mercoledì 5 febbraio 2014

La morte di Eugenio Corti

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È morto ieri Eugenio Corti, uno dei più grandi scrittori cattolici del XX secolo. Penso all’ultima volta che l’ho visto e ai suoi occhi limpidi e profondi. Occhi da bambino, nonostante i novant’anni suonati.
Eugenio Corti era, come amava dire, un «paolotto», ossia un cattolico praticante che fa della fede il centro della propria vita. Una fede concreta, tangibile. Da questa fede, e da una promessa fatta alla Madonna durante la vigilia di un Natale di guerra (quello del 1942), è nato il suo capolavoro letterario: Il cavallo rosso. Più di mille e duecento pagine nelle quali è possibile sentire i boati dei cannoni, le voci esili delle vecchie che sgranano il rosario per chiedere alla Madonna di far tornare i loro nipoti dalla guerra, annusare il «buon odore verde» dell’erba appena tagliata e il profumo dorato dell’incenso; toccare la soffice neve di Russia, le morbide colline della Brianza e le bollenti dune africane; soffrire assieme ai soldati e, con loro, pregare Dio di poter tornare a casa sani e salvi; vivere i «giorni dell’odio» e della speranza. Il cavallo rosso è – come l’Iliade e l’Odissea di Omero (autore estremamente amato da Corti) – un poema epico ovvero «un complesso di vicende divine, eroiche ed umane», secondo la definizione di Svetonio.
La grandezza di Corti sta nel raccontare le vicende di un mondo imperfetto – certamente non utopistico – in cui il lettore però vorrebbe vivere. La parola «guerra» è forse quella più ripetuta nel romanzo. Corti, da buon cattolico, è consapevole che il Male esiste perché esiste il peccato originale e, sempre da buon cattolico, sa che il Bene e la Fede sono più forti della malvagità. Come dice san Paolo nella Lettera ai romani: «invece, se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere; perché, così facendo, accumulerai dei carboni ardenti sulla sua testa. Non ti lasciar vincere dal male, ma vinci il male con il bene».
La fede di Corti era “pratica”, utile per affrontare ogni momento della vita. Sia esso di gioia o di sofferenza. Una delle più belle pagine scritte da Corti riguarda proprio il dolore, il cui unico antidoto è la fede. Ambrogio, uno dei personaggi de Il cavallo rosso, è a casa dell’amico Michele Tintori, che ha il padre inchiodato su una carrozzina.
«Dopo essersi nuovamente alzato in piedi, e avergli stretta la mano, Ambrogio l’osservò  allontanarsi attraverso la fanghiglia del piccolo cortile, crocifisso alla poltrona dalle ruote quasi di bicicletta.
“Tu lo vedi in quello stato da quando sei nato, vero?”
Il Tintori figlio annuì. “Non cambierei il mio con nessun altro padre al mondo” disse.
“A scuola ci hanno insegnato il perché del dolore, il suo ruolo nell’economia della salvezza di tutti, eccetera. Ma a trovarcisi dentro non so” fece Ambrogio.
Il Tintori continuò ad annuire: “A trovarcisi dentro si benedicono quelle spiegazioni” disse. E abbassando un po’ la voce: “Non sono ragioni umane quelle: a scuola ci hanno semplicemente trasmesso ciò che Cristo ha insegnato prima di consegnarsi ai carnefici che lo mettessero in croce. Mio padre dà una mano a Cristo” improvvisamente gli si gonfiarono gli occhi: “continua la passione di Cristo, ed è cosciente di farlo”».
Ma qual è la fonte da cui si spande la fede dello scrittore? È la Messa di sempre, così ben descritta in una pagina immortale de I più non ritornano: «Col buio il Secondo gruppo venne a schierarsi dietro al nostro costone, e noi rientrammo in esso. Il giorno dopo, 9 luglio, domenica, mi destai che il sole era già spuntato: non un colpo, una gran calma regnava e nessuno sembrava curarsi della battaglia in sospeso. Don Romano, cappellano del reggimento, venne da noi a celebrare la messa. La seguì l’intero gruppo, con i reparti inquadrati in un campo di stoppie; dalla conca della battaglia e dalla vista di Filottrano ci defilava il solito costone. Luminoso era il sole, e il cielo di un bell’azzurro; vividi i colori di tutte le cose. Il robusto cappellano compì i gesti del sacrificio davanti all’altare da campo, facendolo traballare ogni volta che, ancora più massiccio per gli spiegazzati paramenti d’oro, lo sfiorava nel muoversi; allora, come al solito, la mano del suo attendente che pronta lo bloccava. Sull’altare pochi lini rigidi, e due candele con le fiammelle in permanenza orizzontali per lo spirar dell’aria. In noi che assistevamo, il pacifico senso, come sempre, dell’incommensurabile grandezza di ciò che si compiva in quel campo di stoppie, tra la terra e il cielo, e la semplicità del luogo, e di quei quattro lini, e del povero calice. Come queste cose fatte di materia, si addicessero a contenere la Presenza immateriale. Anche se noi sentivamo di essere, nonostante le nostre miserie, i viscidi peccati della carne, le bestemmie e le idiozie che ci uscivano a volte dalla bocca, vasi contenitori di Dio. Potevamo muovere con le nostre miserabili mani, per Uno che ce ne aveva acquistato il diritto, leve che andavano oltre gli abissi quasi inimmaginabili delle cose e delle energie: i milioni d’anni luce e la somma delle forze dell’universo. Tutto, dentro e fuori di noi, era come tutte le messe al campo, quella mattina. Si trattava però dell’ultima messa del nostro cappellano, che in giornata sarebbe stato straziato a morte. Non poteva saperlo, e nessuno si rendeva conto di quanto egli fosse simile al Cristo che nelle sue mani si sacrificava sull’altare: era simile all’inconscio agnello, mansueto e parato d’oro, che sta per essere sacrificato».

Matteo Carnieletto (http://radiospada.org/)