martedì 4 febbraio 2014

Conte Clemente Solaro della Margarita : La religione applicata a beneficio dei popoli (Prima Parte)

 

Conte Clemente Solaro della Margarita.



LEZIONI DI POLITICA
raccolte fra le sue principali opere

CAPITOLO II
RELIGIONE E POLITICA
2) La religione applicata a beneficio dei popoli

I. [...] Hanno bel dire certi banditori di moderne dottrine che la politica delle umane società si regge colle sue proprie leggi, che queste emanano dal volere delle genti che le cambiano e le migliorano, che alla religione si deve provvedere, ma sempre in modo agli interessi temporali consentaneo, ed impedir che per soverchio zelo o fanatismo, l'azione del poter civile si contrasti, tanto meno poi far di essa il principale oggetto di politici documenti. [...]
II. La verità è una, la sola verità insegna vie sicure, essa sola non cambia mai; lo confermo coll'autorità non d'un dottor della Chiesa, ma di Aristotile: "Eorum quae semper sunt et aeterna, principio verissima semper sint necesse est". ( Meth., lib.1)
III. [...] Ciòche in nessuna Nazione, in nessun tempo fu posto in dubbio è, per la tristizia del secol nostro se non ricisamente negato, considerato colla massima indifferenza, e sentiam dire da molti che pur pretendono aver senno e coscienza che il sentimento religioso sia pur utile negli individui, la società può reggersi sopra altre basi. Questi spropositi si pronunciano da coloro che si formano un'idea di felicità materiale piu' dissimile da quella dei bruti quando non manca loro il pasto e la libertà di sfogare i loro appetiti.[...]
IV. Non basta in un uomo di Stato professare la religione; conviene che co' suoi atti la faccia rispettare, e ne procuri l'incremento; è suo dovere sottomettersi alla Chiesa, farne osservare le leggi, e prestar al Vicario di Gesù Cristo quell'ossequio cui è ogni cattolico astretto, [...]
V. [...] Io non conosco la storia di alcuna Nazione il cui Governo abbia a lungo, e pel seguito di più generazioni perseverato nelle vie giuste, e non evvi perciò esempio di Nazione, che sia stata costante nelle medesime e sia perita. Ciò prova più che ogni altra cosa che i popoli se non furono felici a lungo mai, è perchè non furono mai per lungo periodo di anni retti con quella sapienza che tanto più è alta, quanto meno all'umano filosofismo attinge. Questo fa pompa di regni felici che sotto le sue bandiere hanno apparentemente prosperato; colla storia alla mano facile è mandar confusi questi perversi apostoli di false dottrine; ma prima di richiamare gli eventi alla memoria dei lettori consideriamo quali siano i doveri de' Governi cattolici.
VI. Il primo è l'obbedienza nelle materie religiose al Sommo Pontefice. Non obbedire in quelle al Capo della Chiesa equivale a negarne col fatto l'autorità, che pur si dice di riconoscere nelle cose spirituali. Ogni Stato è indipendente, ciò è certo, l'indipendenza si estende a quanto è nel suo dominio, non ha altri limiti che quelli imposti dalla legge naturale e dal gius delle genti colle modificazioni conformi al medesimo, avvenute dai trattati. Se si oltrepassano quei limiti si esercita un'indipendenza di fatto, non di diritto. La Chiesa ha le sue leggi che sono accettate implicitamente da ogni Stato che vuol essere cattolico; tali leggi obbligano il Governo, e il gius canonico è la sola vera primitiva base de' suoi rapporti colla Chiesa. I concordati ne hanno modificate le condizioni e servono di norma ai diritti del poter civile. Se si annullano i Concordati, il gius canonico ricupera tutta la sua forza; quanto si fa contrariamente al medesimo costituisce una violazione di diritto, e non altro. Tali cose non si compresero o non si vollero comprendere nel nostro paese in cui non mancò per tanti secoli il senno politico, e in cui lo studio della giurisprudenza fu sempre in fiore, quando si pretese che i Concordati non avevano la forza dei Trattati, e quando interpretando a rovescio le parole del pubblicista americano Weathon si volle autenticare colla sua autorità quello spropositato concetto, e appoggiare in un documento ufficiale comunicato alla Santa Sede la strana dottrina [...] I concordati sono senza dubbio Trattati reali, e a nessun pubblicista prima di adesso venne in capo mai di considerarli perenti a volontà di una delle parti.
X. [...] Le leggi della Chiesa non si considerano in vigore se il Principe col suo rescritto non le sanziona, ma se egli nelle materie spirituali vi è soggetto, se ha il dovere di farle rispettare dai sudditi non può sottometterle al suo beneplacito. [...]
XI. [...] Un savio governo cattolico non può guardar con indifferenza che si sparga l'errore, si corrompa la fede, s'insegnino dottrine alla Chiesa contrarie, dalla Chiesa condannate. Io qui rammento l'aureo rescritto degli Imperatori Graziano, Valentiniano e Teodosio, che nel primo Codice da umana sapienza elaborato, in cui stanno registrate le seguenti parole: "Cunctos populos - dicevano essi - quos clementiae nostrae regit imperium, in tali volumus religione versari, quam divum Petrum Apostolum tradidisse Romanis, religio usque adhuc ab ipso insinuata declarat" (L. I codicis "de summa Trinitate").
Nulla da quell'epoca in poi è variato quanto alla veracità del principio; molto si è variato nella pratica, però con patrio orgoglio rammentiamoci come nelle Costituzioni del Re Carlo Emanuele III pubblicate nel 1770, i primi sette titoli del primo libro abbiano per iscopo di tutelare gl'interessi della Religione incominciando, con generoso sentimento che or non si oserebbe esprimere, dalla protesta di professare "divotamente e religiosamente la vera fede di Cristo giusta l'insegnamento della Chiesa cattolica, apostolica, romana" . In essa poneva il vincitor di Guastalla, il savio Monarca di gloriosa e non peritura memoria, il palladio della felicità del Regno, e piena fu finchè egli visse. Non v'è miglior maniera di consolidar uno Stato che l'unità di religione; "est enim", scriveva ne' secoli addietro un autore di massime politiche, "certissimum augurium interitus et subversionis Reipublicae cum diversae introducuntur religiones atque sectae" (Choxier, Thesaurus politicorum, lib. I, cap. V).
Sia pur certo che il presagio possa tardare ad avverarsi; non è meno secondo ogni ragione temibile, e quand'anco una Nazione non perisca per tal motivo che alcuni secoli dopo, della gran disgrazia sarà pur sempre responsabile, e principal colpevole colui che vi ha dato luogo, che ne fu l'autore.
[...] Non val dire; la Religione non s'impone colla forza. Siam tutti d'accordo; non s'impone colla forza, colle violenze, ma s'impone a coloro che non la rispettano, che non vogliono praticarla, di non dare pubblico scandalo, di non corrompere, di non arrecar danno all'integrità della fede; però tengano i loro errori nascosti; ma se si manifestano, devono essere frenati, e secondo la misura degli atti loro più o meno capaci di nuocere, puniti; non perchè non credono, o non praticano, ma perchè traggono altri nella stessa via. Non si può, non si deve cooperare a ciòche s'introduca la peste dell'eresia nei paesi che ne sono ancora immuni. [...]
XIII. E' cosa propria dè nostri tempi cambiare il senso e il significato delle parole e delle cose; si chiamano intolleranti coloro che non ammettono transazioni sui principii, ma quando si tratti di religione o di giustizia come può ammettersi modificazione alcuna? Non inquietare e compiangere le persone che sono in errore è la sola vera tolleranza possibile; quanto alla diffusione delle idee, delle opinioni cattive non v'è ragione di condiscendere senza che per ciòsia lesa la tolleranza; non solo non v'è ragione di condiscendere, ma v'è stretto dovere d'impedirlo. "Il Governo non ha maggiore competenza nelle questioni filosofiche, che nelle religiose, e nondimeno se un filosofo insegnasse e persuadesse, che il furto è cosa lecita e santa, il Governo avrebbe il diritto e il dovere di proibire a quel filosofo un tale insegnamento, e ove esso ricalcitrasse di punirlo. Il Governo ha competenza in tutto quello che si attiene alla vita e alla sicurezza sociale" (Civiltà cattolica, Tomo III, serie I).
Or io aggiungo non essendovi cosa che quella tanto minacci quanto la perdita della fede, proteggere l'introduzione dell'eresia equivale a permettere che s'introduca il cancro che rode, e puo' tosto o tardi, fosse anche dopo vari secoli distruggere il benessere della società, non sempre forse fin da principio il benessere materiale, ma il benessere morale infinitamente superiore, e senza il quale l'altro non resta che un bene precario. [...]

(L'Uomo di Stato, libro II, cap.IV, pagg.183-193)