria umanità e, contemporaneamente, dei propri limiti. La filosofia e il cristianesimo hanno conferito all'uomo una statura che gli consente di ricoprire con efficacia nella storia il ruolo di contemplatore razionale e di dominatore pragmatico di una natura che ha perso i suoi terrori demoniaci. Ma con altrettanta efficacia storica vengono posti limiti all'umana grandezza: il cristianesimo infatti ha ridotto la dimensione demoniaca del mondo terreno al pericolo permanente di una caduta dallo spirito - di cui l'uomo è dotato solo per grazia di Dio - nell'autonomia del proprio io, dall'amor Dei nell'amor sui. L'intuizione che l'uomo, nella sua dimensione meramente umana, senza la fides formata, è il nulla demoniaco, è stata portata nel cristianesimo a quel limite estremo di chiarezza che tradizionalmente si chiama rivelazione.
Questo presupposto sulla sostanza della storia ha sulla teoria dell'esistenza umana nella società delle conseguenze che, sotto la pressione di una civiltà secolarizzata, anche filosofi di alta levatura talvolta esitano ad accettare. Abbiamo visto, per esempio, che Karl Jaspers considera l'era dei filosofi mistici - invece dell'era cristiana - come l'epoca più importante del genere umano, trascurando l'estrema chiarezza portata dal cristianesimo sul problema della conditio humana. Anche Henri Bergson ebbe esitazioni in proposito, benché nelle sue ultime conversazioni, pubblicate postume dal Sertillanges, egli sembri accettare le conseguenze della propria filosofia della storia.(6) Questa conseguenza può riassumersi nel principio che una teoria dell'esistenza umana nella società deve operare nel contesto di esperienze che sono state differenti nel corso della storia. C'è una stretta correlazione tra la teoria dell'esistenza umana e la differenziazione storica delle esperienze attraverso le quali quest'esistenza è pervenuta alla consapevolezza di sé.
Al teorico non è consentito trascurare alcuna parte di questa esperienza, per nessuna ragione; ne gli è consentito di collocarsi in una specie di punto di Archimede, al di fuori della sostanza della storia. La teoria è costretta dalla storia a marciare nel senso del processo di differenziazione delle esperienze. Poiché il massimo di differenziazione fu raggiunto attraverso la filosofia greca e il cristianesimo, ciò significa che, in concreto, la teoria è obbligata a muoversi entro l'orizzonte storico dell'esperienza classica e cristiana. Allontanarsi da questo massimo di differenziazione equivale a quel regresso teorico che causa i vari tipi di distorsione che Fiatone ha catalogato come doxa.(7) Tutte le volte che nella storia intellettuale moderna è stata scatenata una rivolta sistematica contro il massimo di differenziazione, si è caduti nel nichilismo anticristiano, nell'idea del superuomo con le sue numerose varianti - dal superuomo progressivo di Condorcet, al superuomo positivistico di Comte, al superuomo materialistico di Marx, al superuomo dionisiaco di Nietzsche. Questo problema delle distorsioni antiteoriche sarà trattato più dettagliatamente nella seconda parte di questo libro, nello studio dei moderni movimenti politici di massa. Ai nostri scopi immediati sono sufficienti i cenni di chiarimento qui forniti a proposito del principio della correlazione fra teoria e massimo di differenziazione delle esperienze, principio al quale si ispirerà la nostra analisi.

2.
Riprendiamo dunque l'analisi seguendo ancora il modo di procedere aristotelico e partendo ancora dall'autointerpretazione della società, con l'avvertenza, tuttavia, che l'autointerpretazione include ora le interpretazioni dei teorici e dei santi.
I vari tipi di verità, i platonici typoi peri theologias, entrati in competizione tra loro, divennero oggetto di classificazione formale. La più antica classificazione di cui ci è rimasta traccia precede l'era cristiana: è contenuta nelle Antichità di Varrone, opera completata intorno al 47 a.C. Una riclassificazione fu intrapresa verso la fine dell'era romana da sant'Agostino nella sua Civitas Dei. La correlazione tra le due opere è suggerita dal fatto stesso che la classificazione di Varrone ci è pervenuta attraverso il resoconto e la critica di sant'Agostino.(8)
Secondo il resoconto agostiniano, Varrone distinse tre tipi (genera) di teologia: la mitica, la fisica e la civile. (9) Quella mitica è la teologia dei poeti, quella fisica dei filosofi, quella civile dei popoli (10) o, secondo un'altra versione, dei principes civitatis (11) La terminologia greca, come pure la formulazione in dettaglio, rivela che Varrone non fu l'inventore della classificazione, ma la trasse invece da una fonte greca, probabilmente stoica.
Sant'Agostino adottò a sua volta i tipi di Varrone con alcune modifiche. In primo luogo, egli tradusse i qualificativi greci di mitica e fisica in quelli latini di favolosa e naturale, rendendo corrente il termine di "teologia naturale" tuttora in uso.(12) In secondo luogo, egli considerò il favoloso come parte della teologia civile per il carattere cultuale della poesia drammatica intorno agli dèi.(13) Il risultato fu che i tre generi di Varrone si ridussero a due, la teologia civile e la teologia naturale, Codesta riduzione non è priva di interesse, perché vi si vede molto chiaramente, attraverso vari intermediari, l'idea di Antistene che "secondo nomos ci sono parecchi dèi, mentre secondo physis ce n'è uno solo". In opposizione a physis, nomos abbraccia la cultura, sia poetica che -politica, in quanto opera dell'uomo; di qui quell'accentuazione dell'origine umana degli dèi pagani che deve aver sedotto sant'Agostino.(14) Infine, poiché il cristianesimo e la sua verità soprannaturale dovevano essere inclusi nei generi della teologia, ne risultò ancora una divisione tripartita di tipi, rispettivamente denominati teologia civile, teologia naturale e teologia soprannaturale.

3.
Le classificazioni sorsero in margine alla lotta per la rappresentanza, recando in sé la carica e la tensione dell'autoconsapevolezza e dell'opposizione. L'analisi di questa carica e di questa tensione è bene iniziarla riflettendo su un aspetto singolare della Civitas Dei, Il libro, dal punto di vista della sua funzione politica, fu un livre de circonstance. La conquista di Roma per mano di Alarico nel 410 d.C. aveva sconvolto la popolazione pagana dell'impero; la caduta di Roma era considerata una punizione degli dèi per l'abbandono del loro culto. La pericolosa ondata di risentimento sembrò richiedere un'organica critica e confutazione della teologia pagana in genere e delle argomentazioni contro il cristianesimo in particolare. La soluzione proposta da Agostino risultò singolare, perché assunse la forma di un attacco critico alle Antichità di Varrone, un libro che era stato scritto circa cinquecent'anni prima allo scopo di riaccendere nei romani la passione per la loro religione di stato. Questa passione non era certo cresciuta di molto dal tempo di Varrone e i non romani non erano certo più zelanti dei romani stessi. All'epoca di sant'Agostino, nella stragrande maggioranza, i pagani dell'impero seguivano i misteri di Eleusi, di Iside, di Attis e di Mitra, piuttosto che le divinità cultuali della Roma repubblicana. Ma, nonostante ciò, sant'Agostino, nella sua opera, accenna appena ai misteri, per sottomettere a critica dettagliata la teologia di stato, nei libri 6-7.
Ma, per capire questo comportamento apparentemente strano è inutile ricorrere alle statistiche dell'affiliazione religiosa: bisogna invece rifarsi alla questione della rappresentanza pubblica della verità trascendente. I fedeli della religione romana erano certamente un gruppo relativamente piccolo, ma il culto romano era rimasto il culto dello stato anche nella seconda metà del secolo quarto. Né Costantino né i suoi successori cristiani avevano ritenuto opportuno rinunciare alla funzione di pontifex maximus di Roma. Certo, sotto i figli di Costantino serie restrizioni furono introdotte in fatto di libertà dei culti pagani ma l'attacco decisivo venne soltanto sotto Teodosio, con il famoso editto del 380, che fece del cristianesimo ortodosso il credo obbligatorio di tutti i sudditi dell'impero, qualificò come stolti tutti i dissidenti e minacciò su di essi la collera eterna di Dio e la punizione dell'imperatore. (15) Prima di questa data, la legislazione imperiale in questioni religiose era stata applicata in maniera sporadica, com'era naturale, dato il carattere prevalentemente pagano dell'ambiente. D'altra parte, a giudicare dal susseguirsi delle norme legislative in argomento, tale applicazione dev'essere stata piuttosto blanda anche dopo il 380, In ogni caso, nella città di Roma, gli editti erano stati tranquillamente trascurati e il culto ufficiale era rimasto pagano. A questo punto, però, si portò l'attacco proprio contro Roma e il suo culto ufficiale. Nel 382 Graziano, imperatore di Occidente, rinunciò al titolo di ponfifex maximus, sollevando cosi il governo dalla responsabilità dei sacrifici a Roma; nello stesso tempo vennero anche abolite le dotazioni per il culto, sicché cessarono i costosi sacrifici e le costose celebrazioni. Inoltre, cosa ancora più importante, venne rimosso l'altare della Victoria dalla sala delle assemblee del Senato. Gli dèi di Roma non avevano più rappresentanza neppure nella capitale dell'impero.(16)
Con molta soddisfazione dei pagani, Graziano fu assassinato nel 383, la città si trovò sotto la minaccia dell'antimperatore Massimo e, a causa dello scarso raccolto, si profilò lo spettro della fame. Evidentemente, gli dei manifestavano in questo modo la loro collera e perciò l'occasione parve propizia per chiedere al giovane Valentiniano II l'abrogazione di quelle misure e, in particolare, il ripristino dell'altare della Victoria. La petizione del partito pagano fu consegnata in Senato all'imperatore nel 384 da Simmaco; ma il raccolto del 384 risultò eccellente e sant'Ambrogio, che perorava la causa cristiana, ne trasse un ottimo argomento.(17)
Nella sua perorazione Simmaco fece una nobile difesa della tradizione romana, fondata sull'antico principio del do ut des: affermò che l'abbandono del culto avrebbe portato al disastro, che in particolare non si doveva vilipendere la Victoria che aveva recato grandi benefici all'impero;(18) sostenne infine, con accento tollerante, che a tutti doveva essere consentito di onorare a proprio modo la divinità comune, (19) Sant'Ambrogio, nella sua replica, poté facilmente sbarazzarsi, come abbiamo accennato, del principio del do ut des (20) e fece rilevare che la nobile tolleranza di Simmaco appariva meno commovente se si poneva mente al fatto che, in pratica, essa comportava l'obbligo per i senatori cristiani di partecipare ai sacrifici alla Victoria.(21) Ma l'argomentazione decisiva era contenuta nella frase in cui era enunciato il principio della rappresentanza: "Mentre tutti gli uomini che sono sudditi del dominio romano servono (militare) voi imperatori e principi della terra, voi stessi servite (militare) Iddio onnipotente e la santa fede".(22) L'enunciazione sembra a prima vista identica a quella mongola dell'Ordine di Dio esaminata nel precedente capitolo, ma in realtà ne è l'inversione. La formulazione di sant'Ambrogio non giustifica la monarchia imperiale richiamandosi al potere monarchico di Dio, benché anche questo problema fosse divenuto acuto nell'impero romano, come vedremo più innanzi. In quella formulazione non si parla di dominio, ma di servizio. I sudditi servono il principe terreno come loro rappresentante esistenziale, e sant'Ambrogio non si fa illusioni sulla fonte del potere imperiale; sono le legioni che fanno la Victoria, egli annota sprezzantemente, non la Victoria che fa l'impero.(23) La società politica nell'esistenza storica comincia a mostrare tracce di temporalismo e a staccarsi dall'ordine spirituale. Al di sopra di questa sfera temporale del servizio reso dai sudditi si erge l'imperatore che serve soltanto Dio. L'appello di sant'Ambrogio non è rivolto all'imperatore in quanto tale, ma al cristiano cui tocchi in sorte di occupare quel soglio. Sant'Ambrogio ammonisce il cristiano che diventi imperatore a non prendere pretesto dall'ignoranza per lasciare che le cose vadano per la loro china; se anche non si mostra, come dovrebbe, effettivamente zelante nella sua fede, deve almeno rifiutare il suo assenso all'idolatria e ai culti pagani.(24)
Un imperatore cristiano sa che deve onorare solo l'altare di Cristo e che "la voce del nostro imperatore dev'essere l'eco di quella di Cristo".(25) Sant'Ambrogio, sia pure in termini un po' velati, non esita a minacciare di scomunica l'imperatore qualora accogliesse la richiesta del Senato.(26) La verità di Cristo non può essere rappresentata dall’imperium mundi, ma soltanto dal servizio di Dio.
Questi sono gli inizi di una concezione teocratica del potere in senso stretto, nella quale "teocratica" non implica l'esercizio del potere da parte del clero ma il riconoscimento della verità di Dio da parte di chi detiene il potere.(27) Questa concezione giunse a completa fioritura nella generazione successiva, con l'immagine agostiniana dell'imperator felix nella Civitas Dei (5,24-26). La felicità dell'imperatore non si può misurare in base ai suoi successi esterni di governo; sant'Agostino, anzi, si fa un dovere di segnalare i successi degli imperatori pagani e le sventure e morti violente di alcuni imperatori cristiani; la vera felicità dell'imperatore si può misurare solo dalla sua condotta cristiana sul trono, I capitoli sull'imperator felix sono il primo "Specchio del Principe"; essi sono la fonte della letteratura medievale ed hanno influenzato in maniera decisiva la teoria e la prassi del potere in Occidente, da quando Carlo Magno ne fece il proprio manuale,
Nella controversia relativa all'altare della Victoria, sant'Ambrogio ebbe la meglio. Negli anni successivi vennero introdotte altre restrizioni. Nel 391 un editto di Teodosio proibì tutte le cerimonie pagane nella città di Roma; (28) un editto dei suoi figli, nel 396, soppresse le residue immunità degli ierofanti e sacerdoti pagani; (29) un editto per tutta l'Italia del 407 soppresse ogni stanziamento per gli epula sacra e i giochi rituali, ordinò la rimozione delle statue dai templi, la distruzione degli altari e la destinazione dei templi ad usum publicum.(30) Quando nel 410 Roma cadde nelle mani degli invasori goti, il culto di Roma era ancora un problema vivo per le vittime colpite dalle recenti leggi antipagane e la caduta della città poté facilmente venire presentata, a fini di propaganda, come una vendetta degli dèi per le offese recate alla religione civile di Roma.

4.
A una domanda abbiamo risposto, ma intanto se ne presenta un'altra. I cristiani, in tutta questa vicenda non si preoccupavano affatto della salvezza delle anime dei pagani: erano impegnati in una lotta politica contro il culto pubblico dell'impero. Certo, l'appello di sant'Ambrogio era rivolto a cristiani che si trovassero sul trono e non ci possono essere dubbi sulla sincerità delle sue intenzioni, sol che si ricordi il suo scontro con Teodosio nel 390 a causa del massacro di Tessalonica. Tuttavia, quando l'imperatore è cristiano, finisce col mettere i pagani nella stessa condizione in cui si trovavano i cristiani sotto gli imperatori pagani. È strano che tanto sant'Ambrogio quanto sant'Agostino, pur essendosi impegnati con ogni loro energia nella lotta per la rappresentanza esistenziale del cristianesimo, abbiano ignorato quasi totalmente questo problema. Sembra quasi che per essi tutto si riducesse a contrapporre la verità del cristianesimo alla non verità del paganesimo. Ciò non significa che essi fossero del tutto ignari del problema esistenziale implicito in questa vertenza; al contrario, la Civitas Dei ha il suo fascino particolare proprio perché sant'Agostino, pur non comprendendo il problema esistenziale del paganesimo, si mostra tuttavia inquieto, perché ha l'impressione di trovarsi di fronte a qualcosa che sfugge alla sua comprensione. Il suo atteggiamento nei confronti della teologia civile di Varrone ha molti punti in comune con quello di un intellettuale illuminista nei confronti del cristianesimo; egli semplicemente non riusciva a capire come una persona intelligente potesse continuare a credere a simili insensatezze. Perciò cercò di aggirare la difficoltà, muovendo dal presupposto che Varrone, filosofo stoico, non credesse affatto nelle divinità romane ma che, sotto la parvenza di un tono rispettoso, cercasse in realtà di esporle al ridicolo.(31) Ma, per capire quanto sfuggiva a sant'Agostino, bisogna rifarsi ai testi di Varrone e del suo amico Cicerone.
Sant'Agostino stesso ci informa con precisione del punto oscuro che lo sconcertava. Varrone, nelle sue Antichità, si era occupato prima delle "cose umane" e solo in un secondo tempo delle "cose divine" di Roma.(32) Prima, la città deve esistere; poi, può procedere all'istituzione dei suoi culti. "Come il pittore è anteriore alla pittura e l'architetto all'edificio, così le città sono anteriori alle istituzioni delle città" (33). L'affermazione varroniana che gli dèi sono istituiti dalla società politica, irritava sant'Agostino, che non riusciva a comprenderla. Al contrario, egli sosteneva, "la vera religione non è istituita dalla città terrena", ma l'ispiratore della vera religione è il vero Dio, che "ha istituito la città celeste".(34) L'atteggiamento di Varrone sembrava poi particolarmente degno di biasimo per il fatto che le cose umane alle quali dava la precedenza non erano neppure universalmente umane, ma specificamente romane.(35) Inoltre, sant'Agostino dubitava della sincerità di Varrone, perché questi ammetteva che, se avesse avuto l'intenzione di trattare in maniera esauriente il problema della natura degli dèi, avrebbe dovuto cominciare l'opera trattando prima delle cose divine,(36) e inoltre sosteneva che in materia di religione ci sono molte cose vere che la gente non dovrebbe conoscere e molte false che la gente non dovrebbe sospettare.(37)
Ciò che sant'Agostino non riusciva a comprendere era la compattezza dell'esperienza romana, l'inseparabile convivenza di dèi e uomini nella concretezza storica della civitas, la simultaneità di istituzione, umana e divina, di un ordine sociale. Per lui, l'ordine dell'esistenza umana era già diviso tra la civitas terrena della storia profana e la civitas coelestis di istituzione divina. D'altra parte, bisogna riconoscere che le formulazioni in apparenza un po' grossolane dell'enciclopedico Varrone non facilitavano certo la comprensione. Cicerone, scrittore molto più preciso, espresse le medesime convinzioni dell'amico Varrone, ma con maggiore compiutezza concettuale, attraverso i protagonisti della sua opera De natura deorum, soprattutto attraverso il princeps civis e pontifex. Nel dibattito intorno all'esistenza degli dèi i punti di vista del filosofo si oppongono a quelli del leader sociale. Molto acutamente Cicerone indica le diverse fonti dell'autorità quando contrappone il princeps philosophiae Socrate (38) al princeps civis Cotta; (39) l’auctoritas philosophi si scontra con l'auctoritas majorum. (40) Il dignitario del culto romano non è incline a dubitare degli dèi immortali e della venerazione ad essi dovuta, checché possano dirne gli altri: in materia di religione egli segue i pontefici che lo hanno preceduto nella carica e non i filosofi greci. Gli auspici di Remolo e i riti di Numa posero le fondamenta dello stato che non sarebbe mai potuto pervenire alla grandezza raggiunta se i riti non avessero conciliato gli immortali in suo favore. (41) Egli accetta gli dèi sull'autorità degli antenati, ma è anche disposto ad ascoltare le opinioni degli altri e, non senza ironia, invita Balbo a fornire le ragioni, rationem, che come filosofo deve senz'altro avere, delle sue credenze religiose, mentre egli, in quanto pontefice, è costretto a credere senza ragione agli antenati.(42)
Le esposizioni di Varrone e di Cicerone sono documenti preziosi per lo studioso. I pensatori romani vivono il loro mito politico, ma nello stesso tempo ne hanno acquisito consapevolezza attraverso il contatto con la filosofia greca. Questo contatto non ha intaccato la solidità dei loro sentimenti: ha solo fornito ad essi i mezzi per una presa di coscienza della loro posizione. La presentazione che di solito si fa di Cicerone finisce col lasciare in ombra il fatto che, nella sua opera, si può trovare ben più di una semplice variante dello stoicismo: qualcosa che nessuna fonte greca può darci, cioè l'arcaica esperienza dell'ordine sociale prima che si dissolvesse nell'esperienza dei filosofi mistici. In realtà, le fonti greche non ci permettono mai di cogliere questo strato arcaico, perché i più antichi documenti letterari, i poemi di Omero e di Esiodo, sono già rielaborazioni, splendidamente libere, di materiale mitico - nel caso di Esiodo anche con una consapevole opposizione fra la verità trovata da lui stesso come individuo e la falsità, lo pseudos, del vecchio mito. Fu forse lo scompiglio provocato dall'invasione dorica a infrangere la compattezza dell'esistenza sociale greca, mentre Roma non subì mai uno choc analogo. Roma, infatti, conservò sempre un carattere di sopravvivenza arcaica nel contesto della civiltà ellenistica del Mediterraneo e, ancor più, con la sua crescente cristianizzazione: si potrebbe paragonare la sua situazione al ruolo attuale del Giappone ili un contesto culturale e civile dominato da idee occidentali.
I romani come Cicerone sì resero ben conto del problema. Per esempio, nel De re publica, Cicerone contrappose esplicitamente lo stile romano di trattare le questioni di ordine politico a quello greco. Nel dibattito sul migliore ordine politico (status civitatis) c'è un altro princeps civis, Scipione, che prende posizione contro Socrate. Scipione si rifiuta di discutere del migliore ordine alla maniera del Socrate platonico; invece di presentare al suo uditorio un ordine "fittizio" egli fa il racconto delle origini di Roma.(43) L'ordine di Roma è superiore a qualsiasi altro ordine: questo dogma è posto categoricamente alla base del dibattito.(44) La discussione può liberamente spaziare su tutti i temi del sapere greco, ma questo sapere ha importanza solo nella misura in cui può essere messo in rapporto di utilità con l'ordine romano. Certo, il massimo onore spetta all'uomo che può integrare il "sapere straniero" nelle sue costumanze avite; ma, se è necessario operare una scelta fra i due modi di vita, la vita civilis dello statista è preferibile alla vita quieta del saggio.(45).
Il pensatore che può parlare della filosofia come di un "sapere straniero" - da rispettare ma da considerare solo come una spezia che perfeziona una superiorità già data per scontata in partenza - mostra chiaramente di non aver capito né la rivoluzione spirituale espressa dalla filosofìa, né la sua pretesa all'universalità nei confronti dell'uomo. Il peculiare atteggiamento di Cicerone di fronte alla filosofia greca - un misto di rispetto e di divertito dispregio - mostra che la verità della teoria poteva sì essere concepita come un allargamento dell'orizzonte intellettuale e morale, ma non poteva avere alcun significato esistenziale per un romano. Roma era la Roma dei suoi dèi in ogni momento e in ogni aspetto della vita quotidiana; partecipare concretamente alla rivoluzione spirituale della filosofia significava riconoscere che la Roma degli avi era finita e che stava nascendo un nuovo ordine che avrebbe assorbito i romani, così come i greci, volenti o nolenti, erano stati assorbiti nelle strutture imperiali di Alessandro, dei Diadochi e finalmente di Roma. Solo che la Roma di Cicerone e di Cesare non era ancora al punto in cui si trovava l'Atene del secolo quarto a.C., che aveva generato Platone e Aristotele. La sostanza romana preservò intatto il proprio vigore per molto tempo ancora, fino al periodo imperiale e, di fatto, si andò esaurendo soltanto con i disordini del secolo terzo d.C, Solo allora Roma si lasciò assorbire nell'impero che essa stessa aveva creato e solo allora la lotta fra i vari tipi di verità (filosofie, culti orientali e cristianesimo) entrò nella fase cruciale, in cui il rappresentante esistenziale, l'imperatore, doveva decidere quale verità trascendentale intendeva rappresentare, dato che il mito di Roma aveva ormai perduto la sua forza ordinatrice. Per Cicerone problemi siffatti non esistevano e quando li incontrò in quello che egli chiamava "sapere straniero", ne annullò l'inesorabile minaccia: all'idea stoica che ogni uomo ha due patrie, la polis nella quale è nato e la cosmopolis, egli abilmente contrappose l'idea che ogni uomo ha due patrie, la contrada nella quale è nato (per Cicerone la sua Arpinum) e Roma (46). La cosmopolis dei filosofi riceveva un'esistenza storica; era l'imperium Romanorum (47).

5.
Il vigore della sua arcaica compattezza consentì a Roma di sopravvivere nella lotta per l'impero. Questa fortunata sopravvivenza, tuttavia, solleva uno dei grandi interrogativi della storia: come mai le istituzioni di Roma repubblicana - che in sé non erano più idonee all'organizzazione di un impero di quanto lo fossero le istituzioni di Atene o di qualsiasi altra polis greca - poterono adattarsi a tal punto alla nuova realtà che un imperatore poté emergere da esse come rappresentante esistenziale dell'orbis terrarum mediterraneo? Il processo di trasformazione è oscuro in molti aspetti e tale rimarrà per sempre, data la scarsità delle tonti. Tuttavia, l'accurata analisi che due generazioni di studiosi hanno svolto sugli scarsi materiali disponibili, ha permesso di ricostruire in maniera coerente quel processo. Se ne può trovare un esempio nell'acuto saggio "Sul principato" di Anton von Premerstein.(48)
Il maggiore sforzo di adattamento al potere imperiale non fu affatto sostenuto dalla costituzione repubblicana. Certo, il numero dei senatori poteva aumentare mediante nomine di provinciali, perché il Senato rappresentasse meglio l'impero (e questa strada era già stata seguita da Cesare); inoltre, si poteva concedere la cittadinanza romana a tutta l'Italia e poi ad altre provincie. Ma uno sviluppo della rappresentanza per via di elezioni su base popolare dalle provincie dell'impero era impossibile a causa di quella rigidezza costituzionale che Roma aveva in comune con le altre poleis. L'adattamento doveva far forza su istituzioni sociali estranee all'ambito costituzionale vero e proprio; l'istituzione più importante che al termine di questo sviluppo portò alla carica imperiale fu quella del princeps civis o princeps civitatis, del leader sociale e politico.
Nella primitiva storia repubblicana col termine di "principe" si designava qualsiasi cittadino autorevole. Alla base dell'istituzione c'era il patronato, un rapporto creato da favori vari - aiuto politico, prestiti, doni personali, ecc. - fra un uomo di importanza sociale e un uomo di rango sociale inferiore bisognoso di tali favori. Concedendo e accettando tali favori si instaurava tra i due uomini un vincolo sacro protetto dagli dèi; colui che accettava, il cliente, diveniva seguace del patrono e il loro rapporto era retto dalla fides, la fedeltà.
Ovviamente, data la natura del rapporto, il patrono doveva essere un uomo ricco e di un certo livello sociale. Una larga clientela era privilegio dei membri della nobiltà patrizio-plebea e i più importanti senatori di rango consolare erano anche i patroni più potenti. Codesti patroni più elevati nei ranghi ufficiali erano i principes civitatis; e uno di essi poteva diventare un leader di indiscussa superiorità se apparteneva ad una delle antiche famiglie patrizie e occupava la carica di princeps senatus e magari anche quella di pontifex maximus. La società romana si presentava così caratterizzata da una complicata trama di rapporti di subordinazione personale - gerarchicamente ordinata (in quanto i clienti potevano a loro volta essere patroni di una numerosa clientela) - e organizzata concorrenzialmente (in quanto i principes rivaleggiavano fra loro per la conquista delle alte cariche e del potere politico in genere).(49) In sostanza, la politica romana nel periodo tardo repubblicano fu caratterizzata dalla lotta per il potere fra ricchi leaders di partiti personali fondati sul rapporto di patronato. Fra codesti leaders erano anche possibili degli accordi, le cosiddette amicitiae; e la rottura di siffatti accordi apriva delle vere e proprie ostilità (inimicitiae), precedute da accuse reciproche (altercatio), che nel periodo delle guerre civili assunsero la forma di opuscoli propagandistici destinati al pubblico, nei quali era minutamente esposta la riprovevole condotta dell'avversario. Siffatte inimicizie si distinguevano dalle guerre vere e proprie, dal bellum justum del popolo romano contro un nemico pubblico. L'ultima guerra di Ottaviano contro Antonio e Cleopatra, per esempio, fu con gran cura giuridicamente impostata come una vera guerra contro Cleopatra e come una inimicitia contro Antonio e la sua clientela romana.(50)
La trasformazione del principato originario in poche grandi organizzazioni di partito fu determinata dall'espansione militare di Roma e dai mutamenti sociali che ne derivarono. Le guerre del secolo terzo, con le conquiste in Grecia, Africa e Spagna, avevano sollevato un complesso problema logistico. I territori d'oltremare non potevano essere conquistati e presidiati da eserciti che si dovevano rinnovare ogni anno in base al criterio della leva annua: risultò impossibile trasportare in patria ogni anno i vecchi contingenti e sostituirli con contingenti nuovi. Era fatale che i soldati in provincia diventassero soldati di professione, con dieci e venti anni di servizio. I veterani reduci costituivano una massa di persone senza casa, di cui bisognava prendersi cura con distribuzione di terre, con iniziative di colonizzazione o col permesso di risiedere entro la città di Roma e di goderne i relativi vantaggi. Per ottenere questi benefici i veterani dovevano contare sui loro comandanti militari che erano principes, col risultato che interi eserciti divennero parte della clientela di un princeps. L'aspetto più significativo dell'evoluzione della Roma tardo repubblicana è che la disciplina di classe della nobiltà resistette per un intero secolo prima che i nuovi potenti leaders dei partiti si volgessero contro il Senato e trasformassero la vita politica di Roma in una loro contesa privata. Inoltre, con l'enorme allargamento delle clientele ad opera di forze armate disponibili per la guerra e per le lotte di piazza, risultò necessario formalizzare questo vecchio rapporto informale: speciali giuramenti legarono il cliente al suo patrono coi vincoli della fides. Su questo punto le fonti sono estremamente scarse, ma è possibile trovar tracce di siffatti giuramenti, in sempre maggior numero e varietà, dopo il 100 a.C. (51) Va infine notato che la struttura del sistema venne determinata anche dal carattere ereditario della clientela. L'ereditarietà della clientela fu un fattore di considerevole importanza nel corso delle guerre civili del primo secolo a.C. Per esempio, agli inizi della sua lotta contro Antonio, Ottaviano ebbe il grande vantaggio di disporre delle colonie dei veterani di Cesare in Campania, divenute sua clientela in quanto erede di Cesare. (52) E la sistemazione delle clientele militari ottenute in eredità costituì anch'essa un pericolo di guerre. I pompeiani, per esempio, dovettero essere combattuti in Spagna, perché Pompeo aveva istituito colonie di suoi soldati nella penisola iberica.(53)
L'instaurazione del principato, quindi, si può considerare come una evoluzione del patronato - che tuttavia, nella sua forma più modesta, continuò a esistere a lungo anche nel periodo imperiale. Quando il patrono era un princeps civis, la clientela diventava strumento di potere politico e includendovi anche i veterani dell'esercito divenne strumento di potere militare in competizione con le forze armate costituzionali. Influenza politica, ricchezza e clientela militare si integrarono e si potenziarono a vicenda, in quanto l'influenza politica assicurava l'autorità militare necessaria, per la conquista di provincie e per il loro lucroso sfruttamento, sfruttamento necessario per distribuire bottino e terre alla clientela, clientela necessaria per conseguire l'influenza politica. Quando i competitori si ridussero a pochi leaders di grandi partiti, si giunse alla rottura della legalità costituzionale, specialmente quando senatori e magistrati si trovarono divisi fra le clientele dei vari competitori. Nella vita di tutti i grandi leaders di partito giunse il momento di decidere se oltrepassare o no il limite fra la legalità e l'illegalità: la più famosa di queste decisioni è il passaggio del Rubicone da parte di Cesare.(54) Ottaviano, politico freddo e calcolatore, preferì condurre la sua ultima guerra contro Antonio come una inimicitia, perché dichiarando Antonio nemico pubblico avrebbe provocato una eguale dichiarazione ai propri danni, dal momento che entrambi i consoli e parte del Senato patteggiavano per Antonio. Se si fossero dichiarati vicendevolmente nemici pubblici, Roma si sarebbe come spaccata in due stati ostili, in guerra fra di loro e questo sconvolgimento della Repubblica fin nei suoi fondamenti costituzionali avrebbe avuto le stesse disastrose conseguenze dell’analoga lotta a morte fra Cesare e Pompeo - con l'assassinio del leader vittorioso Panno successivo al suo trionfo, per mano di repubblicani nostalgici. Il principato, così, evolvette attraverso la riduzione dei grandi principes-patroni ai tre del triumvirato, poi ad Antonio e Ottaviano e infine alla monopolizzazione della posizione da parte del vincitore di Azio.(55)
L'ordine rappresentativo di Roma, dopo Azio, fu un'abile combinazione della vecchia costituzione repubblicana e della nuova rappresentanza esistenziale del popolo dell'impero da parte del princeps. Il rapporto diretto fra il princeps e il popolo fu garantito estendendo il giuramento clientelare al popolo nella sua totalità. Nel 32 a.C., Ottaviano, prima di intraprendere la lotta contro Antonio, pretese tale giuramento dall'Italia e dalle province occidentali (la cosiddetta congiura di Occidente): si trattò di un giuramento di lealtà reso a Ottaviano pro partibus suis, cioè a lui in quanto leader di un partito.(56) Per l'estensione del giuramento alle provincie orientali, dopo Azio, non abbiamo testimonianze dirette.(57) Comunque, il giuramento al princeps nella forma del 32 a.C. divenne una istituzione permanente. Esso fu prestato anche ai successori di Augusto in occasione della loro ascesa al potere (58) e, a partire da Caio Caligola, fu ripetuto annualmente.(59) Sulla base del patronato, l'articolazione di un gruppo costituito dal leader e dai suoi seguaci, si era andata via via allargando fino ad assumere la forma della rappresentanza imperiale.

6.
Il principato che, sulla base originaria del patronato, finì poi col diventare principato imperiale, fu l'istituzione che fece del nuovo capo il rappresentante esistenziale del vasto agglomerato di territori e popoli conquistati. Naturalmente, lo strumento era fragile. La sua efficacia dipendeva dall'esperienza del rapporto patrono-cliente come vincolo sacro nel senso romano. Il nuovo Augusto si rese conto del problema e la sua legislazione per la riforma morale e religiosa dev'essere interpretata, almeno in parte, come un tentativo di rafforzamento dei vincoli sacramentali che si erano andati indebolendo anche tra i Romani già all'epoca delle Antichità di Varrone. Nei confronti della enorme popolazione orientale, l'impresa era disperata, soprattutto perché gli orientali affluivano in numero sempre crescente a Roma e nonostante tutti i divieti manifestavano attaccamento ai loro culti non romani.
L'impresa risultò ancor più disperata, quando gli imperatori stessi non furono più romani, quando alla dinastia Giulia succedettero dalle provincie i Flavii, gli spagnoli, i siri e gli illirici.
Il rimedio alla scarsa sacralità della posizione dell'imperatore fu trovato solo gradualmente, dopo una completa serie di tentativi e d'insuccessi. La divinizzazione dell'imperatore, di tipo ellenistico, risultò insufficiente. Si doveva anche precisare quale potenza divina egli rappresentasse fra le innumerevoli che erano oggetto di culto nell'ambito dell'impeto. Sotto la pressione di questo problema la cultura religiosa del Mediterraneo romano subì quel processo che normalmente si definisce sincretismo o theokrasia, commistione di divinità. Non fu un fenomeno specifico di quel tempo e di quell'ambiente; in sostanza, si trattò dello stesso processo che avevano già conosciuto, in epoche diverse, gli imperi del vicino Oriente, del processo cioè per cui le molteplici divinità oggetto di culti locali, entrando nell'ambito di un'area politicamente unificata venivano reinterpretate quali aspetti di un unico dio, che diventava così il dio dell'impero. Nelle condizioni particolari dell'area romana, caratterizzata dalla compresenza di civiltà diverse, i tentativi di individuazione di quest'unico dio non furono facili. Da una parte, questo dio non poteva essere un'astrazione concettuale, ma doveva avere un rapporto afferrabile con uno o più divinità che già fossero concretamente venerate come divinità maggiori; dall'altra, se il rapporto con una divinità concretamente esistente fosse diventato troppo stretto, la sua superiorità sulle altre divinità particolari sarebbe stata compromessa. Il tentativo di Eliogabalo (218-222) di introdurre a Roma il Baal di Emesa come unico dio fallì. Un Cesare circonciso che sposava una vergine Vestale allo scopo di simboleggiare l'unione tra Baal e Tank ripugnava troppo alla tradizione romana. Egli fu assassinato dai suoi pretoriani. L'illirico Aureliano (270-275) compì un tentativo analogo, ma con più successo, quando proclamò il Sol Invictus, un dio sole dai connotati non troppo precisi, come unico dio dell'impero e se stesso come suo discendente e rappresentante. Con qualche variante introdotta sotto Diocleziano (284-305), questo sistema durò fino al 313 d.C.
Il fatto che il culto dell'impero fosse oggetto di sperimentazione non deve, tuttavia, indurci a pensare che mancasse un fondo di autentica religiosità in tutti gli esperimenti allora tentati. Spiritualmente, l'"unideismo" tardo romano si era talmente avvicinato al cristianesimo da rendere facilissimo, quasi ovvio, il passo della conversione. Ci è stata tramandata la preghiera pronunciata da Licinio prima della sua battaglia contro Massimino Daza nel 313. Un angelo apparve a Licinio nella notte e gli assicurò che avrebbe vinto se lui e il suo esercito avessero pronunciato questa preghiera:

Sommo Dio, noi ti preghiamo,
santo Dio, noi ti preghiamo.
Ogni giustizia noi affidiamo a te,
la nostra felicità noi affidiamo a te,
il nostro regno noi affidiamo a te.
Per te noi viviamo, per te noi siamo vittoriosi e fortunati.
Sommo Dio, santo Dio, ascolta le nostre preghiere.
Noi alziamo le nostre braccia verso di te,
ascoltaci, oh santo, sommo Dio.

La vicenda e la preghiera ci sono state tramandate da Lattanzio,(60) il quale sostiene pure che la vittoria fu dovuta a una conversione simile a quella di Costantino dell'anno precedente. Che Licinio fosse sinceramente cristiano è cosa almeno dubbia, se si riflette alla politica anticristiana da lui seguita negli anni successivi, ma la preghiera, che avrebbe potuto benissimo essere pronunciata dal suo rivale pagano Massimino, parve a Lattanzio una professione di fede cristiana.
Il significato preciso degli eventi che portarono alla sorprendente svolta del 311-313, assicurando libertà al cristianesimo, è ancora oggetto di discussione. Sembra tuttavia che la recente interpretazione del teologo olandese Hendrik Berkhof sia riuscita a chiarire la misteriosa vicenda, almeno per quanto lo consentono le fonti.(61) La sopravvivenza dei cristiani sotto le violente persecuzioni sembra abbia convinto i reggenti Galerio, Licinio e Costantino che il Dio cristiano era abbastanza potente da proteggere i suoi fedeli nelle avversità: che esso, quindi, era una realtà da trattare con cautela.
L'editto di Galerio del 311 spiegava che, per effetto delle persecuzioni, i cristiani ne’ adempivano ai loro obblighi cultuali verso gli dèi ufficiali, ne’ veneravano nella dovuta forma il proprio Dio.(62) Sembra che questa constatazione abbia determinato l'improvviso mutamento di politica. Il potente Dio dei cristiani, se non era venerato dai suoi fedeli, poteva vendicarsi e aggravare le difficoltà dei governanti che ne impedivano la venerazione. Era il saldo e buon principio romano del do ut des.(63) A compenso della nuova libertà loro concessa, l'editto imponeva ai cristiani di pregare per l'imperatore, per il bene pubblico e per il loro proprio bene.(64) Non si trattò, dunque, di una conversione al cristianesimo, ma piuttosto di un'inclusione del Dio cristiano nel sistema imperiale delle divinità.(65) L'editto di Licinio, del 313, affermava che la precedente politica anticristiana era stata modificata "affinchè tutto ciò che di divinitas esiste nel mondo celeste sia propizio a noi e a tutti coloro che sono da noi governati".(66) Il curioso termine di divinitas non era inconciliabile col politeismo ufficiale e con il riconoscimento del Summus Deus della religione dell'impero e, nello stesso tempo, presentava accenti abbastanza monoteistici da soddisfare i cristiani. La nebulosità di significato del termine era probabilmente intenzionale; sembra di potervi riconoscere l'abile mano di Costantino che più tardi, nel dibattito cristologico, insisterà sull'espressione, assolutamente priva di significato, di homoousios.

7.
Ma i problemi della teologia imperiale non potevano essere risolti per mezzo di un compromesso linguistico. La persecuzione contro i cristiani aveva un suo valido fondamento: nel cristianesimo era presente una carica rivoluzionaria che lo rendeva incompatibile col paganesimo. La nuova alleanza era destinata ad accrescere l'incidenza sociale di questa carica rivoluzionaria. Il cristianesimo era estremamente pericoloso per la sua radicale e intransigente dedivinizzazione del mondo. Il problema era stato formulato, forse più chiaramente che da ogni altro, da Celso, il più competente critico pagano del cristianesimo, nel suo Discorso veritiero del 180 circa d.C. I cristiani, egli lamentava, rifiutano il politeismo perché "non si possono servire due padroni".(67) Questo per Celso era un "linguaggio da sedizione (stasis)".(68) Quella regola, egli dichiarava, vale fra gli uomini, ma non si sminuisce per nulla Dio quando si rende omaggio alla sua divinità nelle molteplici manifestazioni del suo regno. Al contrario, noi onoriamo l'Altissimo quando rendiamo onore a molti di coloro che appartengono a lui, (69) mentre, isolando dagli altri un solo dio e rendendo omaggio a lui solo, noi introduciamo lo spirito di parte nel regno divino.(70) Questo atteggiamento può essere assunto soltanto da uomini che si dissociano dall'umana società e trasferiscono su Dio le loro passioni faziose. (71) I cristiani, dunque, sono faziosi in religione e in metafisica, e la loro sedizione è diretta contro la divinità che anima armoniosamente il mondo intero in tutti i suoi comparti. E poiché i vari comparti della terra furono fin dall'origine assegnati a vari spiriti reggenti e potentati sovrintendenti,(72) la sedizione religiosa è anche una rivolta politica. Chi vuole distruggere il culto nazionale vuole distruggere la cultura nazionale.(73) E poiché i culti sono tutti inseriti nell'impero, l'attacco sferrato contro i culti da parte di monoteisti radicali è un attacco contro l'edificio stesso dell’imperium Romanum. Certo, anche secondo Celso, sarebbe desiderabile che gli asiatici, gli europei, i libici, gli elleni e i barbari concordassero in un unico nomos, ma, aggiunge sprezzantemente, "chiunque lo ritiene possibile dimostra di non capire niente".(74) Nella sua opera Contra Celsum, Origene replicò che la cosa non solo era possibile, ma si sarebbe certamente realizzata (75). Celso sembra, in realtà, essersi reso conto delle implicazioni del cristianesimo ancor più chiaramente di quanto Cicerone si fosse reso conto delle implicazioni della filosofia greca. Egli comprese il problema esistenziale del politeismo e capì che la dedivinizzazione cristiana del mondo significava la fine di un ciclo di civiltà ed era destinata a trasformare radicalmente le culture etniche dell'epoca.

8.
La convinzione che il cristianesimo potesse venire utilizzato a sostegno della teologia politica dell'impero, da solo o in combinazione con la concezione di un Summus Deus, doveva ben presto incontrare una smentita sul piano concreto.
Tuttavia, quella convinzione poté affermarsi perché trovò appoggio in una certa tendenza cristiana a interpretare l'unico Dio del cristianesimo nel senso di un monoteismo metafisico.(76) Intraprendere siffatto esperimento poteva essere una comprensibile tentazione, sulla scia delle religioni orientali che si erano trovate inglobate nell'ambiente ellenistico e avevano cominciato a esprimersi col linguaggio della speculazione greca.
In realtà, lo sviluppo cristiano in questa direzione non fu originale, ma segui l'esempio di Filone Giudeo, il quale aveva già a propria disposizione le speculazioni peripatetiche del primo secolo avanti Cristo. Nella sua Metafisica, Aristotele aveva formulato il principio: "Il mondo non vuole essere governato male; il governo di molti non è buono, uno solo dev'essere il Signore". Nella letteratura peripatetica immediatamente anteriore a Filone, di cui l'esempio più significativo a noi pervenuto è lo pseudo-aristotelico De mundo, questo principio aveva trovato elaborazione nelle grandi costruzioni parallele della monarchia imperiale e della monarchia divina del mondo.(78) Il divino sovrano monarchico del cosmo governa il mondo per mezzo di rappresentanti a lui subordinati, come il gran re persiano governa il suo impero per mezzo dei satrapi dislocati nelle provincie.(79) Filone adattò questa costruzione al monoteismo giudaico per avere uno strumento di propaganda politica che rendesse attraente il giudaismo come culto di un solo dio nell'impero.(80) Seguendo, a quanto pare, una fonte peripatetica, egli fece del Dio giudaico una specie di "re dei re" di tipo persiano, relegando tutti gli altri dèi al rango di subalterni.(81) Egli ebbe cura di mantenere gli ebrei nella posizione di popolo eletto, ma li liberò accortamente dalla loro impasse metafisica facendo dell'omaggio a Geova l'omaggio al Dio che regge il cosmo nel senso peripatetico.(82)
Egli si richiamò anche al Timeo di Platone per fare di Geova il Dio che istituisce l'ordine (taxis) del mondo in senso costituzionale.(83) Gli ebrei, rendendo omaggio a questo Dio, rappresentano il genere umano. E, citando il passo della Metafisica di Aristotele con il suo verso omerico, Pilone insiste nel dire che quel verso deve essere considerato valido sia per il governo cosmico che per il governo politico.(84)
La speculazione filoniana fu accettata dai pensatori cristiani (85). L'adattamento alla situazione dei cristiani nell'impero raggiunse il suo pieno sviluppo con Eusebio di Cesarea, al tempo di Costantino.(86) Eusebio, come molti pensatori cristiani prima e dopo di lui, fu colpito dalla coincidenza della venuta di Cristo con la pacificazione dell'impero ad opera di Augusto. La sua complessa opera storica è determinata in parte dal suo interesse per il provvidenziale soggiogamento romano di nazioni in passato indipendenti. Quando Augusto pose fine all'esistenza autonoma delle varie entità politiche dell'area mediterranea, gli apostoli del cristianesimo poterono muoversi indisturbati per tutto il territorio dell'impero e predicarvi il Vangelo: essi non avrebbero certo potuto svolgere la loro missione se la collera dei "fanatici della polis" non fosse stata tenuta a freno dalla paura della potenza romana.(87)
Per Eusebio la pax romana non ebbe solo un'importanza pratica per la diffusione del cristianesimo, ma parve anzi strettamente connessa con i misteri del regno di Dio. Nell'epoca preromana, egli affermava, le popolazioni non vivevano in una vera comunità, ma erano impegnate in continue guerre fra loro. Augusto liquidò questa poliarchia pluralistica e con la sua monarchia portò la pace sulla terra, dando così adempimento alle predizioni bibliche di Mieti. 4,4 e di Sal. 71,7. Insomma, le profezie escatologiche sulla pace del Signore furono politicizzate da Eusebio che le riferì a una pax romana che coincise storicamente con la manifestazione del Logos.(88) Infine, Eusebio reputava che l'opera iniziata da Augusto dovesse essere portata a compimento da Costantino, nella sua monarchia imperiale ha imitato la monarchia divina.
Nel suo Discorso dei Tricennalia egli loda Costantino, perché l'unico basileus in terra rappresenta l'unico Dio, l'unico re dei cieli, l'unico Nomos e Logos. (89) Abbiamo qui un ritorno alla rappresentanza imperiale della verità cosmica.
Siffatta armonia, naturalmente, non poteva durare: essa era destinata a finire appena dei cristiani un po' più sensibili avessero affrontato il problema. La questione giunse a una svolta decisiva con la controversia cristologica. Gelso se l'era presa con i cristiani perché non prendevano sul serio il proprio monoteismo ed avevano un secondo Dio, che era Cristo.(90) Era questa la questione cruciale del dibattito cristologico sollevato dall'eresia di Ario. Si dovettero trovare i simboli interpretativi dell'unico Dio come trino ed uno e, con la piena affermazione del trinitarismo, costruzioni del tipo di quella di Eusebio non poterono più sopravvivere. Ovviamente, gli imperatori e i teologi di corte propendevano per la concezione ariana: il dibattito trinitario, difatti, minacciava seriamente l'ideologia monoteistica sulla quale si fondava la concezione dell'imperatore come rappresentante dell'unico Dio.
Quando la resistenza di Atanasio e degli occidentali fece trionfare il simbolismo trinitario, caddero le speculazioni sul parallelismo tra la monarchia del cielo e della terra. Si continuò a parlare di una monarchia divina, ma l'espressione acquistò un nuovo significato. Gregorio Nazianzeno, per esempio, affermava che i cristiani credevano nella monarchia divina ma - si affrettava a precisare - essi non credono nella monarchia di una sola persona nella divinità, perché tale divinità sarebbe fonte di discordia; i cristiani credono nella trinità, e questa trinità di Dio non ha alcunché di analogo nel creato.
L'unica persona del monarca imperiale non può rappresentare la divinità trina e una.(91) L'impossibilità, alla quale ormai si era pervenuti, di utilizzare in politica l'idea di un Dio trinitario è messa in evidenza da un episodio che risale al regno di Costantino IV Pogonato (668-685): l'esercito pretese che egli desse ai suoi due fratelli la carica di coimperatori per avere in terra una rappresentanza della trinità divina.(92) Sembra una battuta umoristica ed era forse inevitabile che nel corso degli eventi la seconda e la terza persona della trinità imperiale venissero drammaticamente liquidate.
L'altra brillante idea di Eusebio, quella cioè di riconoscere nella pax romana l'adempimento di profezie escatologiche (un'idea che ricorda da vicino la propensione ciceroniana a veder realizzato da Roma l'ordine perfetto dei filosofi), finì anch'essa sotto le pressioni di un'epoca agitata. Tuttavia, il commento di sant'Agostino alla profezia di Sal. 45,10 può servire come chiara attestazione della posizione ortodossa contraria. Il testo biblico afferma: "Egli fa cessare le guerre fino al limite estremo della terra". Sant'Agostino commenta: "Noi non vediamo ancora adempiuto tutto ciò; abbiamo ancora guerre. Fra le nazioni ci sono guerre per il predominio. E ci sono anche guerre fra le sètte, fra ebrei, pagani, cristiani ed eretici, e queste guerre sono persino in aumento; da una parte ci si batte per la verità, dall'altra per la menzogna. Non si è affatto avverata la cessazione delle guerre fino al limite estremo della terra; ma forse, almeno speriamo, lo sarà in futuro".(93)
Così finisce la teologia politica nel cristianesimo ortodosso. Il destino spirituale dell'uomo nel senso cristiano non può essere rappresentato sulla terra dall'organizzazione di potere di una società politica; esso può essere rappresentato solo dalla Chiesa. La sfera del potere è sottoposta a una dedivinizzazione radicale: è diventata temporale. La duplice rappresentanza dell'uomo nella società, attraverso la Chiesa e l'impero, durò per tutto il Medioevo. I problemi moderni della rappresentanza sono connessi con il processo di ridivinizzazione della società. I tre capitoli successivi saranno dedicati all'esame di questi problemi.

NOTE
1 ARISTOTELE, Etica Nicomachea, ll67b3-4.
2 Ibid., 1166a1 ss.; 1167a22 ss.; 1177a12-18; 1177b27-1178a8.
3 Ibid.. 1158b29-1159a13.
4 SAN TOMMASO, Contra Gentiles, 3,91.
5 Questa concezione della rivelazione e della sua funzione in una filosofia della storia è molto più compiutamente sviluppata in H. RICHARD NIEBUHR, The Meaning of Revelation, New York 1946, spec. alle pp. 93, 109 ss.
6 A.D. SERTILLANGES, Avec Henri Bergson, Parigi 1941,
7 La dipendenza di ogni progresso della teorizzazione dal processo di differenziazione delle esperienze della trascendenza è diventata un grosso problema nella storia delle idee. La superiorità teorica come fattore della vittoria del cristianesimo sul paganesimo nell'impero romano è, per esempio, fortemente sottolineata in CHARLES N. COCHRANE. Cristianity and Classical Culture: A study of Thought and Action from Augustus to Angustine, New York 1944, spec. nei cc. 11 e 12. La superiorità tecnica della metafisica cristiana sulla greca è analizzata con molto acume in ÉTIENNE GILSON, L'Esprit de la philosophie medievale (trad. it.: Morcelliana, Brescia 1947), specialmente nei cc. 3-5. La continuità di sviluppo dall'esplicazione teorica greca alla cristiana delle esperienze della trascendenza, d'altra parte, è stata messa in evidenza da WEBNER JAEGER, Theology of the Early Greek Philosophers, Osford 1947. In questo dibattito contemporaneo è riemerse alla luce il grosso problema della praeparatio evangelica, sollevato da Clemente di Alessandria quando si richiamava alla sacra Scrittura e alla filosofia greca come ai due vecchi Testamenti del cristianesimo (Stromates, 6). Su questo problema, si veda pure SERGE BOULGAKOF, Le Paraclet, Parigi 1946, pp. 10 ss.
8 Una ricostruzione parziale dell'opera di Varrone sulla base del resoconto agostiniano si trova in R. AGAHD, De Varronis rerum divinarum libris I, XIV, XV, XVI, Lipsia 1896.
9 SANT'AGOSTINO, Civitas Dei, ed. Dombart, 6, 5.
10 Ibid.
11 Ibid.. 4,27.
12 Ibid., 6,5. Sull'uso agostiniano del termine "teologia naturale", cfr. Jaeger cit., pp. 2 ss.
13 Ibid., 6,6.
14 Si veda, su questa questione, Jaeger cit., p. 3, nn. 8-10. La classificazione di Antistene, insieme con le relative citazioni in Minucio Felice, Lattanzio e Clemente di Alessandria, si trovano in EDUARD ZELLER, Die Philosophie der Griechen, II/1, 5a ed., Lipsia 1922, 329, n. 1.
15 Codex Theodosianus, 16.1,2.
16 Sulla vicenda dell'altare della Victoria, fr. HENDRIK BERKHOF, Kirche und. Kaiser: Eine Vntersuchung der Entstehung der byzantinischen und der theokratischen Slaatsauffassung im vierten Jahrhundert, trad. di Gottfried W. Locher, Zollikon-Zurigo 1947, pp. 174 ss.; GASTON BOISSIER, La fin du paganisme, vol. II, 2a ed., Parigi 1894.
17 SANT'AMBROGIO, Epistolae, 17 e 18. La Relatio Symmachi urbis praefecti è pubblicata in appendice alla Lettera 17 di Ambrogio (Migne, PL 16).
18 Relatio Symmachi, 3-4.
19 Ibid., 6 e 10.
20 SANT'AMBROGIO, Epistolae, 18,4 ss.
21 Ibid., 17,9.
22 Ibid., 1.
23 Ibid., 18.30.
24 Ibid., 17,2.
25 Ibid., 18,10.
26 Ibid., 17,14-
27 Sulla lotta per la teocrazia in questo senso cfr. Berkhof cit., c. VIII: Um die Theokratie.
28 Codex Theodosianus, 16,10,10.
29 Ibid., 10,14.
30 Ibid., 19.
31 SANT'AGOSTINO, Civitas Dei, 6,2.
32 Ibid., 3.
33 Ibid,, 4.
34 Ibid.
35 Ibid.
36 Ibid., 4,31: 6,4.
37 Ibid.. 4,31.
38 CICERONE, De natura deorum. 2,167.
39 Ibid.. 168
40 Ibid., 3,5.
41 Ibid.
42 Ibid., 6. 156
43 CICERONE, De re publica, 2,3.
44 Ibid., 1.70; 2,2.
45 Ibid., 3,5-6.
46 CICERONE, De legibus, 2.5.
47 Una tendenza verso questa identificazione si riscontra, prima di Cicerone, soprattutto in Polibio (cfr. HARRY A. WOLFSON, Philo, Cambridge, Mass. 1947, II, 419 ss.).
48 ANTO VON PREMERSTEIN, Vom Werden und Wesen des Prinzipats, ed. Hans Volkmann ("Abhandlungen der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, Phil.-hist. Abt., Neuc Folge", Hett 15, Monaco 1937).
49 Ibid., pp. 15-16
50 Ibid. p.37
51 Ibid., pp. 26 ss.
52 Ibid., p. 24.
53 Ibid., pp. 16 ss.
54 Ibid., pp. 24 ss.
55 Ibid., pp. 37.
56 Ibid., pp. 42 ss.
57 Ibid., p. 52.
58 Ibid.. pp. 56 ss.
59 Ibid,, pp. 60 ss.
60 De mortibus persecutorum, 46.
61 Op.cit., pp. 47 ss.
62 Lattanzio cit., 34: "cum... videremus nec diis eosdsm culturn ac religionem debitam exhibere, nec Chrìstianorum Delira observare".
63 Berkhof cit., p. 48.
64 Lattanzio cit., 34 in fine.
65 Un'interpretazione simile si può trovare in JOSEPH VOGT, Constantin der Grosse und sein Jahrhundert, Monaco 1949, pp. 154 ss.
66 Ibid., 48. Come Berkhof cit., p. 51, seguo la lezione "quidquid est divinitatis in sede coelesti".
67 ORIGENE, Contra Celsum. 7,68.
68 Ibid., 8,2.
69 Ibid.
70 Ibid., 11
71 Ibid., 2
72 Ibid. 5, 25
73 Ibid. 26
74 Ibid. 8,72
75 Ibid.
76 Sul monoteismo metafisico e sulla sua funzione nella teologia politica dell'impero romano cfr. ERIK PETERSON, Der Monotheismus als politisches Problem: Ein Beitrag zur Geschichte der politischen Theologie im Imperium Romanum, Lipsia 1935. Nella mia analisi seguo molto da vicino quella del Peterson.
77 ARISTOTELE, Metafisica, 1076a.
78 Il De mundo risale al primo secolo avanti Cristo. Se poi risalga esattamente al periodo in cui visse Filone è cosa che non ha importanza ai nostri fini, dato che ci interessano soltanto i suoi contenuti tipici.
79 De mundo, 6.
80 Sulle finalità politiche di Pilone cfr. Peterson cit., p. 27; ERWIN K. GOOD-ENOUGH, The Politics of Philo Judaeus, New Haven 1938 e, dello stesso autore, An Introduction to Philo Judaeus, New Haven 1940, e. in.
81 FILONE, De specialibus legibus, 1,13,18,31; De decalogo, 61.
82 Peterson cit., pp. 23 ss. In De Abrahamo, 98 si parla degli ebrei come della nazione a più cara a Dio "e si attribuiscono ad essi i doni del sacerdozio e della profezia sa vantaggio dell'intero genere umano"; in De spec. leg., 167 gli ebrei che pregano sono considerati rappresentativi dell'intero genere umano; in De spec. leg., 97 il sommo sacerdote degli ebrei prega e rende grazie non solo per il genere umano ma per l'intero creato.
83 FILONE, De fuga et inventione, 10. Sul trapasso dal significato platonico di taxis al significato di ordine costituzionale, cfr. Peterson cit., pp. 28-29.
84 FILONE, De confusione liguarum, 170.
85 Sulla recezione della speculazione filoniana sulla monarchia divina nella letteratura apologetica cristiana, cfr. Peterson cit,, pp. 34-42.
86 Su Eusebio, cfr. Peterson cit., pp. 71-76 e Berkhof cit., pp. 100-101.
87 EUSEBIO, Demonstratio evangelica, 3,7,30-35.
88 Ibid., 7,2,22; 8,3,13-15; Peterson cit., pp. 75-77.
89 EUSEBIO, Laus Constantini, 1-10; Peterson cit., p. 78; Berkhof cit., p. 102.
90 ORIGENE, Contra Celsum, 8,12-16.
91 Peterson cit., pp. 96 ss.
92 KAKL KRUMBACHER, Geschichte der byzantinischen Litteratur, 2a ed.. Monaco 1897, p. 954; E.W. BROOKS, The Successors of Heraclius fo 717, CMH, II, 13, p. 405; Berkhof cit., p. 144. Il solo altro esempio di un'applicazione della Trinità al governo imperiale, per quanto ne so, sono i Versus Paschales di Ausonio, del 368 d.C. o di poco posteriori. In questo poema pasquale la Trinità appare rappresentata in terra da Valentiniano I e dai suoi coimperatori Valente e Graziano (Ausonio, "Loeb Classical Library", I, 34 ss.).
93 SANT'AGOSTINO, Enarratio in Psalmos, 45,13.