Nel 1789 , gli stessi principi Assolutisti che nel 1700 avevano abbagliato gli spagnoli caddero . La Rivoluzione europea adesso condannava quello che precedentemente aveva proclamato modello incomparabile. Un vento di revisione scuoteva il palcoscenico, e sulla scena francese si alzava il telone dietro il quale appariva il sangue della infausta grande Rivoluzione , che si sostituì definitivamente alla commedia delle parrucche e dei versi alessandrini.
Nelle Spagne , il cambio della banderuola rivoluzionaria coincise con l'invasione napoleonica e con lo svegliarsi di una reazione antifrancese ossia controrivoluzionaria , nelle masse popolari . La testimonianza poco sospetta del Rico y Amat dimostra come la guerra d'indipendenza spagnola sia stata una fiammata patriottica ed un'ansia di ritornare alle tradizione peculiare delle Spagne: "L'unica idea, che agitava quelle menti ardenti, che commoveva quelle anime nobili e coraggiose , non era se non la salvezza della loro fede , della loro monarchia, della loro indipendenza". Cioè Dio, Patria e Re della Tradizione , che ben presto il Carlismo avrebbe innalzato di fronte al liberalismo , poiché lo stesso autore liberale confessa che "nessuno potrà negare che i liberali di quell'epoca erano gli infrancesati". Ma la confusione prodotta dalle innovazioni servì anche qui a dissipare ogni possibilità di ritorno alla tradizione politica , proprio nel momento in cui si determinava una congiuntura favorevole provocata dalla caduta della forma assolutista con la quale quei popoli erano stati abbagliati nel '700.
Ferdinando VII di Spagna. |
Con codesto gruppo di ingenui liberali, che ingarbugliavano la questione ripetendo il tragico equivoco del leguleio Melchor de Macanaz , e la testardaggine assolutista del "Deseado Fernando" , naufragò , nei primi anni del secolo XIX, la possibilità di un ritorno alla Tradizione spagnola. Ma non mancò d'altronde il richiamo delle coscienze nazionali , benché destinato a rimanere senza ascolto , del deputato di Siviglia alle Cortes, Bernardo Mozo de Rosales , novello Marchese di Villena , sebbene in termini in certo senso diversi.
E' di Federico Suarez Verdeguer il merito di aver analizzato l'importanza del famoso Manifesto detto dei Persiani , che Bernardo Mozo de Rosales , a capo di un gruppo di 69 deputati realisti , presentò a Ferdinando VII in Valenza al suo ritorno nel 1814 . Contro i due estremi del costituzionalismo e dell'assolutismo alla francese , il Manifiesto de los Persas tanto ingiustamente denigrato era un richiamo al ritorno alla tradizione , parallelo a quello che 113 anni prima, alla salita al Trono di Filippo V , era stato sostenuto dal Marchese di Villena . "Facciamo nostro questo manifesto nella sua integrità... - dicono i dottissimi storici Melchor Ferrer ; Domingo Tejera e Josè F. Acedo , mentre lo fanno pubblicare in una delle Appendici al primo tomo della benemerita Historia del tradicionalismo espanol - perché , meditato bene , esso ci illumina nella comprensione dello sviluppo del pensiero spagnolo e , nello stesso tempo, supplirà alla mancanza di quegli storici che hanno fatto affidamento nella difficoltà di leggerlo per la sua estensione, infine farà fronte alla mancanza di equanimità che essi hanno dimostrato nell'ometterlo. Quando si analizza la Costituzione , quando si parla della questione forale della Navarra e delle Province Basche , quando si scrive come devono essere le Cortes di stampo spagnolo, quando si specifica il concetto dell'autorità reale , il Manifiesto detto de los Persas dimostra che quelli che lo scrissero ... non erano dei fautori della monarchia assoluta che vigeva allora in Ispagna, ma che in mezzo alla confusione imperante pensavano al ritorno delle patrie tradizioni". Sarebbe difficile impresa spiegare in minor numero di parole e con maggiore esattezza l'importanza del lungo ma luminoso scritto di Bernardo Mozo de Rosales deputato di Siviglia alle Cortes. In sereno contrasto con lo scialbo riflesso che abbagliò ingannevolmente Martinez Marina , i Persas seppero racchiudere in una sola frase il modo di togliere la maschera a quel documento di Cadice , servile imitazione della Rivoluzione liberale del 1789. "Mentre i deputati di Cadice - dice il Manifiesto al paragrafo 90 - si rifiutavano di seguire le orme degli antichi spagnoli , non sdegnarono di imitare ciecamente quelle della Rivoluzione francese". Di fronte alla Rivoluzione liberale, i Persas ripeterono lo stesso grido d'allarme che lanciò il Marchese di Villena , continuando a proporre soluzioni che rivelavano la direzione sicura e ferma del pensiero tradizionale , vivo malgrado l'atteggiamento infrancesato ufficiale: il ritorno alle Cortes , nella loro forma eccellente della fine del Medioevo , prima che l'ordine politico castigliano fosse perturbato dalle esigenze di una politica di guerra che portò con sé l'irrobustirsi esagerato del potere reale. Al paragrafo 112 si vede chiaramente la chiave dei suoi postulati: la Castiglia , antecedente alla sconfitta di Villalar ; ossia il ritorno alle feconde tradizioni di libertà concrete , incompatibili sia con lo sfrenato assolutismo settecentesco , sia con il nefasto e agitato confusionismo ingannatore della Rivoluzione liberale. Parlano "conformemente alle leggi, fori, usi e costumi della Spagna". Il Manifiesto de los Persas è lo squillo d'allarme destinato a risuonare dolorosamente nel deserto . Ferdinando VII ne accetta lo spirito del decreto del 14 Maggio 1814 ; ma ben presto in lui riaffiorò l'antico radicato assolutismo , così come era accaduto col bisnonno in cui le radici assolutistiche di un germoglio Reale sviluppatosi all'ombra del Re Sole aveva distrutto in partenza una possibile soluzione alla maniera spagnola. Per la seconda volta , in una nuova occasione favorevole per recuperare la linea della Tradizione politica, i popoli spagnoli si videro trascinare dal vortice della Rivoluzione ingannatrice , oscillando tra la iniziale conservazione dell'assolutismo e la definitiva nefasta vittoria del liberalismo europeo.
E’ di vivo interesse riportare integralmente questo importantissimo documento , il "Manifiesto de los Persas", affinché possa essere dettagliatamente visionato dal lettore e accuratamente compreso .
NOTA BENE: Il testo è in spagnolo, si consiglia ai lettori che non hanno molta dimestichezza con questa lingua di utilizzare un dizionario (o il traduttore Google) e armarsi di pazienza.
Representación y Manifiesto que algunos diputados a las
Cortes ordinarias firmaron en los mayores apuros de su opresión en Madrid para que la Majestad del Sr. D. Fernando el VII a la entrada en España de vuelta de su cautividad, se penetrase del estado de la Nación, del deseo de sus provincias, y del remedio que creían oportuno.
firmado por varios diputados de las Cortes
Impresa en Madrid por Real Orden de S. M., España, 1814
Real Orden
Enterado el Rey de la representación, que tuvo V. S. el honor de poner en sus reales manos, estando S. M. en Valencia, firmada de V. S., y de los Diputados de varias Provincias de España e Indias a las Cortes, que
estaban congregadas cuando S. M. desde Francia volvió a su Reino; me ha mandado manifieste a V. S. y a los demás que firmaron aquella representación, el aprecio que de sus personas ha hecho, y de los sentimientos que se contienen en ella de amor y fidelidad a su Real Persona: y de adhesión a las Leyes fundamentales de la Monarquía, mostrando los vicios y nulidades de la llamada Constitución política, formada en las Cortes tituladas generales y extraordinarias de la Nación. Y quiere S. M. que estos sentimientos de tan dignos Diputados, y tan conformes a la expresión general, que las Provincias del Reino han ido sucesivamente manifestando, sean conocidos de todos por medio de la prensa, así por su contenido, como por ser ellos prueba del carácter y juicio, que en tan desagradables circunstancias, como las en que aquel papel se formó, mostraron tener los sujetos que lo firmaron.
De Real Orden lo comunico a V. S. para su inteligencia y satisfacción. Dios guarde a V. S. muchos años.
Aranjuez, 12 de mayo de 1814.
Pedro de Macanaz
Sr. D. Bernardo Mozo Rosales
Manifiesto
Que al Señor Don Fernando VII hacen en 12 de abril del año de 1814
los que suscriben como diputados en las actuales Cortes ordinarias de su opinión acerca de la soberana autoridad, ilegitimidad con que se ha eludido la antigua Constitución Española, mérito de esta, nulidad de la nueva, y de cuantas disposiciones dieron las llamadas Cortes generales y extraordinarias de Cádiz, violenta opresión con que los legítimos representantes de la Nación están en Madrid impedidos de manifestar y sostener su voto, defender los derechos del Monarca, y el bien de su Patria, indicando el remedio que creen oportuno.
SEÑOR:
1.- Era costumbre en los antiguos Persas pasar cinco días en anarquía después del fallecimiento de su Rey, a fin de que la experiencia de los asesinatos, robos y otras desgracias les obligase a ser más fieles a su sucesor. Para serlo España a V. M. no necesitaba igual ensayo en los seis años de su cautividad, del número de los Españoles que se complacen al ver restituido a V. M. al trono de sus mayores, son los que firman esta reverente exposición con el carácter de representantes de España; mas como en ausencia de V. M. se ha mudado el sistema que regía al momento de verificarse aquélla, y nos hallamos al frente de la Nación en un Congreso que decreta lo contrario de lo que sentimos, y de lo que nuestras Provincias desean, creemos un deber manifestar nuestros votos y circunstancias que los hacen estériles, con la concisión que permita la complicada historia de seis años de revolución.
2.- Quisiéramos olvidar el triste día en que V. M. fue arrancado de su trono, y cautivo por la astucia en medio de sus vasallos, porque desde aquel momento como viuda sin el único amparo de su esposo, como hijos sin el consuelo del más tierno de los padres, y como casa que de repente queda sin la cabeza que la dirigía; quedó España cubierta de luto, inundada de tropas extranjeras (cuyo sistema era vencer por el terror, y atraer voluntades por la intriga), errante toda clase de personas por los campos, sujetos a la intemperie y a las desgracias, degollados en los pueblos, sumergidos en la mendicidad, ardiendo los edificios y asoladas las Provincias, formaban de la hermosa España el cuadro más horroroso del que en los pasados siglos causó la envidia por la fertilidad de este suelo. Esta amarga escena hacía recordar a cada paso que todo nos sería más llevadero, si al menos tuviésemos la compañía y dirección de nuestro amado Soberano; mas faltando este, ocurrió la desesperación al remedio, y cual enfermo que lucha con la espantosa presencia de la muerte, se olvidó España de su estado y fuerzas, y animada de un solo sentimiento se vieron a un tiempo sublevadas todas las Provincias para salvar su religión, su Rey y su Patria. Pero en las juntas que se formaron en cada una de ellas al primer paso de esta revolución, aparecieron al frente algunos que en ningún otro caso hubieran obtenido el consentimiento del Pueblo, sino en un momento de desorden, confusión y abatimiento, en que miraban con indiferencia, quien fuese la cabeza, con tal que hubiese alguna.
3.- Pareció en un principio que solo procuraban estos reunir, equipar, disciplinar tropas, y buscar fondos que hiciesen valer la fuerza; mas pronto desapareció esta creída virtud, y se notó que mientras gemía el común de los españoles, se ocupaban algunos individuos de estas juntas en acomodarles, y acomodarse a sí mismos distintivos y tratamientos, en llenar de empleos a sus parientes, en recoger cuantiosos donativos, en exigir crecidas contribuciones (cuya inversión aún se ignora) hacer inmensas gracias, y dar destinos militares y políticos, no necesarios, que motivaban una sobrecarga; cuando más debía prevalecer la economía. Así hicieron odioso su gobierno, resfriaron el fuego patriótico y aumentaron las desgracias del desamparo y esclavitud.
4.- Dividido de este modo el gobierno de las Provincias, se procuró1 buscar un centro de reunión que facilitase la ejecución de tanta empresa: a este fin vocales de las juntas mismas vinieron como Diputados de ellas a Aranjuez para elegir los que según las leyes debían regir el trono en vuestra soberana ausencia; pero parece creyeron más oportuno elegirse a sí propios con el nombre de Junta Central2, dando de nuevo en el escollo político de crear un monstruo de más de treinta cabezas hijas3 de las primeras juntas defectuosas en su origen, y que había de ocasionar (como sucedió) el aumento de los males, no tener confianza la Nación, minorar sus fuerzas y auxilios, y carecer los ejércitos de una autoridad que les impusiese con el premio y el castigo; cuyo mal influía en los socorros, y en la uniforme ejecución de planes, precisa para rechazar el colosal poder del invasor, quien aprovechando estas circunstancias, conseguía dispersiones, cogía almacenes, y se seguían otros daños que es mejor dejarlos al silencio4.
5.- A poco tiempo de creado este nuevo Gobierno vuelven las armas francesas a Madrid, y no dejaron de sacar fruto de las disposiciones y disgustos que aquel había causado. La Junta trasladó su residencia a Sevilla; pero no varió el descontento y quejas de los vasallos. Estos, por voz casi general en la Capital, opinaban ser necesario juntar Cortes según las leyes y costumbres de España; pero cuando esta medida pudo ser más oportuna, no pensaba la Junta Central en convocarlas, aunque alguno de sus individuos declamó sobre ello5: y el remedio que en tiempo hubiera producido efectos favorables, sin alterar los derechos de V. M. llegó cuando la malignidad abusó de él: habiendo podido tener en consideración que V. R. P. a imitación de sus gloriosos antecesores, había apetecido se celebrasen Cortes para los rectos fines, y por los medios que la legislación Española había prescrito, cuya observancia se acababa de jurar.
6.- Ya en fin se convenció la Junta Central de ser este medio el áncora de la esperanza que le quedaba al bajel de España en borrasca tan deshecha: que se veía sin Rey que la rigiese, sin sucesor que la animase, sin Corte o Capital que la amparase en su centro, sin gobierno constitucional que la defendiese, sin legisladores que la guiasen, sin tribunales estables que velasen y la protegiesen: los buenos patricios prófugos y perseguidos, los sabios inciertos de su suerte, vagantes unos y cautivos otros, y los pueblos amantes de sus antiguas leyes y costumbres deseando en la celebración de Cortes un término a tal conjunto de males.
7.- Para conseguir el acierto prestó oídos la Junta a las diversas memorias, que le presentaron sobre el modo con que debía tomarse esta medida: y como la imaginación del hombre es tan fecunda, casi todos se creen capaces de mandar a los demás, lisonjeando al incauto y falto de práctica la innovación. Se oyeron los más contrarios pareceres, se proponían algunos borrar del todo nuestras leyes, impelidos tal vez de un espíritu de imitación de la revolución francesa, o imbuídos de las mismas máximas abstractas, que habían acarreado el trastorno universal en toda Europa: algunos propusieron forma puramente monárquica, otros mixta, otros democrática: unos proponían las Cortes como permanentes: otros temporales: otros proponían su celebra ción cada ocho años: otros menos; unos querían la apertura de las Cortes desde el momento; otros para después que quedase la España libre de tropas enemigas: otros sostenían que el Rey las debía convocar, o la Junta Central que existía entonces y no faltaban otros que deseaban fuese la misma Nación, haciéndola juez y parte a un mismo tiempo.
8.- Querían otros excluir el nombre y representación de los tres brazos reduciéndolos a una sola masa, o lo que es lo mismo, a una sola y general representación popular.
9.- Querían unos depositar solo la potestad ejecutiva en el Rey, y la legislativa en las Cortes; y otros esta última en el Rey, y en las Cortes cumulativamente. Algunos proponían monarquía templada; otros monarquía degenerada y fantástica, otros gobierno mixto, otros un monstruo de muchas cabezas. Unos, solo querían reformar, otros regenerar, otros aniquilar todas nuestras instituciones, otros conciliar nuestras leyes, usos y costumbres antiguas con las que se constituyesen de nuevo.
10.- Algunos atribuían absolutamente la soberanía la Nación, sin reparar en el absurdo político que encerraba esta pretensión: otros dejaban al Rey un título de mero administrador, esto es, de un ciudadano distinguido con el primer empleo del Estado. No eran menos varias las opiniones en las elecciones, pues unos querían que los Diputados se eligiesen a semejanza de las Cortes antiguas con mayor ampliación; otros por provincias, otros por Ciudades exclusivamente, otros por Población según un cómputo aritmético, otros por padres de familia, o por vecinos: otros trataban de los requisitos con que debían extenderse los poderes de los procuradores de Cortes, examen de ellos; quién había de presidir el Congreso: la autoridad que el Rey había de tener en las sesiones; cómo habían de proponer y tratar las materias, y en fin fueron manifestando cuanto cabía tener presente en semejante caso, según las ideas en que cada uno abundaba. Estimaban algunos que en aquella época había una razón poderosa y necesaria para que concurriesen el brazo Eclesiástico y el de la Nobleza, porque las opiniones que manifestaban los innovadores propendían a deprimir a los dos, queriendo ahorrar este trabajo al usurpador de España, o seguir sus huellas.
11.- Se olvidaron algunos del medio de conciliar la profesión monástica con la ciencia política, y participación en el nuevo sistema de gobierno: pues los Regulares como hijos de la Patria no podrían ser mantenidos en el seno de esta, si no ayudasen a defenderla de la tiranía doméstica, e invasión extranjera con su consejo, con su palabra, y con sus manos en el apuro extremo: y por su haber coadyuvado de todos modos, decretó el invasor de España exterminar, desnudando del hábito y del nombre, a los que no había podido acabar de destruir el furor de los verdugos armados. De otra forma hubiera sido caer en contradicción, no admitiendo en el Congreso general de la Nación a los mismos, a quienes llamaron las Juntas provinciales en las primeras congojas de la Patria, cuando se buscaban almas fuertes e ilustradas, que guiasen el bajel abandonado a la tempestad. Fijando, pues, la Junta Central su resolución entre tan opuestas opiniones, dictó su último decreto en la isla de León a 29 de enero de 1810, conciliando en circunstancias tan críticas los derechos de V. M. con la observancia de las leyes, en la forma que creyó más distante de lo que después ha sucedido6.
12.- Como, pues, salió en desunión y precipitada fuga la Junta Central de Sevilla al acercarse los franceses en principios del mismo año, pasando a salvarse a aquel puerto7, y en el propio momento creó esta ciudad el nuevo gobierno que estimó más apto8; dio esta un manifiesto de los defectos que creía en algunos centrales: lo que ocasionó la crítica de que la condescendencia a la celebración de Cortes era efecto de la impotencia en que la Junta se miraba; pero ya era perdido el tiempo del remedio. Mas prescindiendo del mérito de aquellas quejas, no remitiremos al silencio lo que hallemos recomendable en dicho decreto de la Central. Primero mantener ileso en V. M. el derecho de llamar a Cortes según las leyes, fueros y costumbres9.
13.- Segundo, procurar que interviniesen en ellas los tres brazos, que antes de recibir España la religión católica, se dividían en Flamines, Ecuestres y Pleveyos; y después de esta en Eclesiástico, Nobleza y Pueblo, cuyo nombre se extendió a las provincias de América y Asia10.
14.- Tercero, que serían presididas en vuestro Real nombre por la Regencia en cuerpo, por su Presidente temporal, o por el individuo a quien delegase el encargo vuestra soberanía11.
15.- Cuarto, que la Regencia nombraría a los asistentes de Cortes que debían aconsejar al que las presidiese en vuestro Real nombre, de entre los individuos del Consejo y Cámara12.
16.- Quinto, se prefijó el modo con que habían de examinarse las materias en los Estamentos13.
17.- Sexto, se dijo que la Regencia sancionaría las proposiciones aprobadas en ellos, o suspendería la sanción14.
18.- Y séptimo, que dicha Regencia podría señalar un término a la duración de las Cortes15.
19.- En todo este plan se distó mucho de fijar un gobierno popular o democrático, pues la experiencia ha convencido sus inconvenientes, cuando obra en masa. Es harto notoria la definición que hacen de los daños y estragos de la popularidad los antiguos filósofos, los mejores oradores de Grecia y Roma, los que más adularon al Pueblo sin fruto, y los que más se aplicaron a definir su índole y carácter para mandarlo. Por tanto nos abstenemos de una historia desgraciadamente renovada en nuestros días, que convence haber sido siempre la popularidad una misma, e idénticos sus efectos, que tantas veces nos han recopilado los publicistas. El Pueblo desea ser feliz; pero le equivocan el camino sus lisonjeros.
20.- Quisiéramos grabar en el corazón de todos, como lo está en el nuestro el convencimiento de que la democracia se funda en la inestabilidad e inconstancia; y de su misma formación saca los peligros de su fin. De manos tan desiguales como se aplican al timón, solo se multiplican impulsos para sepultar la nave en un naufragio. O en estos gobiernos ha de haber Nobles, o puro Pueblo: excluir la nobleza destruye el orden jerárquico, deja sin esplendor la sociedad, y se la priva de los ánimos generosos para su defensa; si el Gobierno depende de ambos, son metales de tan distinto temple, que con dificultad se unen por sus diversas pretensiones e intereses.
21.- La Nobleza siempre aspira a distinciones: el Pueblo siempre intenta igualdades: este vive receloso de que aquella llegue a dominar; la Nobleza teme, que aquel no la iguale: si, pues, la discordia consume los gobiernos, el que se funda, en tan desunidos principios siempre ha de estar amenazado de su fin.
22.- ¿Qué sucedería si la Nobleza intentase grabar de nuevo con algún tributo, o quisiese relevarse de él? ¿Qué si el pueblo excluyese de la magistratura los poderosos? Por eso la experiencia maestra de los hombres reprueba este gobierno, porque tiene más modos de faltar y destruirse por la discordia. Uno de los fines del Gobierno es la paz, y es tan difícil en la democracia, como la quietud en un Pueblo engreído de tener parte en el mando: bastando para ejemplo el de Roma, cuyas desgracias, sediciones, bandos, y guerras civiles dimanadas de este sistema, pueden servir de desengaño al vasto mapa del universo.
23.- No son menos atendibles las juntas indispensables para elecciones, y otros expedientes: y en tan confusa multitud, donde afectos y opiniones se cuentan por las personas, ¿quién podrá huir de una embarazosa inquietud y ruidosa contrariedad como ya hemos visto? ¿Y cómo podrá haber en tan inmenso conjunto de pareceres la conformidad necesaria? Hoy cansa al Pueblo lo que ayer le agradó, llévale su genio a novedades, forma juicio de las cosas, no tanto por lo que son, como por lo que se dice: y las aprueba con facilidad solo porque otros las alaban.
24.- Son precisas las noticias en los que gobiernan; pero el común del Pueblo rara vez las tiene sin equivocación: nada importa que entre estos haya sabios, si es perjudicial la junta de estos con los que no lo son; pues cuando se consideran iguales en autoridad, ármanse estos contra la razón de aquellos, y lejos de auxiliarse mutuamente, se destruyen.
25.- No es menos necesario el secreto para el acierto, y este es imposible en las determinaciones de guerra o paz; si se acuerda con todos no hay secreto; si se consulta con pocos dicen que es tiranizar la igualdad del Pueblo; de la que así se llama, resulta también el inconveniente de carecer la sociedad de hombres señalados e ilustres, que sirviéndola de ornato, la hagan gloriosa entre las demás: pues si se abre puerta a los premios, se destruye la igualdad; y si los méritos quedan sin esta remuneración, se desalienta el valor para las grandes hazañas.
26.- Los magistrados han de tener menos fuerza para administrar justicia, pues si en el ejercicio de ella son superiores al Pueblo; este es cabeza suya por conferirles la potestad: míranse favorecidos de presente por haberlos elegido, y quisieran obligarle para que no los excluyese en lo venidero: conocen que la libertad es la prenda que más ama; ¿pues cómo no han de temer, que por dependientes, miren al Pueblo con miedo muy ajeno de la entereza de un juez: y que por ambiciosos usen de condescendencias contrarias a la rectitud?
27.- El gobierno democrático en la guerra es preciso imite la monarquía, obedeciendo todo el ejército a un General: si la emprende por extender su señorío, se condena a vivir con susto por el miedo de sujeción tan común en los gobiernos populares: y por el recelo de perder su libertad no quiere ver todo el poder en mano de uno solo. Y toda vez que le entreguen las armas, les parece estar ya dependientes de su arbitrio: por eso antes perderán provincias enteras, que pasar el sobresalto de que uno los domine, y pueda llegar a sujetarlos. Convencida España de tantos inconvenientes detestó desde su origen tal sistema de gobierno, en que hoy se halla envuelta por las disposiciones de Cádiz.
28.- Estas en resumen serían las consideraciones, que la Junta Central tuvo para desentenderse de las máximas exaltadas de algunos, y buscar la similitud de las antiguas Cortes de España en el indicado último decreto, que se comunicó al primer Consejo de Regencia; pero sus subalternos ocultaron y remitieron al silencio un documento, que hubiera remediado en gran parte la multitud de males que han partido de este principio16. Si en la forma que se prescribió, se hubieran celebrado las Cortes, no hubiera tenido apoyo la opinión de los que por ignorar las actas de las antiguas (monumentos preciosos de fidelidad y amor de los Españoles a sus Soberanos, y de nuestra verdadera y juiciosa independencia y libertad) las apellidan inútiles. No pensaba de este modo el Señor Don Fernando IV en las Cortes de Valladolid año 129817, y en las que se celebraron en la propia ciudad en 130718: del mismo modo discurría el Señor Don Alfonso XI cuando expresó los motivos que había tenido para convocar las célebres Cortes de Madrid de 132919. Y de la propia opinión era V. M. cuando en el decreto dirigido al Consejo Real desde Bayona le decía: era vuestra soberana voluntad que se convocasen las Cortes en el paraje que pareciere más expedito.
29.- Repetimos, que celebradas de este modo en oportuno tiempo hubieran acaso sido el iris de la felicidad de España, si bien no pudiendo suplir la presencia de V. M.; pero no habíamos apurado el cáliz de la amargura, y estábamos aún condenados a experimentar todas las desgracias de la falta de un Gobierno enérgico.
30.- Llegaron en fin las armas de Napoleón a Sevilla en enero de 1810: corriose un velo entre las Provincias, y el solo pueblo de Cádiz, y su isla que tuvo la dicha de no ser pisado de franceses, y por eso fue, donde pudieron salvarse de estos las reliquias de la libertad de España, reuniendo los que buscaron este asilo las facilidades de que nos vimos privados. Invadidas aquellas de las armas enemigas, y de la impiedad de sus mariscales, sufrieron sus inmensas contribuciones, su tiranía y asesinatos bajo el impío recurso de reducir por hambre a los que no se aterraban por la fuerza bajo papeles sediciosos, lisonjeros, y de relato incierto, bajo de ofertas y dádivas, y lo que es más, bajo la iniquidad de algunos Españoles, que hacían causa con los franceses; y a pesar de todo se mantuvo luchando España, ilesa su heroicidad, sorda al halago, e insensible a las amenazas, deseando vuestros vasallos que sus hijos muriesen en la religión de sus mayores, que volviesen a consolarse con la vista del primogénito de la casa de Borbón, y que la dinastía legítima, a quien Dios había confiado esta Corona, pusiese término a tantas calamidades, para que los padres fuesen al sepulcro con la confianza de que en el dulce gobierno de V. M. dejaban otro padre a sus hijos. Para conseguir este fin no son fáciles de explicar cuántos esfuerzos, cuántos sacrificios, y cuántas temeridades inseparables de la valentía han hecho los españoles por salvar los tres objetos de su deseo; y al fin lo han conseguido con el generoso auxilio de nuestros aliados.
31.- El hombre cree de los demás lo que está escrito en su corazón, y como este era el unánime deseo de las Provincias invadidas, se asomaba a su semblante, en medio de las bayonetas francesas, al cabo de casi tres años de separación, el gozo de ponerse en comunicación con Cádiz, donde creían hallar un Gobierno que ardiendo en los propios sentimientos, se congratulase con ellas de la libertad que les iba preparando la Providencia, o al menos se condoliese de sus pasadas desgracias. Aquí quisiéramos dar fin a nuestra relación, por no manifestar la indignación a que es acreedor esta última escena. Rompiéndose la barrera que separaba a Cádiz de las Provincias, y en el lenguaje de los que salían de aquella y de las órdenes que se les comunicaban (sin dejar otro arbitrio que la ciega obediencia o el castigo) principiaron a notar un enigma no fácil de entender sin entrar en el arcano de sus autores. Hablábase de nuevo sistema, y de una transformación general hasta en los nombres que nunca habían influido en la substancia, y que no concordaban con el definido, un grupo de leyes hechas sin examen, sin consultar el interés y costumbres del Pueblo para quien se hacían, y las más respirando la propia táctica francesa, que tanto odio les había causado, fue lo primero que se presentó a la vista. Vimos emigrados y expatriados los Obispos, como en las más amargas persecuciones de la Iglesia, con pretextos que no sabemos disculpar: vimos los regulares virtualmente extinguidos, que había sido uno de los primeros cuidados de Napoleón: vimos abandonado el cuidado de los ejércitos, cuando más se necesitaba la fuerza para acabar de lanzar al enemigo, y poner una barrera impenetrable sobre los Pirineos: vimos que hasta el sistema de hacienda se había desconcertado y hecho odioso, cuando más se necesitaba de auxilios: y en fin nuestros ojos cansados de llorar desgracias vieron, que aún no habían acabado este oficio.
32.- Principiamos a leer los trabajos de las Cortes de Cádiz, y el origen que habían tenido, y observamos que olvidado el decreto de la Junta Central, y las leyes, fueros y costumbres de España, los más de los que se decían representantes de las Provincias, habían asistido al Congreso sin poder especial ni general de ellas; por consiguiente no habían merecido la confianza del Pueblo a cuyo nombre hablaban, pues solo se formaron en Cádiz unas listas o padrones (no exactos) de los de aquel domicilio, y emigrados que casualmente o con premeditación se hallaban en aquel puerto: y según la Provincia a que pertenecían, los fueron sacando para Diputados de Cortes por ellas. En los representantes de América aún hubo mayores defectos, porque hubo Diputados de Provincias sublevadas y rebeldes a la obediencia de V. M., y que sostenían su rebelión, aspirando a la independencia con las noticias que salían de los secretos del Congreso, y sin tener censo de población de las Américas, continuaron siendo Diputados los suplentes (que al pronto se eligieron de los americanos que casualmente existían en Cádiz), aun después de haber venido los apoderados electos por las mismas Provincias ultramarinas. Así se oyó que las Cortes que se componían en lo antiguo de un moderado número de pueblos llamados por el Rey (cuyos representantes habían de concurrir con poderes amplios), se hallaron compuestas de cerca de doscientos hombres, que solo representaban una confusión popular: y este fue el primer defecto insanable, que causó la nulidad de cuanto se actuó.
33.- Leímos que al instalarse las Cortes por su primer decreto en la Isla a 24 de septiembre de 1810 (dictado según se dijo a las once de la noche)20, se declararon los concurrentes legítimamente constituidos en Cortes Generales y extraordinarias, y que residía en ellas la soberanía nacional. Mas ¿quién oirá sin escándalo que la mañana del mismo día, este Congreso había jurado a V. M. por Soberano de España sin condición, ni restricción, y hasta la noche hubo motivo para faltar al juramento? Siendo así que no había tal legitimidad de Cortes; que carecían de la voluntad de la Nación para establecer un sistema de gobierno, que desconoció España desde el primer Rey constituido: que era un sistema gravoso por los defectos ya indicados, y que mientras el Pueblo no se desengaña del encanto de la popularidad de los Congresos legislativos, los hombres que pueden ser más útiles, suelen convertirse en instrumento de su destrucción, sin pensarlo. Y sobre todo fue un despojo de la autoridad Real sobre que la monarquía española está fundada, y cuyos religiosos vasallos habían jurado, proclamando a V. M., aun en su cautiverio. Tropezaron, pues, desde el primer paso en la equivocación de decir al Pueblo, que es soberano y dueño de sí mismo después de jurado su gobierno monárquico, sin que pueda sacar bien alguno de este, ni otros principios abstractos, que jamás son aplicables a la práctica; y en la inteligencia común se oponen a la subordinación, que es la esencia de toda sociedad humana: así que el deseo de coartar el poder del Rey de la manera que en la revolución de Francia, extravió aquellas Cortes, y convirtió el Gobierno de España en una oligarquía, incapaz de subsistir por repugnante a su carácter, hábitos y costumbres. Por eso apenas quedaron las provincias libres de franceses, se vieron sumergidas en una entera anarquía, y su gobierno a pasos de gigante iba a parar en un completo despotismo.
34.- Por el quinto decreto de 15 de octubre del mismo año se igualaron los derechos de los españoles con los vasallos ultramarinos, ordenando que desde el momento en que aquellos países conmovidos reconociesen la legítima autoridad soberana que se hallaba establecida en la madre Patria, hubiese un general olvido de cuanto había ocurrido21.
35.- Esto era lo mismo que despertar en ultramar la sublevación de provincias que ha hecho tan rápidos progresos: porque si solo el pueblo había de ser el soberano; pueblo más extenso, dividido por los mares tenían allí, que habían de considerarse con igual soberanía para dirigirse por sí, sin las dificultades de la navegación, absteniéndonos de decir más por ahora.
36.- Por noveno decreto de 10 de noviembre siguiente se fijó la libertad de imprenta, que acabó de extinguir la subordinación: cualesquiera que fuesen sus restricciones: la infracción para los mantenedores de la novedad ha corrido impune; al tiempo que perseguidos, los que han declamado contra ella. El uso de la imprenta se ha reducido a insultar con personalidades a los buenos vasallos, desconceptuando al magistrado, debilitando su energía, y haciendo odioso a cuantos eran blanco de estos tiros: extenderse papeles sediciosos y revolucionarios a cada paso, escribir descaradamente contra los misterios más respetables de nuestra religión revelada, ridiculizándola para sembrar las máximas que tantas veces condenó la Iglesia, y despedazando la opinión y respeto del sucesor de San Pedro con un lenguaje, que jamás toleró la Nación española, hasta que tuvimos la desgracia de ver en gran parte relajadas sus costumbres; que es cuando se presentan tales innovaciones. Esta libertad de escribir, perjudicial en una Nación pundonorosa, y además subversiva en las Américas se ha sostenido a viva fuerza contra el clamor de los sensatos porque solo extraviando a cada momento la opinión del pueblo, puede sostenerse, lo que no produjo la razón22.
37.- Posteriormente se vieron repetidos indultos, se tuvieron condescendencias con los indios, cargando la culpa al anterior gobierno; se les dispensaron las gracias que apetecían: se concedieron libertades de comercio y exención de tributos. Se acordó en 22 de marzo de 1811 la enajenación de algunas fincas de la Corona23. Se mandó en 5 de abril siguiente establecer un superintendente de policía, que nunca llegó a verificarse por contrario a la libertad popular24. Se mandó en 2 de junio siguiente, que en el cuño de la moneda de oro el busto real, se pusiese al natural o en desnudo; y no adornado del traje o armadura de hierro que se había usado hasta entonces25. En 6 de agosto del propio año se incorporaron de hecho todos los Señoríos jurisdiccionales a la Nación, con abolición de sus privilegios, sin previo examen y sin efectiva recompensa26. En 17 de dicho agosto se admiten en los colegios, y en las plazas de Cadete sin pruebas de nobleza, para recomendar la popularidad27. En 31 siguiente se crea una orden llamada Nacional de San Fernando extensiva a los soldados y tambores, como si no hubiese órdenes establecidas, o fuese necesario, sin diferencia, generalizar esta clase de premios aun al que más lo desea de otra naturaleza28. En 7 de enero se abolió el paseo del estandarte Real, que se acostumbraba anualmente en las ciudades de América como un testimonio de lealtad, y monumento de la conquista de aquellos países, derogándose la ley recopilada que lo prevenía. Se abolieron las ordenanzas de Montes y Plantíos con ruina del ramo más necesario a los Pueblos. Se extinguieron las matrículas de mar en las Provincias ultramarinas29: y en 29 de enero de 1812 se habilitó a los Españoles oriundos de África, para ser admitidos a las matrículas y grados de las Universidades, ser alumnos de Seminarios, etc.30. Todos estos decretos manifestaron odio a los derechos y prerrogativas de V. M.: deseo de ostentar y dar ejercicio a la soberanía popular: empeño de atacar los derechos y jerarquía de la Nobleza, y de atraer al mismo tiempo en apoyo de la novación, con indultos, gracias y concesiones a la popularidad misma: a fin de que esta creyese que los que llevan la voz en esta escena, trabajaban por su beneficio, y les prestasen su apoyo y condescendencia.
38.- Vieron también las Provincias, que ensayado el ánimo de las Cortes con estos decretos, y bebido en parte el veneno de la soñada igualdad, era llegado el momento de fijar una Constitución que esclavizase, la libertad de las Cortes legítimas sucesivas, y quedase impune y existente el tropel de novedades, con que se habían sepultado la legislación, usos y costumbres de España. En un principio pudo creerse sostenida esta Constitución por la gloria de titularse los que la formaron, autores de lo que mucho tiempo hacía habían llorado otros Pueblos; pero después que la experiencia acreditó sus defectos, que la razón con más pausa demostró su injusticia, y que aquellos intrusos en las Cortes no podían poner trabas a la misma soberanía, que suponían en el Pueblo, no acertamos a disculparla. Declamar en todo por Constitución ofreciéndonos en cada paso a la furia del Pueblo con el renombre de infractores de ella (en que dicen estar cifrada su libertad), cuando proponemos medidas de tropas, dinero, y orden para salvar la Patria, tiene tan largos fines, que piden relación más detenida de lo que permite nuestro objeto, contentándonos con indicarlos a la penetración de V. M.
39.- En 14 de marzo de 1812 se mandó publicar en Cádiz la Constitución con el aparato más imponente, para atraer la voluntad de un Pueblo que con ella creía remediado el antiguo despotismo ministerial: sin meditar que encerraba (como se ve) mayor arbitrariedad de los ministros y de las Cortes mismas. Se mandó que la Regencia la jurase con la fórmula general de que haría jurar la Constitución, y también las leyes del Reino: para que el Pueblo no notase, que aquella era contra estas, y que las dos cosas no podían conciliarse en un juramento31.
40.- En fin, Señor, esa Constitución firmada en 18 del propio marzo con el renombre de código sagrado, y otros que nos han merecido los más sabios de España; aunque de su sensatez han podido aprender los legisladores del mundo, dice: Que la Nación española es libre e independiente, y no es ni puede ser patrimonio de ninguna familia, ni persona32. Y el Artículo 14 expresa: que el Gobierno de la Nación española es una monarquía moderada hereditaria: artículos inconciliables sin otra explicación, en que solo brilla el deseo de mantener el nombre para defraudar la substancia.
41.- Dice el Artículo 3: Que la soberanía reside esencialmente en la Nación, y por lo mismo pertenece a esta exclusivamente el derecho de establecer sus leyes fundamentales. La primera parte queda demostrado ser alucinación y agravio a la felicidad del vasallo; aunque se pretextaba esta para la novedad. La segunda no es acomodable en boca de los diputados, que carecían del voto de la Nación para ello, y no podía en algún caso tratarse de leyes fundamentales nuevas; habiendo las antiguas, y más sensatas, con las cuales se había celebrado un pacto entre la Nación y el Rey; y si bien el antiguo despotismo ministerial había cometido abusos, este no fue defecto del sistema.
42.- Dijo el Artículo 7: Todo español está obligado a ser fiel a la Constitución: esta fidelidad, quebrantando otra anterior no podía existir; y menos cuando para leyes fundamentales faltaba la voluntad, la meditación, y el consentimiento general, que no se suplía por aquellos pocos emigrados en Cádiz.
43.- El Artículo 15 dice: Que la potestad de hacer leyes reside en las Cortes con el Rey; pero en las muchas hechas y deshechas no se ha contado con V. M. o con quien le representase, ni con una verdadera representación nacional, ni se han dictado con meditación y libertad, ni el contexto de las dadas respira esta unión.
44.- Dijo el Artículo 16: Que la potestad de hacer ejecutar las leyes reside en el Rey: y habiendo dejado estas funciones a la Regencia a nombre de V. M. en la práctica ha sido un mero pupilo, dependiente en cada caso de las Cortes.
45.- Dijo el Artículo 17: Que la potestad de aplicar las leyes en las causas civiles y criminales reside en los tribunales: y sin embargo no hemos visto a ningún alcalde ordinario ocupado en tantos juicios y quejas como el Congreso.
46.- El Artículo 25 dijo: Que se suspendía el ejercicio de los derechos de ciudadano por hallarse procesado criminalmente: y como solo la última sentencia puede causar la incapacidad, que es la que puede fundar la suspensión, se estableció por ley fundamental esta pena, aun desde el principio del procedimiento, chocando contra leyes más sabias, y eludiendo la libertad que tanto se pondera.
47.- En el Artículo 1.º y siguientes se trató del modo de formar las Cortes, y elegir para ellas los Diputados33: y aunque esta elección respira popularidad, se conoció que el Diputado había de tener la voluntad de su Provincia; y como esta no la tenían los que formaron la Constitución, hacen más clara la nulidad de ella: sin que lo supla el que las circunstancias de la guerra no permitían entonces la manifestación de esta voluntad, porque la imposibilidad no suple el consentimiento expreso que es necesario: y es más fácil que hubieran conocido, no poder celebrarse las Cortes; y que hubieran ceñido sus esfuerzos a solo salvar la Patria de la invasión enemiga con armas y dinero, que es lo que quería la Nación.
48.- El Artículo 92 dijo: Que para ser electo Diputado de Cortes se requería tener una renta anual proporcionada procedente de bienes propios; mas como esto se oponía a la popularidad, y el Artículo no podía hablar con los más de los que estaban en aquellas Cortes (antes bien la diputación había de convenirse en el empleo o renta de que carecían); se suspendió este Artículo en el 93 siguiente.
49.- En el Artículo 100 se fijó la fórmula del poder con que habían de presentarse los nuevos Diputados reducida a que: puedan acordar y resolver cuanto entendieren conducente al bien general de la Nación en uso de las facultades que la Constitución determina y dentro de los límites que la misma prescribe, sin poder derogar, alterar o variar alguno de sus artículos bajo ningún pretexto. ¿Y esto se llama libertad? ¿Es esto acaso la igualdad tan decantada? ¿Unos emigrados sin representación legítima han de atribuirse autoridad para sellar los labios a la Nación entera, cuando junta en Cortes va a tratar de lo que más le interesa? ¿Cuándo jamás se puso tal coartación a las Cortes de España, cuyo primer encargo era la concurrencia con amplios poderes? ¿Y aquí hubo valor de privar la libertad de las Provincias, para que cerrasen sus ojos a cuanto en Cádiz se había escrito? Este es, pues, uno de los mayores vicios de la llamada Constitución, y que más descubre el empeño de la innovación contra la repugnancia general que preveían sus autores.
50.- En el capítulo 6.º se señaló el sitio donde habían de celebrarse las Cortes34; y no obstante hemos experimentado el escandaloso empeño de que no saliesen de Cádiz, porque entre rastrillos estaba más sujeta la libertad de los legítimos representantes de la Nación. Se fijó también la duración de pocos meses a las sesiones de Cortes, y aunque esto debía ser según la urgencia de los negocios, traía la ventaja de que los nuevos no tuviesen tiempo de reformar lo hecho, y que pasándose los meses con dilaciones proyectadas, y sostenidas por algunos adictos, corriese la legislatura sin fruto. Esto era tanto más extraño en boca de quienes habían servido la diputación por años y que según el Artículo 100 tenían esperanza de perpetuidad por el estado de la guerra: a la verdad que en la delicadeza de aquellos Diputados para no acomodarse tan larga prórroga, pudo adoptarse el rumbo de repetir segunda elección en los mismos términos que se hizo la primera.
51.- En el Artículo 117 se nota el empeño de que los nuevos Diputados jurasen guardar y hacer guardar religiosamente esta Constitución, cuyo juramento es inconciliable con la libre función de un Diputado de Provincia que no había intervenido en su formación, y que podía considerarla perjudicial a los derechos de esta, y a los previos juramentos prestados al Soberano: así que el juramento en esta parte es ineficaz.
52.- Dijo el Artículo 126: que las sesiones serían públicas, y solo en los casos que exigiesen reserva, podría celebrarse sesión secreta: esta publicidad sin orden, sin número fijo de concurrentes, sin sujeción ni método, y, desenfrenados a tomar parte con gritos e insultos contra Diputados sensatos, ha sido el apoyo de la novación, y la que ha producido la nulidad de cuanto se ha hecho, porque faltos estos de libertad, no se atrevían a manifestar su dictamen; y las sesiones llamadas secretas, sobre escasearse todo lo posible, no han merecido este nombre. Gritar alguna vez el Pueblo a la puerta sobre que se acabasen, y cubrir de improperios a los que iban saliendo del Congreso, y no eran del número de los que por lisonjear sus caprichos con voces sonoras y nada significantes merecían su aplauso en las públicas, era el resultado.
53.- Bajo de este sistema el Artículo 128 siempre estuvo de más, aunque se escribió en él: Que los Diputados serían inviolables por sus opiniones, porque esto ha tenido más excepciones que palabras.
54.- El capítulo 7.º35 deja a las cortes tantas facultades36, que excediendo del sistema que propone la Constitución al principio, entorpece y dificulta el poder ejecutivo que atribuye al Rey.
55.- El capítulo 8.º habla del modo de formar las leyes; pero las reglas que prescribe son las menos a propósito para el acierto; no se prefija el orden de las antiguas cortes, ni la madurez con que se examinaban y discutían las materias sobre que habían de recaer; no apetece informe de los tribunales, y personas a propósito: y lo que ha sucedido es, que presentados a discusión los proyectos, sin previa noticia (algunas veces) de lo que iba a tratarse; y los más sin aptitud para deliberar a presencia del Pueblo espectador, solía este mofarse de lo que discurrían o votaban algunos; y aplaudían (sin entenderlo) lo que votaban otros. De repente solía darse por discutido, y alguna vez con la lectura de lo que no se oía, se daba por sancionado con el signo equívoco de sentarse o levantarse.
56.- El Capítulo 9.º habla de la promulgación de las leyes; pero sin arreglo a las costumbres y a las antiguas leyes de España y sus Cortes.
57.- El Capítulo 10.º priva a V. M. de la facultad de llamar a Cortes, que ha sido una prerrogativa esencial de la soberanía.
58.- En el Capítulo 1.º del Título 4 se habla de la autoridad del Rey; y para hacerla conciliable con los artículos anteriores necesita mucha explicación, si no ha de encontrarse contradicción a cada paso; pero en el Artículo 172 en que se limita la autoridad Real, se pone por primera restricción: que no pueda disolver ni suspender las Cortes, y que los que le aconsejasen o auxiliasen en cualquiera tentativa para estos actos, son declarados traidores, y serán perseguidos como tales. También esto es contrario a las leyes, impedir la libertad de consejo, remover la imparcialidad de un dictamen, y dejar tan dependiente la autoridad Real, que se la imposibilita hacer el bien de la Nación, y anonadado en España el carácter de monarquía. Por lo que creemos de obligación indispensable aconsejar a V. M. lo que sentimos, despreciando amenazas tiránicas.
59.- También se prohíbe al Rey conceder privilegio exclusivo a persona o corporación; y habiendo casos en que la pública utilidad así lo dicta, es impedirle la facultad de premiar, o de aumentar el bien e instrucción de su Pueblo.
60.- El Artículo 173 habla de la fórmula con que el Rey ha de jurar en su advenimiento al trono: y no sabemos si esto habla con V. M. porque ya tenía prestado su juramento antes de la Constitución. Pero se dice: por la gracia de Dios y la Constitución de la monarquía española: y la Corona de V. M. no es por esta Constitución: guardaré y haré guardar la Constitución [...] y que respetaré sobre todo la libertad política de la Nación, y la personal de cada individuo; y si en lo que he jurado o parte de ello lo contrario hiciere no debo ser obedecido [...] si dijera, según la antigua Constitución y leyes se suspenderá el cumplimiento por el magistrado, estaría bien; pero jurar la guarda de una Constitución que no ha puesto la Nación de acuerdo con V. M., y hacer al Pueblo juez de la inobservancia con la libertad de la inobediencia, es desquiciar el constitutivo de la monarquía, y dar margen a un continuo trastorno. Por todo exige el bien de España que V. M. no jure esta Constitución.
61.- En el Capítulo 2.º se fijó la sucesión a la Corona de España por el orden regular, y en el Artículo 180 se dijo: que a falta de V. M. sucederían todos sus descendientes; a falta de estos sus hermanos y tíos y sin distinción de sexos, guardándose el derecho de representación; y en decreto separado del mismo 18 de marzo de 1812 se excluyen de la sucesión a la Corona al Señor Infante Don Francisco de Paula, y su descendencia, y a la Señora Infanta Doña María Luisa, Reina viuda de Etruria, sin que hasta ahora sepa la Nación, con qué motivo se tomó rumbo tan extraño, opuesto a la antigua Constitución, reconocida por las naciones, en perjuicio de tercero que tenía adquirido derechos lineales, sin cuya intervención se revocaban. Añadiéndose, que aun en la sucesión de la Señora Infanta tenía mayor recomendación el pacto oneroso de su matrimonio: todo lo cual algún día podría acarrear guerras a España, por no ser aplicable el Artículo 181 en los términos que se concibió, para excluir la descendencia de quien por el Artículo anterior debía formar cabeza de línea en su caso (aun prescindiendo la certeza del pretexto), mayormente cuando la imposibilidad física o moral la suple en el Artículo 188 una Regencia, y el que sucede por representación, ocupa el lugar del inhábil o defectuoso37.
62.- El Artículo 188 parece no se fijó para observancia, permitiendo nombrar al sucesor inmediato: porque siendo notorio que tratábamos de tomar esta medida para hacer cesar lo expuesto que se hallaba el Reino con la falta de energía de la actual Regencia; no se han perdonado los medios más escandalosos para impedirlo38.
63.- Los artículos 226, 228 y 229, hacen el primero responsables a los secretarios del Despacho de las órdenes que autoricen contra la Constitución o las leyes; y se observa que responden de órdenes que no dan: que indirectamente se les autoriza para que impugnen su extensión, o para que pasen a la desobediencia, a título de si la Constitución se infringe o no. Por el 2.º, dictado a fin de hacer efectiva la responsabilidad de los secretarios, se reservan las Cortes la facultad de decretar que: ha lugar a la formación de causa: y en el mismo punto, por este decreto, queda en suspenso el secretario. En esto se observa contravenir a la división que hace la Constitución de los tres poderes; porque el declarar, si la Constitución (que no es más que una ley) está o no contravenida, es propio del poder ejecutivo, o del judicial en su caso, y nunca del legislativo. Reservarse la declaración de haber lugar a la formación de causa, y seguirse en el mismo acto la suspensión, es un contraprincipio; porque el suspender es parte de pena, y acaso la última en muchos juicios, y decretar esta por primer paso, antes de oír al reo, y convencerle, es usurpar la autoridad judicial, hacer esclavo al vasallo de la mayor tiranía, y crear el mayor monstruo en la legislación. Por otro nombre, esto fue dejar las Cortes una puerta franca, para tener sujetas todas las demás autoridades, e impedir a salvo sus funciones, o lo que es lo mismo, dejar en las Cortes el lleno de la soberanía despótica con todos sus atributos.
64.- De aquí ha dimanado, que diariamente vienen los vasallos con recursos da infracciones de Constitución, que es lo mismo que constituirse las Cortes juez de todas las quejas particulares, y en muchas se decreta (entre el ruido y algazara del Pueblo espectador) la grave pena de: haber lugar a la formación de causa. Y como el Artículo 254 dice: que toda falta de observancia de las leyes que arreglan el proceso [...] hace responsables personalmente a los jueces que las cometieren: y la voz de arreglar el proceso, es tan general e indefinida: de aquí proviene, quedar un campo ancho para decir con facilidad: haber lugar a la formación de causa, y para que los jueces vivan irresolutos en la administración de justicia.
65.- El Artículo 258 dijo: que el código civil y criminal y el de comercio serían unos mismos para toda la monarquía, contra el clamor de las antiguas Cortes de España. Acto continuo vimos nombrarse juntas o comisiones para arreglar estos códigos: y si en ellos ha de existir lo mismo que en los antiguos, sabios y meditados que tenía la Nación, excusado es que se forman sin otro fruto, que dar trabajo a la prensa: y si han de contener cosa distinta ¿habrá mayor desgracia, que no haber encontrado las Cortes de Cádiz cosa útil en los códigos que tenía la Nación recomendados con la experiencia de tantos siglos? Parece increíble que el deseo de innovar condujese aquellas Cortes hasta tal punto.
66.- Desde el Artículo 259 se fijó un Tribunal Supremo de Justicia, que pudo excusarse, existiendo el de Castilla, y otros que concordaban en el mismo atributo de Supremos de Justicia, ya los conocía la Nación de muy antiguo por la energía y tesón con que habían sabido defender la religión, eh Rey y la Patria. Y no poco influyó para las ruinas de las Américas la extinción del de Indias. La novena atribución de este tribunal se fijó en conocer de los recursos de nulidad, que se interpusiesen contra las sentencias dadas en última instancia, para el preciso efecto de reponer el proceso devolviéndolo, y hacer efectiva la responsabilidad de que trataba el Artículo 254. Con razón se han permitido cátedras para explicar la Constitución, pues por su letra en algunos pasajes está misteriosa: en este se echa por tierra la distinción y oportunidad con que se establecieron (por causas muy meditadas) los recursos de segunda suplicación, y el supletorio de injusticia notoria, que fijaban la última decisión de los juicios. Este oficio por el Artículo expresado no se concede al Tribunal Supremo; sino la sola declaración de haberse infringido la ley, devolviendo el proceso al tribunal, de donde se interpuso el recurso; más no dice el Artículo qué rumbo ha de tomar este entonces. Si de la nueva resolución que dicte, ha de haber lugar a repetir la misma reclamación de nulidad, será un proceder en infinito, y nunca llegará el fin del pleito, que es el mayor interés de la Nación.
67.- El Artículo 273 y el 274 hablan de establecer partidos para los jueces de primera instancia (que antes se llamaban Corregidores o Alcaldes mayores), a fin de conocer de lo contencioso en su Capital y Pueblos de su comprehensión; pero la experiencia tenía acreditado las fundadas diarias reclamaciones de privilegios de Villazgo, para no sufrir los vecinos los gastos y molestias de ir a buscar el juez fuera de su Pueblo; y estableciendo la Constitución este daño por regla general, han de ser inmensas las reclamaciones de perjuicios.
68.- El capítulo 2.º39 trata del juicio de conciliación, que ha de preceder a todo pleito: este pensamiento no es nuevo, porque en muchos consulados solían practicar lo mismo sin fruto; pues el que llega a comprometerse a las molestias de un litigio, es porque extrajudicialmente no ha podido sacar partido de aquel, a quien intenta demandar. Es además inútil cuando se manda: porque si las partes no consienten, el tiempo es perdido, y aumenta la dilación el daño; siendo otro, que en el juicio ejecutivo es un aviso, para que el demandado quite muchas veces de en medio lo que podía asegurar la deuda: y aún hay otros inconvenientes que enseña mejor la práctica.
69.- El capítulo 3.º trata de la Administración de Justicia en lo criminal, y desde el Artículo 287 se presenta el método con que ha de procederse contra los reos. Las ideas en abstracto a veces aparecen con un colorido lisonjero; pero contraídas a la práctica no permiten ejecución: así es, que dictada la Constitución, los caminos y poblados están llenos de malhechores, no se experimenta el castigo, los ofendidos miran como infructuosa la queja, resueltos más bien a tomarse la justicia que a reclamarla, y los jueces se consideran impedidos de aplicar remedio, hallando una dificultad en cada Artículo: de forma, que solo hallamos libertad en el delincuente, y esclavitud en el buen vasallo.
70.- Los muchos delitos no son efecto de la revolución sino de la impunidad. Si ninguno ha de ser preso, sin que preceda
información sumaria (capaz de formar concepto sobre ella, de que merece ser castigado con pena corporal), y asimismo un mandamiento del juez por escrito que se notifique en el acto de la prisión40: el juez no puede prender en un pronto, y la queja está de más en el momento, porque no puede haber autoescrito sin previa información escrita, y entre tanto escribir, el reo se ha fugado. El delito en despoblado queda impune; y el hecho en poblado, sin posibilidad de acusación: porque los delincuentes no se han de presentar al público a cometer sus excesos, ni todo vasallo puede ir rodeado de una guardia, para que le sirva de testigo en cuanto le ocurra.
71.- Verdad es, que el Artículo 292 dice: que in fraganti todo delincuente puede ser arrestado y conducido a la presencia del juez: y aunque rara vez un ofendido, esforzado pueda sorprender al reo y presentarlo, existe la misma dificultad de la información y la obligación de presentar en el pronto todos los pasos de una sumaria a instancia de parte, sin que la vindicta pública ponga nada suyo para defender de oficio al vasallo, como está obligada: y así se ve, que según la Constitución no se conocen causas de oficio en que la ley por la seguridad del Estado (en delitos que no tienen delator) procure el castigo del reo para el escarmiento de otros; pues se impiden las fundadas causas de inquirir, y por el Artículo 306 se excluye por regla general hasta el reconocimiento de la casa en que haya presunta de estar lo robado, el cómplice, el delincuente mismo, u cualquiera otro cuerpo de delito, y si bien es verdad que dicho Artículo añade la excepción: sino en los casos que determine la ley para el buen orden y seguridad del Estado; aún no ha llegado esta ley desde el 18 de marzo de 1812, y los delitos se han multiplicado de día en día.
72.- El Artículo 293 dice: Que si se resolviere que al arrestado se le ponga en la cárcel [...] se proveerá auto motivado, y de él se entregará copia al alcaide: sin cuyo requisito no admitirá este a ningún preso en calidad de tal: de esto ninguna utilidad puede sacarse, y puede haber dos perjuicios, uno que se trasluzca el objeto de la causa, y se pueden fugar los cómplices; otro, permitir insubordinación al alcaide: y que también tenga libertad de juzgar infracciones de Constitución; cuando debe ser un mero ejecutor de lo que se le mande.
73.- El Artículo 294 y siguientes permiten el embargo de bienes, solo en proporción a la cantidad de que el reo pueda ser responsable por su delito, y que no será llevado a la cárcel el que dé fiador en los casos en que la ley no la prohíba: de forma que se quiere que el juez sea profeta, al mismo tiempo que la ley le prohíbe que juzgue por capricho, sino por lo alegado y probado. ¿Y quién es el juez que desde el primer paso de una causa ha de saber adónde llegará su responsabilidad pecuniaria? ¿Ni quién desde el ingreso de un proceso (que aún no ha desplegado todo su carácter) ha de comprender si al fin del sumario, será de los en que el reo pueda ser suelto bajo fianza? En esta incertidumbre amenazado el juez de la responsabilidad, elige el camino de la inacción, que es el que puede dejarle menos expuesto, pero impunes los delitos.
74.- El Artículo 304 dice: Tampoco se impondrá pena de confiscación de bienes: cuyo precepto parece viene regido del no se usará nunca del Artículo precedente; mas sobre esto se hizo reforma en la suerte que han experimentado algunos reverendos Obispos41.
75.- El Artículo 308 confirma en parte lo que acabamos de expresar, pues dice: que si en circunstancias extraordinarias la seguridad del Estado exigiese la suspensión de alguna de las formalidades prescritas en este capítulo para el arresto de los delincuentes podrían las Cortes decretarla por un tiempo determinado. No sabemos qué nuevas circunstancias se esperaban: porque el desorden que se ha tocado era una consecuencia necesaria del precepto; mas como muchos clamaban por el remedio de tanto daño, no ha faltado en las Cortes actuales quién indicase la necesidad de esta suspensión pero apellidando este paso, contravención a la Constitución, y habiendo muchos espectadores deseosos de que no se diese, ni principiásemos a remediar males, ha corrido hasta ahora sin novedad lo que más la merecía.
76.- En el Capítulo 2.º del Título 6.º se crean jefes políticos de las Provincias, que motivan un sobrecargo de millones anuales a la Nación, y según las funciones que se les han demarcado eran las mismas que antes ejercían los jefes de los tribunales sin este gravamen. Al propio tiempo por el Artículo 325 se crean Juntas Provinciales, para promover su prosperidad: y aunque el pensamiento al parecer es bueno; la ejecución nunca corresponderá a él; y si no examínese lo que hasta ahora se ha verificado. Mientras menos cuerpos colegiados haya y menos encargados, la ejecución de la ley y la prosperidad de la Nación serán más expeditas y enérgicas.
77.- Por último el Artículo 375 dice: que hasta pasados ocho años después de hallarse puesta en práctica la Constitución en todas sus partes no se podrá proponer alteración, adición ni reforma en ninguno de sus artículos. Es la primera ley que ha tenido esta suerte, porque si al presentar el perjuicio o inoportunidad, todas han permitido la suspensión o reforma por la misma soberanía que la establece: esta Constitución, aunque desde el día siguiente de publicarse esté causando daño a la Nación, tiene que sufrirla por ocho años, solo porque así lo quisieron las Cortes de Cádiz.: y como este término ha de principiar a correr desde que sea puesta en práctica la Constitución en todas sus partes, y ella abraza la formación de multitud de reglamentos, y códigos civil, criminal y de comercio (que acaso en treinta años no estarán conclusos según la meditación que pide una obra de tal tamaño), quiere decir que al cabo de cuarenta quizá, según este Artículo, no podrá pedirse la reforma.
78.- Pero es más particular el Artículo 376 que previene: que para cualquier alteración ha de ser necesario que los Diputados que la decreten, vengan autorizados con poderes especiales para ello. ¿Y es posible que los que la formaron no tenían poder alguno, y menos el especial, y ha de ser preciso este para la reforma? En los Artículos siguientes lo que se lee es, un deseo de poner trabas y dilaciones a cualesquier alteración de la Constitución, sin reparar aquellos Diputados en que representando unas y otras Cortes a la Nación (aunque hubiesen sido las primeras legítimas) no podían poner trabas a las actuales, y sucesivas.
79.- Aunque sentimos molestar tan detenidamente la atención de V. M. no podemos omitir en este papel la idea que tenemos con nuestras Provincias de ese encanto de la popularidad, de esa barrera que se ha opuesto a nuestros trabajos en beneficio de la Patria, de esa Constitución tanto más odiosa, cuanto más se acerca a ser traslado de la que dictó la tiranía en Bayona, y de la que ató las manos a Luis XVI en Francia, principio del trastorno universal de Europa, de ese código en fin, cuya duración conduciría al Pueblo a su precipicio42.
80.- También leímos los pasos posteriores: Por decretos de 14 y 18 de marzo de 1812 se mandó publicar esta Constitución, y en seguida la orden de la Regencia para su observancia. Se acordó que en la Iglesia se leyese antes del ofertorio, y se señaló la fórmula con que habían de prestar el juramento los vecinos (que por cierto fue un acto muy parecido, al que decretó el Gobierno francés en Madrid para la jura del rey intruso): mas como estaba bloqueado Cádiz a la formación de esta Constitución, apenas fueron quedando los Pueblos libres de franceses, se les comprometió a hacer este juramento, y nunca se pidió a las Provincias el previo consentimiento y su sanción, o lo que es lo mismo, no se les permitió que examinasen detenidamente su mérito, y manifestasen su anuencia.
81.- En el mismo día 18 de marzo se derogó la ordenanza de caballería, que era cuando más se necesitaba43. En 12 de abril siguiente se mandó a la Regencia, que en la provisión que hiciese de empleados públicos nombrase personas conocidamente amantes de la Constitución, y que hubiesen dado pruebas positivas de adhesión a la independencia de la Nación: por este medio se hacían adictos a una Constitución que les alimentaba, y odiosos y desvalidos los que no querían olvidar las leyes y costumbres de sus mayores, y el valor del juramento que tenían prestado a V. M.44.
82.- En II de agosto de 1812 principiaron los decretos contra los empleados, que habiéndolo sido por los señores Reyes, toleró su continuación al intruso sin despedirlos. Este paso, que ha arruinado miles de familias, suponía delito el no haber emigrado a Cádiz, donde la puerta no estuvo franca, y se olvidó, que con estar en sus casas han evitado mayores males; han ayudado a la reconquista, y dado lugar a que exista Nación que V. M. vuelva a gobernar. Fue paso por su generalidad injusto y por las circunstancias, antipolítico, capaz de resfriar el patriotismo, y añadir fuerzas a los franceses45.
83.- En 17 de agosto del propio año ampliando las Cortes la autoridad legislativa como única que se habían reservado, privaron de honores, empleos, y expatriaron al reverendo Obispo de Orense, por haber jurado la Constitución después de hacer varias protestas, y se extendió igual pena a todo español que en el acto de jurarla, usare o hubiere usado de iguales reservas: y que en el caso de ser eclesiástico, se le ocuparían además las temporalidades. Este empeño de aterrar porque jurasen, en época en que se titulaba a todos libres para manifestar su pensamiento por escrito y de palabra, es lo que más prueba la falta de libertad en el juramento, la de consentimiento general de la Nación, y el recelo de que no lo habría46.
84.- En 14 de octubre siguiente las Cortes por sí, y en uso de su suprema autoridad decretaron la abolición del voto de Santiago, aunque había perjudicado de tercero y era negocio pendiente en tribunal de justicia47.
85.- En 4 de enero se acordó reducir a dominio particular los baldíos y terrenos comunes, sin embargo de que a mediados del siglo pasado, los inconvenientes demostrados de igual medida, obligaron a revocarla por interés de los Pueblos48.
86.- Desde el decreto de 18 de febrero del mismo año se principiaron a dictar providencias acerca de Regulares49; pero en términos y con tales restricciones, que vinieron a quedar (si cabe) de peor condición que en el gobierno intruso. Las Provincias no pudieron mirar sin admiración unas medidas semejantes a las que acababan de detestar, ni dejaron de conocer su injusticia. Los vasallos se alistaron en las religiones bajo la garantía del Gobierno que las había permitido en la sociedad: sus votos y renuncias habían descansado en esta confianza, y eran acreedores de justicia a volver a sus Conventos (en cuya esperanza habían ayudado a la salvación de la Patria), y a la posesión de los bienes, de que sus corporaciones tenían un dominio libre, como los demás particulares, sin deber ser de inferior condición: ni permitía la decantada igualdad se manifestase odio a ninguna clase del Estado; y menos cuando la misma Silla apostólica no había querido asentir a las amenazas del tirano de la Europa, para que accediese a la extinción de los Regulares. Pero en su reposición, más que estos, ganaba la Nación: los bienes en su mano mantenían muchas familias, y cubrían cuantiosas cargas y contribuciones, que aliviaban a los demás vasallos (a quien se dice querer favorecer): los mismos bienes en manos de administradores apenas producen para pagar sus sueldos. El abandono de las fincas minora la riqueza nacional con la falta de producto: y si se han de cumplir o hubieran cumplido las asignaciones alimenticias que se hicieron a los propios Regulares (como debía haberse hecho), se seguiría un injusto sobrecargo al vecino contribuyente. Tales son, Señor, las fatales consecuencias de órdenes no premeditadas.
87.- En 22 de febrero de 1813 se dictó la abolición de la Inquisición50. El sistema adoptado en este papel y el deseo de no ocupar la soberana atención más de lo preciso, nos impide indicar las muchas especies oportunas, con que algunos sabios Diputados impugnaron este proyecto. En cualquier establecimiento debe mirarse, primero su necesidad; y no es dudable, que debe haber un protector celoso y expedito para mantener la religión sin la cual no puede existir ningún gobierno. Si en las reglas adoptadas para hacer eficaz esta protección, el ejercicio hubiese acreditado su impotencia o sus defectos, es justo se mediten y reformen; pero poner la segur al pie en todo establecimiento, no es modo de remediar males; sino quitar de la vista el que se cree, dejando la raíz para otros mayores. El medio que se subrogó es parecido a la substanciación de juicios de que trata la Constitución, para que entre el juez eclesiástico y secular jamás llegue a castigarse el delito, que era objeto de la Inquisición extinguida. Y en verdad que desde la expedición de este decreto no hay noticia de una sentencia que haga intacta la religión católica; de lo que sí la hay es, de multitud de papeles que han corrido impunes hablando con mofa de los misterios más venerables: ser asunto de la crítica de los jóvenes (menos recomendados por sus costumbres) los misterios mismos, y la doctrina más antigua y respetable de la Iglesia. Ha mucho tiempo, Señor, que los filósofos atacaron este baluarte de la religión, bajo el pretexto de hacer observar las facultades de los obispos: queriendo emularlos con igualdades a la suprema Cabeza de la Iglesia, para después de oprimir aquellos, por nueva emulación de igualdades con los Párrocos, llegar al término de reducir la verdadera religión a mero nombre.
88.- Creer que con la impunidad ha de mantenerse la religión de que habla el Artículo 12 en época en que la relajación ha hecho tantas conquistas, y tenido tan rápidos progresos, es fijar en un imposible la conservación del santuario, que con tanto respeto ha mirado siempre España. El empeño que se formó de leer esta abolición en la Iglesia al ofertorio de la misa mayor, y el manifiesto que las mismas Cortes habían compuesto con este objeto, dio margen a contestaciones y disgustos, de que dimanó la ausencia de muchos obispos, y de la única prenda que teníamos de nuestro afligido Pío VII, y llenaron en fin de amargura a los fieles piadosos: sin hallarse otros semblantes alegres, que aquellos de quienes arrancado este freno, podrían precipitarse impunes en la carrera de su libertad.
89.- Por último en 13 de septiembre de 1813 se extinguieron las rentas provinciales, las estancadas; y subrogó la contribución directa. Pensamiento antiguo; mas siempre impracticable por los escollos en que da su ejecución; puesto hoy en práctica con el mayor desarreglo y gravamen de las Provincias; y en fin novedad siempre inoportuna en época en que se necesitaban continuamente fondos de pronta recaudación; desembolsos suaves e insensibles a Pueblos fatigados: artículos de contribución expedita y cierta, que diesen confianza a cualquier préstamo y expedición momentánea, que siempre falta en el tránsito de un sistema antiguo a otro nuevo; y más si es mirado este con la desconfianza de que ya otra vez no pudo practicarse51.
90.- Leímos, pues, esta multitud de providencias de las Cortes de Cádiz, y vimos que la exaltada imaginación de sus autores atropelló de un golpe cuanto había producido la literatura española en muchos siglos, queriendo obscurecer su inmortal memoria por captarse el aura popular, como inventores de un nuevo camino que han titulado feliz, a pesar de desmentirlo sus efectos. Pero mientras tenían a menos seguir los pasos de los antiguos españoles; no se desdeñaron de imitar ciegamente los de la Revolución francesa. Véanse para prueba los decretos de la Asamblea nacional de Francia, después que por sí, contra los objetos de su reunión, y expresa voluntad del Rey, se erigió en Cuerpo constituyente. En el año de 1789 se acordó dar principio a la Constitución: se decretó la Soberanía nacional: se pusieron a disposición de esta todas las propiedades del clero: se decretó la extinción de los parlamentos: y se estableció un nuevo Poder judicial.
91.- En el año de 1790 se extinguieron todos los derechos de señorío, se declaró la religión del Estado. Se dijo: que los poderes conferidos a los Diputados debían ser amplios: se restringieron las facultades y derechos del Rey, sujetándolos al conocimiento de la Nación: se expidieron indultos para granjear la popularidad: se notó la audacia de los periodistas vanamente denunciada a la Asamblea: esta admitió denuncias y querellas de todas especies, principalmente contra los ministros y obispos: la Asamblea repartió en Comisiones el conocimiento de todos sus negocios, y se vio la persecución y arresto de los parlamentos.
92.- En el año 1791 se acordaron las obligaciones de los miembros de la familia reinante, cuyo quebrantamiento suponía renuncia o abdicación de la Corona: se acordó la Regencia del Reino: se mantuvo la popularidad en favor de los facciosos, y se presentó la Constitución. Se explicaron los votos levantándose o manteniéndose sentados: se señaló el tiempo en que no podría variarse la Constitución a pesar de los debates, y grande oposición que se hizo con reflexiones las más sabias y concluyentes. El Pueblo recibió mal la Constitución, e insultó de todos modos a los principales miembros del Partido Constitucional. Los poderes de los miembros de la Asamblea ordinaria fueron sujetos a la determinada fórmula por la Constitución. Se hizo reglamento de policía interior de la Asamblea y en el año de 1792 se vio la extinción del suplicio de horca. Remitimos al silencio las tristes consecuencias de estos antecedentes: y la inocente sangre que derramada desde el cadalso sobre los parricidas y sus generaciones no ha cesado de pedir su desagravio al cielo.
93.- Al cotejar estos pasos con los dados en Cádiz por las Cortes extraordinarias, al ver que no les habían arredrado las tristes resultas de aquellos, sin desengañarse de que iguales medidas habían de producir idénticos efectos, admiramos que la probidad y pericia de algunos concurrentes a aquellas Cortes, no hubiesen podido desarmar tantos caprichos, hasta que nos enteramos de que por los exaltados novadores se formó empeño, de que asistiesen a presenciar las sesiones el mayor pueblo posible, olvidando en esto la práctica juiciosa de Inglaterra. Eran, pues, tantos los concurrentes, unos sin destino, otros abandonando el que habían profesado, que públicamente se decía en Cádiz ser asistentes pagados por los que apetecían el aura popular, y había formado empeño de sostener sus novaciones; mas esto algún día lo averiguará mejor un juez recto. La compostura de tales espectadores era conforme a su objeto vivas, aplausos, palmadas, destinaban a cualquiera frase de sus bienhechores; amenazas, oprobios, insultos, gritos, e impedir por último que hablasen, era lo que cabía a los que procuraban sostener las leyes y costumbres de España. Y si aún no bastaba, insultaban a estos Diputados en las calles, seguros de la impunidad. El efecto había de ser consiguiente en estos últimos amantes del bien: esto es, sacrificar sus sentimientos, cerrar sus labios, y no exponerse a sufrir el último paso de un tumulto diario: pues aunque de antemano se hubiesen ensayado como Demóstenes (que iba a escribir y declamar a las orillas del mar, para habituarse al impetuoso ruido de las olas), esto podía ser bueno para un estruendo casual que cortase el discurso; mas no para hacer frente a una concurrencia tumultuada y resuelta, que hería el pundonor.
94.- Sorprendidos los españoles con estas noticias se preguntaban, no menos confusos que en el 2 de mayo de 1808. ¿Qué nuevo torrente de males se despeña sobre nosotros? No ha levantado la suprema justicia el azote, pues que aún nos aprisiona con más pesada cadena de infortunios. Nuevo luto cubrió a las Provincias, y volvieron a suspirar por la presencia de V. M., que serenaría la borrasca. En este estado deseábamos indagar la causa, y pudimos entender, que algunos poco de los que habían eludido las vejaciones francesas insensibles al mal que no habían visto sus ojos, dormidos en delicias que para los demás eran desgracias, y por casualidad entraron en las Cortes de Cádiz, se vieron sorprendidos (a pesar del mejor deseo) de las máximas con que los filósofos han procurado trastornar la Europa, y sin advertirlos, se hallaron contagiados de la animosidad emprendedora de aquellos. Sí, Señor, se vieron engañados, por no advertir que tales filósofos son osados, porque miran con desprecio una muerte que no recela ulterior juicio: aman la novedad por ostentar la sabiduría de que no poseen más que el prospecto, preocupados de ideas abstractas, ignoran lo que dista la teórica de la ejecución, principal punto de la ciencia de mandar. Están poseídos de odio implacable a las testas coronadas; porque mientras existan, no puede tener pase una filosofía revolucionaria, cuyo blanco es la libertad de costumbres, la licencia de insultar por escrito y de palabra, triunfar a costa del menos atrevido, y vivir en placeres con el sudor del mísero vasallo, a quien se alucina con la voz de libre: para que no sienta los grillos con que se le aprisiona, todo lo que produce la inquietud del Estado, y al fin su total ruina.
95.- Repítese que estas venenosas máximas de los filósofos sorprendieron a algunos pocos, y creyeron aquellos que estando huérfano del Reino, era llegado el momento de tenderle sus lazos; enconados de no haberlo podido conseguir en los religiosos reinados de la casa de Borbón: y se notó el efecto de la tentativa, pues allí se vio en unos la ingratitud a V. M., y si bien no hay leyes particulares como en Egipto y Persia para castigar al ingrato; podrá ser un aviso para posteriores elecciones de empleados. Allí se vieron otros, que habiendo sido justamente olvidados del Gobierno aspiraban ahora a la más alta dignidad, que miraban como corto premio a su fingido mérito. Allí otros, que poseídos de un espíritu de elación, miraban con vilipendio al prudente, al estudioso, que por fruto de sus tareas solo averigua, que nada sabe con perfección; mientras ellos sin estudio hacían ostentación de ciencia infusa, aun en los ramos que les eran más nuevos. Allí se vieron otros, que disgustados de su pequeñez portaron de raíz las jerarquías sin las que no puede existir ningún gobierno monárquico, para que quedando todos a la par, fuese mejor visto el que jamás tuvo esperanza de llegar a la marca. Allí se vieron otros, que poseídos del espíritu equivocado que hizo odioso al mismo Maquiavelo, en nada hallaban barrera, y avanzaron a obscurecer los principios de derecho natural impresos en el corazón, el de gentes que es consecuencia de aquel: y equivocando hasta los del derecho público, se vieron con engaño resueltos a servir de instrumento para ejecutar los planes de la moderna filosofía.
96.- ¡Oh cuán dañoso es el mal ejemplo! Esta misma filosofía en la revolución francesa tentaba a sus sectarios como en otro tiempo se tentó al Redentor: si postrado me adoráis yo os ensalzaré en todos los destinos, os haré dueños de todas las contribuciones del Estado, haré que los ejércitos sean el juguete de vuestros caprichos, que el Clero y la Nobleza sirvan de alfombra a vuestra exaltación: que el continuo gemido del empleado, de la viuda, de la huérfana, sirvan de placer a vuestro insensible corazón, infundiré el terror, para que ninguno ose impugnaros: sembraré el desorden, para que ninguno acierte a dónde dirigir sus quejas: insultaré a los buenos por escrito y de palabra, para que sellen sus labios: alucinaré al Pueblo con lo que más dista de nuestros deseos: la voz de igualdad (siempre imaginaria), la de libertad (siempre una quimera en sociedad donde no manda la razón), la exención de cargas sin las que no puede existir un Estado: la irreligiosidad (detestada aún entre las Naciones más incultas) serán resortes prevenidos, para que corráis desenfrenados: os libertaré de la impugnación, y todo, todo será para vosotros, sin que de vuestra parte pongáis más que la animosidad y ciega condescendencia a mis proyectos, ¡infernal tentativa para almas no ensayadas en la fidelidad monárquica!
97.- Orgullosa esta falsa filosofía con triunfos extranjeros, procuraba abrir el sepulcro a nuestra heroica Nación, sumergiendo en él, hasta el nombre de su adorado Fernando. Cuadro tan horroroso fue detestado por nuestras Provincias, y definido a fondo por sus sensatos, trataron del remedio, considerándolo por mayor ataque, que el que acababan de sufrir de las bayonetas francesas: porque en semejantes planes de revolución bastan pocos osados para imponer a muchos prudentes, tímidos o incautos, y produciendo en algunos cierta diversidad de opinión, hallan en los más la irresolución y encogimiento con especialidad después de cansados de la lucha y abatidos del hambre, que es la mejor disposición52.
98.- Trataron, pues, las Provincias del remedio por el solo rumbo que les dejó abierto el Gobierno: tal era elegir representantes de su confianza, que concurriendo a las actuales Cortes ordinarias las salvasen del precipicio que les amenazaba. Verdad es, que algunos jefes políticos poseídos del espíritu del Gobierno, tuvieron no pequeña parte en varias elecciones; mas no toda la necesaria para impedir que dejasen de ser electos, hombres de carácter, instrucción y probidad capaces de llenar sus deseos: a fin, pues, de realizarlos tomaron en consideración el mal, y meditaron su cura; mas era la llaga envejecida, y los instrumentos para su curación, estaban en manos del autor de aquella, y era imposible arrancárselos sin un funesto estremecimiento53.
99.- Debía ser el primer paso elegir el campo de la lucha, pues Cádiz era un Castillo de que solo el gravoso Gobierno tenía las llaves. Sabíamos que los más instruidos y afectos a V. M., que habían concurrido a aquel Congreso, fueron mudos: porque la vez que rompieron el silencio, los habían cubierto de oprobio, y comprometido su existencia al furor de un Pueblo alucinado con declamaciones, especies inexactas, y proyectos dorados para encubrir su veneno. Sabíamos que la influencia de la popularidad espectadora decidía los asuntos más graves y las más transcendentales innovaciones con su mofa, insultos y atropellos. Sabíamos que la impunidad era el signo, con que el Gobierno manifestaba su condescendencia, equivalente a una licencia expresa de ajar a los hombres de bien: así que tomaron nuestras opiniones distinto rumbo para lograr un propio fin. Algunos pasamos a Cádiz para votar la salida del Gobierno: otros resistimos la ida a aquel puerto, para que las Cortes viniesen a Madrid, obligadas de faltarles votos con que hacer Ley, y como a sitio escrito en la Constitución. Para burlar este deseo, que tuvo el Gobierno a mal pronóstico, no es fácil referir a V. M. las conmociones populares que hubo en Cádiz sobre impedir su salida, los obstáculos con que se dificultó este paso, la destreza con que se manejó el mayor impedimento de una epidemia, que en un principio no lo fue; y después verdadera, arrancó las lágrimas de muchas familias inocentes sacrificadas al capricho y fines siniestros de los que mandaban. Y en fin no son numerables los compromisos en que nos pusieron los jefes políticos y comandantes militares, por no querer ir a la clausura de aquel puerto a ser el juguete de tanto desenfreno54.
100.- Cedieron, pues, a la necesidad los que deseaban fijar las Cortes en Cádiz, y vinieron a Madrid: momento deseado de todos, por creer que en él se labraría la felicidad de España, y que con la ejecución de nuestros buenos notorios deseos, se enjugarían las lágrimas que nos habían traído al centro de la Península. Mas vemos que Dios nos ha privado de esta gloriosa empresa por tenerla reservada a V. M., en cuya soberana persona ha hecho tantas veces ostentación de sus prodigios.
101.- Vencido, pues, este primer paso, giramos nuestros planes, mientras los contrarios de ellos proyectaban minarlos con el lleno de proporciones que les daban los caudales de la Patria, la condescendencia y debilidad de su Regencia55, y tener a su disposición la fuerza militar y política, por otro nombre el premio y el castigo. No quisiéramos afligir el compasivo corazón de V. M. con la negra historia de la revolución que hemos sufrido en su ausencia; mas como pide remedio, no debe remitirse al silencio este relato, corto, respecto de lo que se omite.
102.- Ahora exige el orden que V. M. se digne oír, cuáles eran nuestros deseos como representantes de la nación, y por consiguiente la voluntad de esta: cuáles sus fundamentos: qué rumbos han tomado los exaltados para dejarlos ilusorios: y cuán crítico ha sido el momento, en que Dios ha enviado la Persona de V. M. para salvar a España de su naufragio: porque hallándonos precisados a dar un manifiesto a nuestras Provincias de su estado, era de recelar su desunión, y que nuevos males presentasen los últimos efectos de la anarquía, en que las había sumergido el Gobierno: resignándonos en la máxima de un Político, de que cuando un Estado amenaza ruina, y esta no puede detenerse; vale más que se pierda que perder la reputación, pues sin ella nunca se podrá recobrar. Pero lo triste de este último remedio hacía trémula la pluma con que íbamos a firmarlo.
103.- Protestamos a la faz del mundo no ser nuestro ánimo ofender a persona alguna; criticar sí, opiniones que en la nuestra son erradas; pero con la firmeza que apetece la verdad, y con el noble y respetuoso decoro, con que siempre España habló por sus Cortes a sus Príncipes. Sentimos que para hacer disculpable la Constitución de Cádiz, se haya envuelto al Pueblo en la creencia de que a ella deben su libertad, siendo así que se la han conseguido las armas Aliadas, a los valerosos soldados españoles bajo la dirección del inmortal Wellington, de ese héroe superior a todo elogio, a cuya presencia vino a deshacerse el carro, en que la fortuna conducía el mayor monstruo coronado que vio la especie humana y que los autores de esa Constitución solo han contribuido a disgustar las tropas; y también se le ha hecho creer que nuestros Reyes no tenían ni se gobernaban por Constitución, que eran unos déspotas, los súbditos esclavos, y que era menester arrancarles el cetro de hierro, o atarlo para mantener ilesa la libertad, la igualdad, los derechos imprescriptibles del hombre (voces sonoras, pero nada significantes). Sí, Señor, Constitución había, sabia, meditada, y robustecida con la práctica y consentimiento general, reconocida por todas las naciones, con la cual había entrado España en el equilibrio de la Europa, en sus pactos, en sus tratados, en las ventajas de su unión y libertades, en la observancia de sus derechos de gentes, y en las obligaciones de sus relaciones políticas. Pero, Señor, algún tiempo hubo despotismo ministerial digno de enmienda; mas este no es falta de Constitución, ni defecto en ella, sino abuso de su letra. Constitución tienen hoy (según apellidan a la de Cádiz), esta lisonjea sus deseos; y jamás hubo más despotismo, menos libertad, más agravios, y más peligros en la seguridad interior y exterior de la monarquía: será, pues, también abuso, porque el hombre no es perfecto, y esto no se salva con mudar de Constitución cada día.
104.- Cualesquiera que sean las circunstancias no debe olvidarse, que la convocación a Cortes perteneció en todos tiempos, y en toda monarquía al Príncipe, o a quien en su nombre gobierna: que solo a él toca abrirlas por derecho y regla de pública conveniencia; pero su disolución o prolongación bien puede tocar al Príncipe con aprobación y consentimiento de las Cortes mismas, según era antigua ley y práctica en las de Aragón.
105.- Las del Reino, sus usos y costumbres prevenían que en los hechos grandes y arduos se juntasen Cortes, cuya práctica se observó en los Reinos de León y Castilla desde el origen de la monarquía hasta el siglo XIII. En esta época hasta el siglo XVI las Juntas Nacionales fueron más frecuentes, solemnes e importantes: porque sin contar con los casos que abrazan las leyes de la Recopilación, para que se hiciesen con consejo de los tres estados del reino, establecía la ley de Partida la necesidad de celebrarlas (entre otros objetos) luego que muriese el Monarca reinante, para que todos los del Reino hiciesen homenaje y juramento de fidelidad al legítimo heredero de la Corona: para que resolviesen las dudas que pudiese haber sobre la sucesión: para nombrar Regente o Regentes de la monarquía, si el Príncipe heredero se hallase imposibilitado, y para otros objetos semejantes.
106.- Así se practicó constantemente por espacio de cuatro siglos, como aparece en las actas de aquellos Congresos: a cuya semejanza aspiraba V. M. en su decreto de Bayona, considerando que lo actuado en ellas debía ser reputado por un tesorero de sabiduría, economía y política: pues por las facultades dimanadas del derecho del hombre en sociedad, y de los principios esenciales de nuestra Constitución los vasallos contraían la obligación de obedecer y servir con sus personas y haberes al Soberano y a la Patria; y este la de hacer justicia, sacrificarse por el bien público, observar las condiciones del pacto, las franquezas y libertades otorgadas a los Pueblos, guardar las leyes fundamentales, no alterarlas ni quebrantarlas, y en fin regir y gobernar con acuerdo y consejo de la Nación.
107.- Así lo dijeron al Señor Don Carlos V los procuradores de las Cortes de Valladolid del año 1518 con la energía propia de la razón; pero inseparables del respeto, para que el Soberano enterado de la raíz de los abusos, pusiese la segur al pie para conseguir el bien general de la monarquía.
108.- Los derechos de la Nación junta en Cortes se expresaban con los modestos títulos de consejo, súplica o petición; pero no es menos cierto que los Señores Reyes debían responder, y respondieron por escrito a sus peticiones, conformándose casi siempre con ellas: lo que se verificó hasta el tiempo de la dominación austríaca en España, tiempo en que empezó el abuso y arbitrariedad de los ministros; y a decaer la autoridad de las Cortes, contestándoles con palabras ambiguas; y comenzó también por esto a decaer la monarquía, excusando los ministros cuanto les fue posible la convocación de Cortes, a pretexto de la libertad con que los representantes de la Nación argüían la defectuosa conducta de ellos, refrenaban su ambición, y prevenían remedios oportunos para curar los males y dolencias de la monarquía.
109.- Los Monarcas gozaban de todas las prerrogativas de la soberanía, y reunían el poder ejecutivo y la autoridad legislativa; pero las Cortes en Castilla con su intervención templaban y moderaban este poderío. Los representantes de la nación deliberaban con el Rey sobre la paz y la guerra; tenían en su mano dar o negar los auxilios pecuniarios, y disponer de la fuerza militar peculiar de los Pueblos. Por esto los procuradores de las Cortes de Valladolid de 1520 en el Artículo 22 de ellas dijeron: que cada y cuando el Rey quisiere hacer guerras, llame a Cortes a los procuradores, a quienes ha de decir la causa, para que vean si es justa o voluntaria y si lo primero, viesen la gente que era necesaria, para que sobre ello proveyesen lo conveniente; y que sin voluntad de dichos procuradores no pudiese hacer, ni poner guerra alguna.
110.- En el poder legislativo sucedía, que los Señores Reyes de Castilla no tenían facultad para anular o alterar la legislación establecida: y cuando hubiese necesidad de nuevas leyes; para que fuesen habidas por tales, se debían hacer y publicar en Cortes con acuerdo y consejo de los representantes de la Nación. Así lo decían a los Señores Reyes Doña Juana y D. Felipe los diputados de las Cortes de Valladolid de 1506 en la petición sexta56, recomendando las distintas costumbres de los Pueblos, para la diversidad de remedios (cuya máxima, también se olvidó en Cádiz). Esta petición se repitió reinando el Señor Don Felipe III, que es la primera de las Cortes de Madrid 1607 publicadas en esta Villa 161957
111.- No es dudable según se ha indicado, que desde el origen de la monarquía hasta el siglo XIII los Señores Reyes de León y Castilla procedieron siempre en los puntos y casos comunes y ordinarios de gobierno con acuerdo de su Consejo; y en los arduos y extraordinarios con el de la Nación representada en Cortes. El Señor Rey Don Sancho IV y su descendencia debieron la Corona al voto de la Nación junta en las Cortes de Segovia de 1276, a que asistieron los Infantes, los Maestros, los Ricos-hombres, Infanzones y Caballeros, y los Procuradores de los Concejos de las Ciudades, Villas y Lugares del Reino, porque sabían que a los Señores Reyes no asistía facultad para disponer de sus estados, sino en conformidad a lo que disponen las leyes; ni para derogar o variarlas sin las Cortes, y en fin muchas otras resoluciones de estas pudieran citarse desde fines del siglo XIII, en que tomando enérgicas disposiciones, y dando acertados consejos a los Sres. Reyes en sus apuros salvaron la Nación de sus convulsiones interiores; y aun de las fuerzas extranjeras que las sostenían, afirmando la Corona en las sienes de los Soberanos que han precedido a V. M. decidiendo para ello las dudas que lo impedían.
112.- Repetimos, Señor, que comenzado el despotismo ministerial con la venida del Señor D. Carlos I, principió a padecer la observancia de la Constitución que tenía esta monarquía: lo que motivó la guerra civil de las comunidades, decayó la autoridad de las Cortes, y el vigor de la representación Nacional. Y si bien en los siglos XVI y XVII continuó con alguna frecuencia la celebración de Cortes, y en ellas se propusieron cosas oportunas para el bien general de la Nación, fueron desatendidas con fórmulas de ceremonia, y sin ejecución lo que se acordaba: de que hay repetidas quejas de los procuradores de Cortes, señaladamente en las de Madrid de 1534. Así que las Cortes de los siglos de la dominación austríaca solo fueron sombra de las antiguas, conservadas con el Gobierno, por conseguir servicios a la prórroga de los impuestos; mas desde aquella época hasta hoy los asuntos políticos de mayor gravedad, y los casos que con propiedad eran de Cortes, se resolvieron sin estas por los Ministros, y reputaron como asuntos privativos de gabinete.
113.- Así sucedió con las renuncias de los Señores D. Carlos I y Don Felipe II. Así renunciaron las Señoras Doña Teresa y Doña Juana de Austria los derechos que podían tener a la Corona de España. Así extendió el Señor D. Carlos II su testamento: y así se trató de darle cumplimiento en medio de las dudas que se presentaban por una y otra parte, de que fue consecuencia necesaria la sangrienta y dispendiosa guerra civil, que casi alcanzó a nuestros días. No son, pues, fáciles numerar las calamidades que se siguieron en el Reino del no uso o menosprecio de las Cortes. Testigo ha sido V. M. del despotismo ministerial en la última época, y aun añadimos con dolor, que fue víctima del mismo, lo que no hubiera experimentado si las leyes, si las Cortes, si las loables costumbres y fueros de España hubieran mantenido su antigua energía, y de este último estado parte la facilidad con que el Pueblo cree que esta Constitución de Cádiz es el único remedio que puede curar las llagas, que abrió la falta de administración de justicia, la inobservancia de las leyes fundamentales, y el haber huido del consejo y sujeción de las Cortes; cuyos abusos producen consecuencias incalculables.
114.- Permita V. M. que los representantes de sus Provincias le hablen el idioma de la verdad, seguros de la rectitud de sus soberanos sentimientos, pues al paso que desaprobamos cuanto se ha hecho en Cádiz bajo el nombre de Cortes (como amantes de la antigua Constitución española), no podemos dejar de reclamar los derechos de nuestras Provincias, demostrando el origen de sus males.
115.- Si, pues, había Constitución meditada y ratificada por siglos, y su observancia causó la felicidad del Reino, era consiguiente que las leyes de España recopilasen las atribuciones de estas Cortes; las funciones de la soberanía, la forma de la ley para tener vigor y ser provechosas, y la clase de gobierno, que por resultado creían ser más conveniente al carácter español. Las leyes del libro 6.º, título 7.º de la Recopilación58 dicen: la primera que los Sres. Reyes establecieron por leyes, hechas en Cortes, que no se echasen nuevos pechos ni tributos, sin que primeramente fuesen llamados a Cortes los procuradores de todas las Ciudades y Villas del Reino, y fuesen otorgados por estos. La segunda: que sobre hechos grandes y arduos se junten Cortes, y se haga Consejo de los estados de nuestros Reinos, según lo hicieron los Reyes predecesores. La cuarta: que las Ciudades y Villas puedan elegir libremente sus Diputados en sus consejos, tanto que sean personas honradas, y no labradores ni sesmeros, añadiendo la ley 6.ª, que cuando en la elección de procuradores de Cortes hubiese discordia, el Rey la decida. La octava: que el Rey oiga a dichos procuradores benignamente, reciba sus peticiones y responda a ellas, antes que las Cortes se acaben. La novena: que la cobranza del servicio que se hiciere en Cortes la tengan los procuradores de ellas. La decimatercia que de los procuradores de Cortes queden dos Diputados para la expedición y ejecución de lo otorgado en Cortes, a quienes se franqueó por los contadores del Rey la razón que pidieron de lo que estuviere en sus libros.
116.- El auto primero acordado del mismo título, fecha en Madrid 27 de julio de 1660, habla de existir una Junta de asistentes de Cortes: habla de los fraudes que se cometían para venir por procuradores a ellas; y se hace supuesto de que el Rey inconcusamente era quien mandaba llamar por cartas a los Reinos y Ciudades, que tenían voto en Cortes, que se llamaban convocatorias. De esto jamás han dudado los escritores españoles, como tampoco de que debían llevar poderes decisivos, siendo cuanto acordaban en sus Congresos, como si lo hiciese todo el Reino.
117.- En los fueros de Aragón (de que se ha dado idea), se arregló hasta el tiempo porque podían prorrogarse las Cortes, asiento de los concurrentes, y calidad de las personas que habían de asistir a ellas. En Navarra el Rey ocupaba en las Cortes el primer lugar, y era considerado con los esenciales atributos de la soberanía, depositario de lo que se ha llamado en Cádiz poder ejecutivo, y aún legislador: y para que a su nombre se expidiesen y ejecutasen las leyes; y en algunos casos las dispensaba. Podía conceder indultos, moratorias, venias de edad y otras gracias. El cuerpo de este Congreso le constituían los tres brazos Eclesiástico, Militar y Pueblo, compuesto de los representantes de las Ciudades y Villas realengas que tenían voto en Cortes por gracia de los Monarcas, cuya regalía era la misma en Castilla: por esto el acuerdo y dictamen de las Cortes se reducía a tres votos. La elección de sus representantes correspondía a los vecinos libres, sin requerir en los electos más calidad, que la naturaleza y residencia en el Reino. Los poderes de estos diputados habían de ser absolutos para cuanto se tratase en las Cortes. Para obtener fuerza de ley, era precisa la conformidad de todos los votos de los tres brazos. Para el acierto procuraban oír a los facultativos o inteligentes sin precipitación, ni fiarse de su propio dictamen: y aún había en las Cortes consultores natos para el intento. La jurisdicción y poder de las Cortes compuestas del Soberano, y los tres brazos no tenían límites. Era el primer objeto reparar las ofensas hechas a la Constitución, cuya solicitud se dirigía al Rey para que la remediase. Las Cortes se juntaban antiguamente todos los años, después de tres en tres. Solo al Rey competía convocarlas, y la acción de disolverlas también era privativa del Soberano mismo. Por este orden pudieran referirse otros varios fueros y costumbres, que han distado mucho del sistema actual.
118.- Son no menos atendibles las leyes de Partida. La 12 del título 1.º, Partida 1.ª, dijo: que el Rey podía hacer leyes, y la 9 del mismo título expresó, que debía ser muy meditado el derecho que fuese puesto en ellas, e otrosi deben guardar que quando las ficieren no haya ruido ni otra cosa que les estorbe ó embargue, é que las fagan con consejo de homes sabidores é entendidos, é leales é sin cobdicia: ley muy digna de observancia para evitar las nulidades notorias que han nacido de su contravención.
119.- La Ley 17 siguiente hablando de la enmienda que haya de hacerse en las leyes, señala el orden con que debe proceder el Rey. Primero: Que haya acuerdo con homes entendidos é sabidores de derecho, é con los más homes buenos que pudiere haber é de más tierras porque sean muchos de un acuerdo. Segundo: Quando de esta guisa fuere bien acordado, debe el Rey facer saber por toda su tierra los yerros que ante habían las leyes en que eran, e como tiene por derecho de las enmendar; pero si el Rey tantos homes no pudiere haber, ni tan entendidos ni tan sabidores, halo de hacer con aquellos que entendiere que más aman a Dios, e a él, e a la pro de la tierra; cuya sabia ley puede tener oportuna aplicación, en gran parte de las solicitudes con que concluiremos.
120.- Consiguiente a este cuidado de la soberanía dijo la ley 8, título 1.º, libro 2.ºde la Recopilación59: que cuando se tratase en el Consejo de hacer alguna ley nueva, derogar o dispensar las hechas, concurriesen, en un voto todos los del Consejo, o por lo menos las dos partes y lo consultasen al Rey, para que proveyese en ello lo conveniente a su servicio, y al bien público del Reino: y no con menos solemnidad y madura detención se hacían o revocaban las leyes con intervención del Rey en Aragón.
121.- Sería fuera de nuestro intento recordar todas las que en España han demarcado las funciones de la soberanía, terminantes a guardar a los Señores Reyes el respeto y consideración que necesitan, para desempeñar sin agravio de los súbditos la administración de justicia, y el servicio personal y pecuniario con que deben contribuir estos a la defensa interior y exterior de la Nación.
122.- Convencidos, según lo expuesto, de que los Príncipes de España han congregado Cortes por bien del Estado, como fundamento del Reino, a fin de guardarlo en paz, en justicia y aumentar su honor: y que en estas mismas Cortes o comicios se hacían las leyes y arreglaban los tributos, ¿cómo hemos de ver sin admiración la negra pintura que se ha hecho de los Señores Reyes de España, y de sus leyes fundamentales, para dar mejor colorido a las Cortes de Cádiz?
123.- ¿Por qué se ha de privar a V. M. del derecho, que exclusivamente han tenido sus gloriosos antecesores, de convocar las Cortes, e intervenir en su disolución? ¿A qué piloto se le ha negado la dirección de su nave? ¿Si solo el Papa puede convocar y presidir el Concilio general, que son las Cortes de la Iglesia, en que interesa el bien de las Naciones, y da norma a sus semejantes, por qué V. M. ha de quedar privado de los que tantos siglos ha querido la Nación y su Pueblo? La Presidencia en el Congreso, la convocación a este de los tres Estados del Reino en el tiempo y lugar que designaban los Soberanos: la asistencia de procuradores con facultades amplias; examinadas por encargados de los Señores Reyes, y procuradores elegidos con libertad que llevaban la confianza de los Pueblos era ley constitucional, y hoy ley variada.
124.- Se designaba por mandato de los Señores Reyes sitio religioso, donde sin ruidos y con libertad, divididos los brazos examinaban las materias; más hoy en sitio harto profano, entre el estruendo y opresión, entre una masa indigesta, se deciden materias que no se examinan.
125.- Constó el estado de los Nobles de treinta personas, el del Pueblo de uno o dos procuradores por Provincia, costumbre tomada de la república de Solón: y se procuró una concurrencia completa; mas esta ley fundamental se ha convertido en una concurrencia inmensa, que imposibilita las resoluciones.
126.- En las Cortes se juraba al sucesor del Reino: y cuando el Pueblo juraba al Rey fidelidad, juraba este conservar, y observar las leyes y costumbres del Reino, los estatutos de las Ciudades y sus privilegios, que más adecuaron a su índole, y a sus particulares servicios. Estos sin consentimiento de las Provincias se han revocado; y estando ya prestado por V. M., y el Reino este mutuo juramento, se contrajo con él un vínculo que no han podido alterar las Cortes de Cádiz.
127.- Aun lo que en su origen se titula privilegio, pasa a tener la fuerza de contrato, quando se concede por causa justa, por un hecho verificado, o que ha de cumplirse. V. M. era Rey constituido, su autoridad estaba sellada con el consentimiento del Pueblo, y este mutuo lazo era la garantía que hacía inalterable la antigua Constitución española, en cuya buena fe y confianza descansaron al concluir su juramento y proclama; sin dejar capacidad a las reformas de Cádiz.
128.- La obediencia al Rey, es pacto general de las sociedades humanas, es tenido en ellas a manera de padre, y el orden político que imita al de la naturaleza, no permite que el inferior domine al superior: uno debe ser el Príncipe, porque el gobierno de muchos es perjudicial, y la monarquía no para el Rey, sí para utilidad del vasallo fue establecida. Pero en Cádiz, se rompieron tan nobles vínculos, el interés general y la obediencia, sin consultar la razón, y guiados del capricho.
129.- Son harto notorias en los publicistas las graves causas que puedan dictar al Pueblo el deseo de tales novedades; pero de ellas ninguna ha concurrido en V. M. después de presentado el mutuo juramento, y de la más solemne proclamación en su ausencia. Si consideramos a V. M. arrancado del trono por violencia; no emigrado por voluntad, no hallamos arbitrio para que los administradores, o representantes de la soberana autoridad, que dejó en su ausencia, ni los que sucedieron en el mismo puesto (hora por derecho o como gestores de ausente) hubiesen innovado las leyes fundamentales, ni trocado el sistema en que V. M. dejó las cosas, al verificarse su cautividad; a más que el voto general de la Nación al verse invadida, se contrajo solo a equipar soldados, y a buscar intereses que salvándola del ataque, la restituyesen a su antigua libertad e independencia; no desquiciar las bases en que estas se apoyaron.
130.- Veneraremos siempre el juramento de fidelidad que prestamos a V. R. P.: existe fija en nuestra memoria la más solemne proclama que han visto las Naciones; hecha de V. M. en su ausencia con un aparato tan ostentoso, que acaso otro Monarca no puede gloriarse de haber recibido tantas muestras del fuego que abrasaba el pecho de los Españoles, a pesar de su desgracia. En este acto no pudo imponer la presencia de V. M. ni la esperanza de su remuneración: era aquel momento muy triste: V. M. cautivo entre las cadenas de un tirano que aspiraba a dominar sin estorbos. Este convencimiento dejó al corazón sin otro impulso que el de la fidelidad a su primer juramento, lenguaje el más puro para hacer indisolubles las obligaciones que penden de libre voluntad.
131.- Acaso, Señor, no recuerda la historia un juramento de príncipe en semejantes circunstancias: todas las fórmulas que discurrieron los antiguos para solemnizar este acto y llamar la ira suprema contra el que le quebrantase, no echaron lazo tan fuerte, ni obligación tan solemne como el de este hecho en favor de un cautivo. Fue, pues, jurado V. M. en los mismos términos que lo habían sido sus gloriosos antecesores: la Nación es demasiado generosa y justa para no añadir aflicción al afligido, ni para regatearle un momento la fidelidad más sincera: pues que en hacer demostración de ella, quería afirmar la diadema en las sienes de V. M., mientras la fuerza extranjera se afanaba en arrancársela.
132.- Fue, pues, esta proclama un juramento decisorio y afirmativo, reunió todos los caracteres, con que los Sabios los han considerado inalterables. ¿Y cuándo V. M. ha faltado a su promesa? ¿Cuándo ha contraído méritos para que se debilite esta jura? ¿Cuándo ha podido disolverse la mutua obligación? ni ¿cuándo eludirse el más solemne pacto? Cautivo en Francia le prestó el juramento, y sin variar de estado ni circunstancias vuelve a su trono, y España quiere mantenerle ileso. El Pueblo sabio no desconoce que este juramento, no ha podido ser interpretado, que no había capacidad para relajarle: que el súbdito no puede dispensarse de la obligación a sí mismo; y menos por solo mudar de voluntad, o por engreírse un momento con voces especiosas de nuevas formas de gobierno, descifradas con pinturas distantes de la realidad, y atribuyendo nombres poco conformes con sus significados.
133.- Los que hablan al Pueblo de gobierno despótico, le hacen desconocer sus verdaderos caracteres, que son: no nacer libres, no poseer en propiedad, no tener derecho a sucesión: disponer el Príncipe de su vida, honor y bienes sin más ley que su voluntad, aun con infracción de las naturales y positivas. Pero si nunca España gimió bajo este yugo: ¿por qué se abusa con tanta frecuencia de la voz despotismo, para excitar la indignación entre los que no distinguen ni meditan?
134.- La monarquía absoluta (voz que por igual causa oye el Pueblo con harta equivocación) es una obra de la razón y de la inteligencia: está subordinada a la ley divina, a la justicia y a las reglas fundamentales del Estado: fue establecida por derecho de conquista o por la sumisión voluntaria de los primeros hombres que eligieron sus Reyes. Así que el Soberano absoluto no tiene facultad de usar sin razón de su autoridad (derecho que no quiso tener el mismo Dios): por esto ha sido necesario que el poder Soberano fuese absoluto, para prescribir a los súbditos todo lo que mira al interés común, y obligar a la obediencia a los que se niegan a ella. Pero los que, declaman contra el Gobierno monárquico, confunden el poder absoluto con el arbitrario; sin reflexionar que no hay Estado (sin exceptuar las mismas Repúblicas), donde en el constitutivo de la Soberanía no se halle un poder absoluto. La única diferencia que hay entre el poder de un Rey y el de una República es que aquel puede ser limitado y el de esta no puede serlo: llamándose absoluto en razón de la fuerza con que pueda ejecutar la ley que constituye el interés de las sociedades civiles. En un gobierno absoluto las personas son libres, la propiedad de los bienes es tan legítima e inviolable, que subsiste aun contra el mismo Soberano que aprueba el ser compelido ante los tribunales, y que su mismo Consejo decida sobre las pretensiones que tienen contra él sus vasallos. El Soberano no puede disponer de la vida de sus súbditos, sino conformarse con el orden de justicia establecido en su Estado. Hay entre el Príncipe y el Pueblo ciertas convenciones que se renuevan con juramento en la consagración de cada Rey: hay leyes, y cuanto se hace contra sus disposiciones es nulo en derecho. Póngase al lado de esta definición la antigua Constitución Española, y medítese la injusticia que se le hace.
135.- Los más sabios Políticos han preferido esta monarquía absoluta a todo otro gobierno. El hombre en aquella no es menos libre que en una República; y la tiranía aún es más temible en esta, que en aquella. España, entre otros Reinos, se convenció de esta preferencia y de las muchas dificultades del poder limitado, dependiente en ciertos puntos de una potencia superior, o comprimido en otros por parte de los mismos vasallos. El Soberano, que en varios extremos reconoce un superior, no tiene más poder que el que recibe por el mismo conducto por donde se ha derivado la soberanía; mas esta monarquía limitada hace depender la fortuna, del Pueblo de las ideas y pasiones, del Príncipe, y de los que con él reparten la soberana autoridad. Dos potencias que deberían obrar de acuerdo, más se combaten, que se apoyan. Es arriesgado que todo dependa de uno solo, sujeto a dejarse gobernar ciegamente; y es más infelicidad por razón opuesta, que todo dependa de muchos que no se pueden conciliar, por tener cada uno sus ideas, su gusto, sus miras, y sus intereses particulares. El Rey, comprimido por los privilegios del Pueblo, se hace un honor en resistir sus derechos, y como el aire que adquiere mayor fuerza de la compresión, rompe contra ellos con tanta mayor violencia, cuanto más oprimido se halla en el ejercicio de las funciones de la soberanía, mayormente si no están bien balanceadas. Póngase ahora al reverso de esta medalla la Constitución y los decretos de las Cortes de Cádiz, las contestaciones con las Regencias, y los efectos que se han seguido.
136.- Mucho nos hemos dilatado, y apenas hemos completado el índice de los sucesos y materias que piden reforma. Tendíamos la vista (al venir a Madrid) por el negro cuadro de que acabamos de dar la idea, y nos hallamos convencidos de ser justo restituir a V. M. la Corona de sus mayores, sobre las antiguas bases que la fijó la monarquía. Conocíamos que debía limitarse el poder de los Congresos a la formación de leyes en unión con el Rey, dividiéndose en Estamentos para evitar la precipitación y el influjo de las facciones en formarlas: por cuyo medio el pueblo español gozaría de una libertad verdadera y durable, y conocíamos también que nuestros trabajos debían emplearse sin la interrupción de los estruendos de una concurrencia mal aconsejada.
137.- Conocíamos que nuestras Provincias habían sufrido un agravio, sujetándolas a nuevas leyes fundamentales, hechas sin su intervención, gravosas a su paz e intereses proclamadas entre las amenazas, dadas a obedecer por solo el castigo, y juradas sin solemnidad por error de concepto, y con vicios que las eximían de obligación. Conocíamos que nuestra inacción en reclamar y enmendar estos males podría ser criticada, y un cargo en el tribunal de la razón, y en el del Pueblo mismo, el día que despertase de su alucinamiento. Y en fin conocíamos que si la forma de nuestros poderes la había marcado el Gobierno en Cádiz; la voluntad del Pueblo (que es la que constituye su esencia) los había conferido, para intervenir en unas Cortes generales, que suponían por leyes de España amplitud de facultades para remediar perjuicios cuyo peso se hacía sentir demasiado.
138.- Por esto, para reformar vinimos resueltos a Madrid; pero noticiosos los exaltados de opinión contraria, no cesaban de exponernos al público con la nota de que queríamos arruinar una Constitución, cuyas páginas apellidaban sagradas, y sus cláusulas un vasto archivo de felicidad para los españoles; sin que desarmase este empeño (en la popularidad alucinada) la vista de los tristes efectos de una anarquía desoladora, que no podía ser obscurecida por los elogios y declamaciones insignificantes, sacrificios en las aras de ese ídolo de la ceguedad, publicado en tiempos que muchos Pueblos aún no estaban evacuados de franceses, y todos los demás recelando su vuelta. Por eso miraron con indiferencia un acto que no podían resistir, y que no equivalía a bayonetas en su defensa, que era lo único que ocupaba su atención y deseo.
139.- Sin arredrarnos la prevención que veíamos en la popularidad (y después que muchos de nosotros conseguimos tomar posesión en el Congreso, venciendo dilaciones estudiadas, y el ruido y algazara de los espectadores) determinamos por primer paso separar la Regencia60, subrogando otra enérgica, que nos pusiese en libertad para desempeñar nuestras funciones: que hiciese retirar de Madrid los vagos y sediciosos: que cuidase de vestir y alimentar la tropa: y que celase la administración de justicia. Para esta mudanza elegimos el día en que había de proponerse al Congreso; pero noticiosos de nuestra deliberación los opuestos a nuestras ideas, como protectores de todo lo hecho en Cádiz, prepararon el ánimo del Gobernador de Madrid Villacampa, quien puso su tropa sobre las armas provista de cartuchos, como si se encaminase al ataque más glorioso, y remitió al Congreso con aparentada urgencia, como si peligrase la Patria, la impostura más negra, que creyó a propósito para desconceptuarnos al público, para inflamar el ánimo de este, e impedir se realizase en aquel día la remoción del Gobierno61, sin la que no podía darse un paso en defensa de los derechos de V. M. y de la Nación. Vimos en fin contra nosotros la fuerza, asustado el Pueblo con la noticia, cerradas por el recelo las puertas de muchas casas, y entre una soledad reparable, solo exaltados rodeaban nuestra deliberación. Dictó la prudencia suspenderla, frustrose el fin, y dio el Gobierno por premio de este paso el grado de teniente general a Villacampa, con agravio del ejército, y con desaire nuestro.
140.- Trasladamos a otro día la tentativa, sin la que no podíamos llenar los deseos de nuestras Provincias. Tratamos de proponer la cesación de la actual Regencia, y poner al frente del Gobierno al inmediato de la Corona llamado por la Constitución, de los que no estaban cautivos: esto es a la Serenísima Señora Infanta Doña Carlota Joaquina de Borbón, pues habiendo protestado sostener la integridad de los Estados de V. M., era quien podía tomar más interés por su prosperidad, teniendo acreditado su afecto y generosa protección a los Españoles en tan amarga época, y cuya actividad, talento y relevantes prendas darían a la Nación mayor preponderancia en cualquier Congreso que se formase con la representación de un negociador que tuviese la garantía de Portugal; resultando entre otras muchas ventajas la principal de que podía promover con energía la libertad de V. M. como lo tenía premeditado de antemano, y hacer para este torrente de desórdenes. Se redujo a escrito la proposición que había de hacerse, por si (como suponíamos) el estruendo y la audacia nos impidiesen hablar en el asunto; pero se traslució este paso por los contrarios de nuestras máximas, y tuvieron valor de esparcir por los barrios de Madrid esquelas sediciosas y subversivas, expresando que se trataba de arruinar la Constitución, que era preciso defenderla, que para ello aparecerían más de setecientas escarapelas pajizas de armados con puñales, y que al aviso de dos cohetes disparados a la puerta del Congreso nos pasarían a cuchillo. Miramos esto con desprecio, y aunque conocíamos que al menos resultaría alguna conmoción popular, y que se comprometía la unión de las Provincias (en que hay sembrados no pocos intrigantes de la misma especie); veíamos no haber otro medio que mudar el Gobierno en sistema más sólido para salvar la España; más al estar poniendo nuestras firmas en la proposición, llegó la feliz noticia de la restitución de V. M. a este dichoso suelo. Descansó la inquietud que despedazaba nuestro corazón por ver tantos males, sin fuerza que los contuviese; y hallándola en vuestro soberano brazo, y apoyo en las virtudes que recomienda a V. M. en el clamor de sus Pueblos, se dan por cumplidos nuestros deberes con este paso, no nuevo en circunstancias parecidas, en que representantes de Provincias afligidas por la iniquidad triunfante, han hecho presente al Soberano de España su opresión y deseos, para que tome a su cargo el remedio.
141.- El que debemos pedir, trasladando al papel nuestro voto, y el de nuestras Provincias, es con arreglo a las leyes, fueros, usos y costumbres de España. Ojalá no hubiera materia harto cumplida para que V. M. repita al Reino el decreto que dictó en Bayona62 y manifieste (según la indicada ley de Partida) la necesidad de remediar lo actuado en Cádiz, que a este fin se proceda a celebrar Cortes con la solemnidad, y en la forma que se celebraron las antiguas; que entre tanto se mantenga ilesa la Constitución española observada por tantos siglos, y las leyes y fueros que a su virtud se acordaron: que se suspendan los efectos de la Constitución y decretos dictados en Cádiz, y que las nuevas Cortes tomen en consideración su nulidad, su injusticia y sus inconvenientes63 que también tomen en consideración las resoluciones dictadas en España desde las últimas Cortes hechas en libertad, y lo hecho contra lo dispuesto en ellas, remediando los defectos cometidos por el despotismo ministerial, y dando tono a cuanto interesa a la recta administración de justicia; al arreglo igual de las contribuciones de los vasallos, a la justa libertad y seguridad de sus personas, y a todo lo que es preciso para el mejor orden de una monarquía.
142.- Que ínterin se verifican las nuevas Cortes (suspendiéndose las actuales), se cumplan con la mayor actividad las leyes de España que dictaron los Señores Reyes con las Cortes generales, y a su virtud se administre justicia por los jueces y tribunales con arreglo a ellas, para la seguridad, paz y buen orden del Estado: se tomen cuentas a cuantos han manejado caudales públicos durante esta amarga revolución: se completen los ejércitos, se les vista y alimente, se premie su mérito, y el de todos los que han contribuido a libertar a España de la opresión del tirano de la Europa: que se abra causa (a fin de castigar los delitos y precaver la seguridad nacional en adelante) contra cuantos son reos de los más notorios, averiguando los fines y los medios que se han empleado para atacar la integridad de España, para extraviar su opinión, para traer envueltos en convulsiones populares a los vasallos honrados: y se averigüen los fines con que se ha procurado dejar indefensa la Nación, sigilando el verdadero estado de sus fuerzas, disgustando los jefes militares, ofendiendo la consideración de que se han hecho dignos nuestros heroicos aliados, sin los que no hubiéramos conseguido nuestra libertad, disgustando y entorpeciendo las operaciones de su primer jefe el Lord Wellington, cuya memoria acreedora a nuestra gratitud quedará eternamente grabada en el corazón de los españoles, pues llenando nuestra confianza nos puso fuera de alcance aun de las más temibles armas de Napoleón, que eran la seducción e intriga: y adoptándose para remediar estos males todas las medidas que señalaron nuestras sabias leyes. Tenga en fin presente V. M. que antes de entrar los moros en España, desde Recesvinto era ley fija la intolerancia de la herejía en el Reino, haciendo celebrar cuatro Concilios para que se cumpliese y arreglase la disciplina eclesiástica. En esta interviene el expreso o virtual permiso de los Príncipes: V. M. es protector del Concilio, y haría glorioso su reinado si en él se celebrase uno, que arreglase las materias eclesiásticas, y preservase intacta entre nosotros esa nave que no han de poder trastornar todas las furias del abismo64.
143.- Estos son, Señor, nuestros deseos, y las causas que los han impulsado. Por todo se penetrará V. M. del estado de España, de sus sentimientos, y de la rectitud que nos conduce a este justo paso de sumisión debido a vuestra soberanía. Si lo indefinido de los votos de algunas resoluciones del Congreso, han podido un momento hacer dudar a V. M. de esta verdad, le suplicamos tenga por única voluntad la que acabamos de exponer a S. R. P., pues con su soberano apoyo, y amor a la justicia, nos hallará V. M. siempre constantes en las acertadas resoluciones con que aplique el remedio. No pudiendo dejar de errar este respetuoso Manifiesto, en cuanto permita el ámbito de nuestra representación, y nuestros votos particulares, con la protesta de que se estime siempre sin valor esa Constitución de Cádiz, y por no aprobada por V. M. ni por las Provincias: aunque por consideraciones que acaso influyan en el piadoso corazón de V. M. resuelva en el día jurarla: porque estimamos las leyes fundamentales que contiene, de incalculables y transcendentales perjuicios, que piden la previa celebración de unas Cortes especiales legítimamente congregadas, en libertad, y con arreglo en todo a las antiguas leyes.
Madrid, 12 de abril de 1814.
NOTA. Por evitar repetición se omiten aquí las firmas, que son las que van colocadas al fin de la Representación.
SEÑOR
La divina Providencia nos ha confiado la representación de España para salvar su religión, su Rey, su integridad y sus derechos a tiempo que opiniones erradas y fines menos rectos se hallan apoderados de la fuerza armada, de los caudales públicos, de los primeros empleos, de la posibilidad de agraciar y oprimir, ausente V. M., dividida la opinión de sus vasallos, alucinados los incautos, reunidos los perversos, fructificando el árbol de la sedición, principiada y sostenida la independencia de las Américas, y amagadas de un sistema republicano las Provincias que representamos: indefensos a la faz del mundo hemos sido insultados, forzados y oprimidos para no hacer otro bien que impedir y dilatar la ejecución de mayores males, y no quedándonos otro recurso que elevar a V. M. el adjunto Manifiesto que llena el deseo de nuestras Provincias, el posible desempeño de nuestros deberes, nuestros votos, y la sumisión y fidelidad que juramos a V. R. P. y a nuestras antiguas leyes e instituciones
Suplicamos a V. M. con todas las veras de nuestro corazón, se digne enterarse, y con su soberano acierto, enjugar las lágrimas de las Provincias que nos han elegido, y de los leales españoles que no han cesado de pedir a Dios por la restitución de V. M. al trono, y hoy por la dilatación de sus días para labrar su felicidad.
Dios guarde a V. M. los muchos años que le pedimos.
Madrid, 12 de abril de 1814
A los reales pies de V. M.
Bernardo Mozo y Rosales, diputado por Sevilla, Juan José Sánchez de la Torre, diputado por Burgos, Bernardo de Escobar, diputado por León, Diego Henares Tiendas, diputado por Córdoba, Ignacio Ramón de Roda, diputado por Galicia, Antonio Gómez Calderón, diputado por Córdoba, Juan Antonio Fernández de la Cotera, diputado por Burgos, Miguel de Frías, diputado por Toledo, Buenaventura Domínguez, diputado por Galicia, Roque María Mosquera, diputado por Galicia, Gerónimo Castillón, diputado por Aragón, Manuel Márquez Carmona, diputado por Córdoba, Joaquín Moliner, diputado por Valencia, José Antonio Navás, diputado por Cataluña, Gregorio Ceruelo, diputado por Palencia, Beni to Arias de Prada, diputado por Galicia, Francisco Xavier, Obispo de Almería, diputado por Granada, Ramón Cubells, diputado por Valencia, Pablo Fernández de Castro, diputado por Galicia, Pedro Alcántara Díaz de Labanderos, diputado por Palencia, Valentín Zorrilla de Velasco, diputado por Burgos, Manuel Gaspar Gonzales Montaos, diputado por Galicia, Domingo Fernández de Campomanes, diputado por Asturias, Gerónimo Antonio Díez, diputado por Salamanca, Blas Ostolaza, diputado por el Perú, Antonio Joaquín Pérez, diputado por la Puebla de los Ángeles, Antonio Gayoso, diputado por Galicia, Carlos Martínez Casaprin, diputado por Asturias, Ángel Alonso y Pantiga, diputado por Yucatán, Fermín Martín Blanco, diputado por Galicia, José Cayetano de Foncerrada, diputado por Valladolid de Mechoacan, Cayetano de Marimón, diputado por Cataluña, Fr, Gerardo, Obispo de Salamanca, diputado por Galicia, Manuel María Aballe, diputado por Galicia, Jacinto Rodríguez Rico, diputado por Zamora, Gerónimo Lorenzo, diputado por Toro, Antonio de Arce, diputado por Extremadura, Juan Manuel de Rengifo, diputado por Ávila, Diego Martín Blanco Serrallas, diputado por Sevilla, José Zorrilla de la Rocha, diputado por Toledo, Prudencio María de Verástegui, diputado por Álava, Luis de Luján y Monroy, diputado por Toledo, Tadeo Gárate, diputado por Puno, Pedro García Coronel, diputado por Truxillo del Perú, José Gavino de Ortega y Salmon, diputado por Truxillo del Perú, Manuel Ribote, diputado por Burgos, Mariano Rodríguez de Olmedo, diputado por la Ciudad de la Plata y provincia de Charcas, Andrés Mariano de Cerezo y Muñiz, diputado por Burgos, Salvador Samartín, diputado por Nueva España, Benito Sáenz González, diputado por Toledo, Joaquín Palacín, diputado por Aragón, Juan Capistrano Pujadas, diputado por Aragón, Nicolás Lamiel y Venages, diputado por Aragón, Juan Francisco Martínez, diputado por Aragón, Pedro Aznar, diputado por Aragón, Bartolomé Romero y Montero, diputado por Granada, Ramón María de Adurriaga, diputado por Burgos, Pedro Vidal, diputado por León, Agustín de Cáceres, diputado por Segovia, Alexandro Izquierdo, diputado por Soria, Pedro Díez García, diputado por Extremadura, Bonifacio de Tossantos, diputado por Burgos, Luis de León, diputado por Segovia, Francisco López Lisperguer, diputado por Buenos-Ayres, Tadeo Segundo Gómez, diputado por Aragón, Domingo Balmaseda, diputado por Soria, Manuel Carasa, diputado por Sevilla, José Miralles, diputado por Valencia.
Presidente e fondatore A.L.T.A. Amedeo Bellizzi.
Fonti:LA MONARCHIA TRADIZIONALE (di Francisco Eliàs De Tejada).
http://www.carlismo.es/