domenica 16 febbraio 2014

Conte Joseph De Maistre : Dei pretesi pericoli di una controrivoluzione


Joseph De Maistre.

I. Considerazioni generali
Un sofisma oggi molto in voga, per dimostrare che non bisogna ritornare alla monarchia, è quello di insistere sui pericoli di una controrivoluzione.
Gran parte delle opere destinate a persuadere i francesi a tenersi la repubblica non sono che uno sviluppo di questa idea. Gli autori di tali opere evocano le sciagure che sono inseparabili dalle rivoluzioni; quindi, osservando che la monarchia non può essere restaurata in Francia senza una nuova rivoluzione, ne concludono che bisogna conservare la repubblica.
Questo prodigioso sofisma, che tragga origine dalla paura oppure dal desiderio di ingannare il prossimo, merita di essere accuratamente discusso.
Quasi tutti gli errori sono figli delle parole. Ci si è abituati a dare il nome di controrivoluzione al movimento che deve uccidere la rivoluzione; e poiché tale movimento sarà contrario all'altro, se ne conclude che sarà dello stesso genere: converrebbe invece concludere tutto l'opposto.
Per caso qualcuno ritiene che il ritorno dalla malattia alla salute sia altrettanto penoso che il passaggio dalla salute alla malattia? e che la monarchia, rovesciata da mostri, debba essere restaurata da loro simili? No! gli stessi che impiegano questo sofisma le devono bene rendere giustizia nell'intimo del loro animo! Essi sanno bene che gli amici della religione e della monarchia non sono capaci di nessuno di quegli eccessi di cui i loro nemici si sono macchiati; sanno bene che, anche nella peggiore delle ipotesi e tenendo conto di tutte le debolezze umane, il partito oppresso possiede mille volte più virtù di quello degli oppressori! Sanno bene che il primo non sa né difendersi né vendicarsi: anzi, lo hanno spesso alquanto deriso a questo riguardo.
Per fare la rivoluzione francese, è stato necessario abbattere la religione, oltraggiare la morale, violare tutte le proprietà e commettere tutti i delitti: per questa opera diabolica è stato necessario impiegare un tale numero di mascalzoni, che forse mai si sono visti tanti vizi intenti a compiere un qualche male. Per ristabilire l'ordine, al contrario, il re convocherà tutte le virtù: senza dubbio, egli lo vorrà; ma vi sarà anche costretto dalla natura stessa delle cose. Sarà suo eminente interesse unire la giustizia alla clemenza; gli uomini degni di stima verranno da soli ad occupare i posti in cui potranno essere utili; e la religione, prestando il proprio scettro alla politica, le darà le forze che essa può ricevere solo da questa augusta sorella.
Non dubito che molti chiederanno che si mostri loro il fondamento di queste magnifiche speranze; ma credono davvero che il mondo politico si muova a caso, e che non sia invece organizzato, diretto, animato da quella stessa saggezza che risplende nel mondo fisico? Le mani colpevoli che rovesciano uno Stato necessariamente producono delle dolorose lacerazioni; infatti nessun libero agente può contrariare i piani del Creatore, senza attirare, nella sfera della propria attività, mali proporzionali alla grandezza dell'attentato; e questa legge deve di più alla bontà dell'Essere supremo che alla sua giustizia.
Ma quando l'uomo agisce per riportare l'ordine, si associa allora con chi dell'ordine è l'autore: viene favorito dalla natura, vale a dire dall'insieme delle cause seconde che sono come i ministri della Divinità. La sua azione possiede qualcosa di divino; essa è, al tempo stesso, dolce e imperiosa. Non forza nulla, e nulla le resiste; mentre si dispiega, risana; e man mano che essa opera, si vedono cessare quell'inquietudine, quella penosa agitazione che sono l'effetto e il segno del disordine; allo stesso modo che, sotto la mano dell'abile chirurgo, il corpo animale lussato viene avvertito della guarigione dalla cessazione del dolore.
Francesi, è in mezzo al fragore dei canti infernali, delle bestemmie dell'ateismo, delle grida di morte e dei lunghi gemiti dell'innocenza straziata; è al bagliore degli incendi, sulle rovine del trono e degli altari bagnati dal sangue del migliore dei re e da quello di innumerevoli altre vittime; è col disprezzo dei costumi e della pubblica fede, è servendosi di ogni delitto, che i vostri seduttori e tiranni hanno fondato ciò che chiamano la vostra libertà.
È in nome di DIO SOMMO E MISERICORDIOSO, al seguito degli uomini che egli ama e ispira, e sotto l'influenza del suo potere creatore, che voi ritornerete alla vostra antica costituzione e che un re vi darà la sola cosa che dovreste saggiamente desiderare, la libertà attraverso il monarca.
Per quale deplorevole cecità vi ostinate a lottare penosamente contro questa potenza che annulla tutti i vostri sforzi per avvertirvi della propria presenza? Siete impotenti solo perché avete osato separarvi da lei, e perfino contrastarla; non appena vi riunirete a lei, parteciperete in qualche modo della sua natura. Tutti gli ostacoli si appianeranno davanti a voi, e riderete dei timori puerili che oggi vi tormentano. Poiché tutte le parti della macchina politica tendono naturalmente verso il posto che è loro assegnato, questa tendenza, che è divina, favorirà tutti gli sforzi del re; e poiché l'ordine è l'elemento naturale dell'uomo, vi troverete quella felicità che invano cercate nel disordine. La rivoluzione vi ha fatto soffrire, perché fu l'opera di tutti i vizi, e perché i vizi sono appunto i carnefici dell'uomo. Per la ragione contraria, il ritorno alla monarchia, lungi dal produrre i mali che temete per l'avvenire, farà cessare quelli che vi affliggono oggi. Tutti i vostri sforzi saranno costruttivi: non distruggerete altro che la distruzione.
Liberatevi, una volta per tutte, di quelle desolanti dottrine che hanno disonorato il nostro secolo e perduto la Francia. Avete già imparato a conoscere i predicatori di quei dogmi funesti, ma l'impressione che hanno fatto su di voi non si è ancora cancellata. In tutti i vostri progetti di creazione e di restaurazione, vi dimenticate solo di Dio: vi hanno separato da lui. È ormai unicamente con uno sforzo del ragionamento che elevate i vostri pensieri fino alla fonte inesauribile di ogni esistenza. Non volete vedere altro che l'uomo, la sua azione cosi debole, così dipendente, cosi circoscritta, la sua volontà cosi corrotta, cosi oscillante; e l'esistenza di una causa superiore non è altro per voi che una congettura. Eppure essa vi incalza, vi circonda: potete toccarla, e l'universo intero vi annuncia la sua presenza. Quando vi si dice che senza di essa avete forza solo per distruggere, non vi viene spacciata una vana teoria, ma una verità pratica fondata sull'esperienza secolare e sulla conoscenza della natura umana. Osservate la storia, e non vedrete una sola creazione politica, che dico! non vedrete nessuna istituzione, per poco che sia forte e duratura, che non poggi su un'idea divina; non importa di che natura essa sia, giacché nessun sistema religioso è interamente falso. Non veniteci dunque più a parlare delle difficoltà e delle sciagure che vi allarmano sulle conseguenze di ciò che chiamate controrivoluzione. Tutte le sciagure che avete patito provengono da voi. Perché mai non avreste dovuto rimanere feriti dalle rovine dell'edificio che vi siete rovesciato addosso? La ricostruzione è un altro ordine di cose: se solo siete in grado di ritornare sulla strada che può condurvici. Non è seguendo il sentiero del nulla che arriverete alla creazione.
Oh! sono davvero colpevoli quegli scrittori, falsi o pusillanimi, che si permettono di atterrire il popolo con quel vano spauracchio che si chiama controrivoluzione! e che, pur riconoscendo che la rivoluzione fu uno spaventoso flagello, sostengono tuttavia che è impossibile ritornare indietro. Non si arriverà anche a dire che le sciagure della rivoluzione sono terminate, e che i francesi sono approdati ad un porto tranquillo? Il regno di Robespierre ha a tal punto schiacciato questo popolo, ha colpito cosi duramente la sua immaginazione, che esso considera ormai sopportabile e quasi felice ogni stato di cose in cui non si scanni la gente in continuazione. Quando ferveva il terrorismo, gli stranieri notavano che tutte le lettere provenienti dalla Francia, che raccontavano le scene terribili di quei giorni crudeli, finivano con queste parole: In questo momento siamo tranquilli, vale a dire i carnefici si riposano, si rimettono in forze; nei frattempo, tutto va bene. Questo stato d'animo è sopravvissuto al regime infernale che l'ha prodotto. II francese, pietrificato dal Terrore e scoraggiato dagli errori politici degli stranieri, si è chiuso in un egoismo che non gli permette più di vedere altro che se stesso, e il luogo e il tempo in cui egli si trova a vivere. Si assassina in cento contrade della Francia; non importa, visto che non è lui che è stato depredato o trucidato; e se qualcuno di questi attentati è stato commesso nella sua strada, vicino alla sua casa; di nuovo, che importa? il momento è passato; ora tutto è tranquillo: chiuderà a doppia mandata i suoi chiavistelli e non ci penserà più. Insomma, ogni francese è abbastanza felice il giorno in cui non viene ucciso.
Intanto, le leggi sono senza vigore e il governo riconosce la propria impotenza a farle eseguire. I crimini più infami si moltiplicano: il demone rivoluzionario rialza fieramente la testa; la costituzione non è che una tela di ragno, e il potere si consente mostruosi attentati. Il matrimonio non è che una prostituzione legalizzata (1); non vi è più autorità paterna, non vi è più orrore per i delitti, non vi è più asilo per l'indigenza. Il suicidio, nel suo squallore, che denuncia la disperazione dei disgraziati, è un atto di accusa contro il governo. Il popolo si demoralizza nel più penoso dei modi; e l'abolizione del culto, unita all'assenza totale di educazione civica, prepara alla Francia una generazione la cui sola idea fa tremare.
Vili ottimisti! ecco dunque l'ordine di cose che temete di veder cambiare! Uscite, uscite dal vostro sciagurato letargo! invece di mostrare al popolo i mali immaginari che devono risultare da un cambiamento, usate il vostro talento per fargli desiderare la commozione dolce e salvifica che riporterà il re sul suo trono e l'ordine in Francia.
Mostrateci, voi che siete divorati dal dubbio, mostrateci questi mali cosi terribili di cui vi si minaccia per disgustarvi della monarchia; non vedete che le vostre istituzioni repubblicane non hanno nessuna radice, e che sono solo poggiate sul vostro suolo, mentre le precedenti vi erano piantate. È stata necessaria la scure per strappare queste; le altre cadranno con un soffio e non lasceranno tracce. Non è certo la stessa cosa togliere a un presidente del parlamento la sua dignità ereditaria, che era una proprietà, e fare scendere dal suo seggio un giudice temporaneo che non possiede alcuna dignità. La rivoluzione ha fatto molto soffrire, perché molto ha distrutto; perché ha fatto violenza in modo brusco e crudele a tutte le proprietà, a tutte le opinioni accettate e a tutti i costumi; perché, essendo ogni tirannia plebea per sua natura eccitata, insultante e feroce, quella che ha prodotto la rivoluzione francese ha dovuto spingere questi caratteri all'estremo, giacché il mondo non ha mai visto una tirannia più bassa e più assoluta.
L'opinione è la fibra sensibile dell'uomo; quando viene ferito in questo punto, lancia alte grida. È questo che ha reso la rivoluzione cosi dolorosa, poiché essa ha calpestato tutto ciò che l'opinione riteneva grande. Ora, quand'anche il ristabilimento della monarchia provocasse in un ugual numero di uomini le stesse privazioni reali, vi sarebbe pur sempre una differenza immensa, dato che essa non distruggerebbe alcuna dignità; infatti oggi non c'è dignità in. Francia, per la ragione che non c'è sovranità.
Ma, se anche si considerassero solo le privazioni materiali, la differenza non sarebbe meno notevole. Il potere usurpatore immolava gli innocenti; il re perdonerà i colpevoli. L'uno aboliva la proprietà legittima; l'altro tratterà con cautela le proprietà illegittime. L'uno ha per motto: Diruit, aedificat, mutat quadrata rotundis (2). Dopo sette anni di sforzi, non ha ancora potuto organizzare una scuola elementare o una festa campestre. Tutti, perfino i suoi partigiani, si prendono gioco delle sue leggi, dei suoi impieghi, delle sue istituzioni, delle sue feste, e anche dei suoi vestiti. L'altro, costruendo su una base autentica, non andrà a tentoni: una forza misteriosa presiederà ai suoi atti; esso agirà solo per restaurare; ed ogni azione regolare non nuoce ad altri che al male.
È inoltre un grande errore di immaginazione pensare che il popolo abbia qualcosa da perdere dal ristabilimento della monarchia; infatti il popolo ha guadagnato solo idealmente dallo sconvolgimento generale. Ha diritto a tutte le cariche, si dice; ma che importa? Si tratta di vedere quello che valgono. Queste cariche, su cui si fa tanto chiasso e che vengono offerte al popolo come una grande conquista, di fatto non valgono niente di fronte
al giudizio dell'opinione. Perfino la condizione militare, onorata in Francia al di sopra di ogni altra, ha perduto ormai il suo splendore: agli occhi dell'opinione, non ha più grandezza, e la pace la abbasserà ulteriormente. I militari vengono minacciati con la restaurazione della monarchia, mentre nessuno vi è interessato più di loro. Niente è cosi evidente quanto la necessità in cui si troverà il re di mantenerli ai loro posti, e dipenderà da loro, prima o poi, trasformare questa necessità politica in un'obbligazione dettata dall'affetto, dal dovere e dalla riconoscenza. Grazie a uno straordinario concorso di circostanze, non vi è nulla nei militari che possa urtare l'opinione più realista. Nessuno ha il diritto di disprezzarli, poiché combattono per la Francia; fra di loro e il re non c'è alcuna barriera di pregiudizi che possa impedire a lui di fare il proprio dovere: egli è francese, innanzitutto. Si ricordino di Giacomo II, durante la battaglia della Hogue, che applaudiva, dalla riva del mare, il valore di quegli inglesi che finivano di detronizzarlo; come potrebbero dubitare che il re non sia fiero del loro valore e non li consideri nel suo cuore come i difensori dell'integrità del suo regno? Non ha forse pubblicamente rivolto un plauso a questo valore, dolendosi (come era ben giusto) che esso non fosse impiegato per una causa migliore? Non si è forse congratulato con i valorosi dell'armata di Condé per aver superato gli odi che da così lungo tempo l'intrigo si sforzava di alimentare! (3) I militari francesi, dopo le loro vittorie, non hanno ormai più che un bisogno: che la legittima sovranità venga a legittimare il loro valore, giacché ora essi sono solo temuti e disprezzati. La più assoluta noncuranza è oggi la ricompensa per le loro fatiche, e i loro concittadini sono gli uomini più indifferenti del mondo ai trionfi dell'esercito. Spesso arrivano fino a detestare quelle vittorie che alimentano l'umore bellicoso dei loro padroni. Il ristabilimento della monarchia darà immediatamente ai militari una posizione elevata nella considerazione generale. I talenti troveranno sul loro cammino una effettiva dignità, un lustro sempre crescente che sarà proprietà dei guerrieri e che essi trasmetteranno ai loro figli. Questa gloria pura, questo splendore tranquillo, varranno pure almeno quanto le onorificenze, o quanto l'ostracismo dell'oblio che segue al patibolo.
Se si considera il problema da un punto di vista più generale, si vedrà che la monarchia è certamente il governo che assicura il massimo di distinzione a un più gran numero di persone. In questa specie di governo, la sovranità possiede abbastanza splendore per trasmetterne una parte, con le necessarie gradazioni, a una gran quantità di agenti che essa più o meno distingue. Nella repubblica la sovranità non è cosi tangibile come nella monarchia; si tratta li di una sostanza puramente morale, e la sua grandezza è incomunicabile: inoltre nelle repubbliche gli impieghi non valgono nulla fuori della città in cui risiede il governo; e per di più hanno valore solo in quanto siano occupati da membri del governo. In quel caso è l'uomo che onora l'impiego, non l'impiego che onora l'uomo; questi non brilla come agente, ma come parte del corpo sovrano.
Nelle province che obbediscono alle repubbliche, si può vedere che gli impieghi (se si fa eccezione per quelli riservati ai membri del corpo sovrano) elevano pochissimo gli uomini agli occhi dei loro simili, e non hanno quasi nessun significato per l'opinione generale; la repubblica infatti, per sua natura, è il governo che assicura il maggior numero di diritti al minor numero di uomini, che vengono chiamati il sovrano, e che ne toglie di più a tutti gli altri, che vengono chiamati ; sudditi.
Più la repubblica si avvicinerà alla democrazia pura, e più questa osservazione sarà pertinente.
Si richiami alla memoria quella innumerevole quantità di impieghi (anche a prescindere da tutti i posti abusivi) che l'antico governo di Francia offriva all'ambizione universale. Il clero secolare e regolare, la spada, la toga, le finanze, l'amministrazione, ecc., quante carriere aperte a tutti i talenti e a tutti i tipi di ambizione! Quante gradazioni incalcolabili di distinzioni personali! Di questo infinito numero di cariche, non ve n'era nessuna che fosse posta per legge al di sopra delle pretese del semplice cittadino (4): ve n'erano perfino moltissime che erano delle pre-

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ziose proprietà, che facevano realmente del proprietario un notabile, e che appartenevano esclusivamente al Terzo stato.
Che i primi posti fossero di più difficile accesso al semplice cittadino era una cosa molto ragionevole. Vi è troppo movimento nello Stato e insufficiente subordinazione, quando tutti possono pretendere a tutto. L'ordine esige che gli impieghi, in generale, siano graduati quanto la condizione dei cittadini, e che i talenti individuali (e qualche volta anche la semplice prudenza) abbassino le barriere che separano le diverse classi. In questo modo, si ha emulazione senza umiliazione, e movimento senza distruzione; la distinzione connessa a un impiego non deriva, come dice la parola, che dalla maggiore o minore difficoltà di pervenirvi.
Se si obietta che queste distinzioni sono ingiuste, allora si cambia argomento; ma io dico: se i vostri impieghi non elevano quelli che li possiedono, non vantatevi di offrirli a tutti, giacché non offrite nulla. Se invece gli impieghi sono e devono essere delle distinzioni, ripeto ciò che nessuno in buona fede potrà negare, cioè che la monarchia è il governo il quale, per mezzo delle sole cariche, e indipendentemente dalla nobiltà, distingue un maggior numero di uomini dal resto dei loro concittadini.
D'altronde, non bisogna lasciarsi ingannare da quell'uguaglianza ideale che esiste solo a parole. Il soldato che ha il privilegio di parlare al suo ufficiale con un tono grossolanamente familiare, non è pertanto suo uguale. L'aristocrazia delle cariche, che dapprima, nel disordine generale, non poteva essere notata, comincia a formarsi. Perfino la nobiltà riacquista la sua indistruttibile influenza. Le truppe di terra e di mare sono già comandate, in parte, da gentiluomini, oppure da cadetti che l'antico regime aveva nobilitato associandoli a una professione nobile. La repubblica ha perfino ottenuto da loro i suoi più grandi successi. Se la delicatezza della nobiltà francese non l'avesse, forse disgraziatamente, allontanata dalla Francia, essa comanderebbe già ovunque; ed è cosa abbastanza comune sentir dire che se la nobiltà avesse voluto, le avrebbero offerto tutti gli impieghi. Certo, nel momento in cui scrivo (4 gennaio 1797), la repubblica vorrebbe avere sulle sue navi i nobili che ha fatto massacrare a Quiberon.
Il popolo, ovvero la massa dei cittadini, non ha dunque niente da perdere; al contrario, ha rutto da guadagnare dal ristabilimento della monarchia, la quale farà risorgere una quantità di distinzioni effettive, lucrative e perfino ereditarie, al posto degli impieghi effimeri e senza dignità che offre la repubblica.
Non ho insistito sugli emolumenti connessi alle cariche, giacche è notorio che la repubblica non paga oppure paga male. Essa non ha prodotto che fortune scandalose: solo la dissolutezza si è arricchita al suo servizio.
Terminerò questo paragrafo, con alcune osservazioni le quali dimostrano chiaramente (cosi mi sembra) che il pericolo che si vede nella controrivoluzione si trova precisamente nel ritardo di questo grande cambiamento.
La famiglia dei Borboni non può essere colpita dai capi della repubblica: essa esiste; i suoi diritti sono visibili, e il suo silenzio è più eloquente, forse, di tutti i possibili manifesti.
È una verità che salta agli occhi che la repubblica francese, anche da quando sembra avere addolcito le proprie parole d'ordine, non può avere dei veri alleati. Per sua natura, essa è nemica di tutti i governi: tende a distruggerli tutti, di modo che tutti hanno interesse a distruggerla. La politica può senza dubbio conquistare degli alleati alla repubblica (5); ma queste alleanze sono contro natura, ovvero, se si vuole, la Francia ha degli alleati, ma la repubblica francese non ne ha nessuno.
Amici e nemici saranno sempre d'accordo per dare un re alla Francia. Si cita spesso il successo della rivoluzione inglese nel secolo scorso; ma che differenza! In Inghilterra la monarchia non era stata abbattuta. Solo il monarca era scomparso per fare posto ad un altro. II sangue stesso degli Stuart sedeva sul trono; e da esso il nuovo re traeva il proprio diritto. Questo re era, per eredità paterna, un principe forte di tutta la potenza della sua
casata e delle sue relazioni di famiglia. Il governo d'Inghilterra, d'altronde, non aveva nulla di pericoloso per gli altri: era una monarchia come prima della rivoluzione; pure, poco mancò che Giacomo II conservasse lo scettro (6): e se avesse avuto un po' più di fortuna o solamente un po' più di accortezza, non lo avrebbe perduto; e benché l'Inghilterra avesse un re, benché i pregiudizi religiosi si unissero ai pregiudizi politici per escludere il Pretendente, benché la situazione di quel regno lo proteggesse da sola contro un'invasione, tuttavia il pericolo di una seconda rivoluzione ha pesato sull'Inghilterra fino alla metà di questo secolo. Tutto è dipeso, come si sa, dalla battaglia di Culloden.
In Francia, al contrario, il governo non è monarchico; esso è anzi il nemico di tutte le monarchie che lo circondano; non è un principe che comanda, e se mai lo Stato venisse attaccato, non si vede perché i parenti stranieri dei Pentarchi dovrebbero mobilitare delle truppe per difenderli. La Francia si troverà, dunque in un costante pericolo di guerra civile e questo pericolo avrà due ragioni permanenti, poiché essa dovrà continuamente temere i giusti diritti dei Borboni oppure gli intrighi politici delle altre potenze che potrebbero tentare di darle un re di un'altra dinastia. Se il trono di Francia sarà occupato dal legittimo sovrano, nessun principe al mondo potrà pensare di impadronirsene; ma finché è vacante, tutte le ambizioni monarchiche possono desiderarne il possesso e combattersi a vicenda. Del resto, il potere è alla portata di tutti, da quando è stato gettato nella polvere, II governo regolare esclude un'infinità di progetti; ma sotto il dominio di una sovranità falsa nessun progetto è impossibile; tutte le passioni sono sguinzagliate, e tutte possono coltivare fondate speranze, I codardi che respingono il re per paura della guerra civile, ne preparano appunto gli ingredienti. Proprio perché desiderano, in modo folle, la tranquillità e la costituzione, non avranno né la tranquillità né la costituzione. Dato lo stato in cui la Francia si trova, non vi può essere per essa nessuna sicurezza perfetta. Solo il re, e il re legittimo, alzando dall'alto del suo trono lo scettro di Carlo Magno, può spegnere o disarmare tutti gli odi, impedire tutti i progetti sinistri, dimensionare le ambizioni dimensionando gli uomini, calmare gli spiriti eccitati, e creare subito attorno al potere quel magico recinto che ne è il vero custode.
Vi è ancora una riflessione che deve essere continuamente presente agli occhi di quei francesi che fanno parte delle autorità attuali, la cui posizione li mette in condizione di influire sul ristabilimento della monarchia. I più degni tra loro non devono dimenticare che, prima o poi, saranno travolti dalla forza delle cose; che il tempo scorre via e che la gloria sfugge. Quella di cui possono godere è una gloria relativa: hanno fatto cessare i massacri. Hanno cercato di asciugare le lacrime della nazione: brillano, perché sono succeduti ai più grandi scellerati che abbiano calpestato il nostro suolo. Ma quando il concorso di cento circostanze avrà restaurato il trono, per loro ci sarà l’amnistia, nel senso più forte della parola, e i loro nomi, per sempre oscuri, rimarranno sepolti nell'oblio. Non perdano dunque mai di vista l'aureola immortale che dovrà circondare i nomi dei restauratori della monarchia. E poiché ogni insurrezione del popolo contro la nobiltà non conduce mai ad altro che alla creazione di nuovi nobili, già si vede come si formeranno quelle nuove razze, di cui le circostanze affretteranno il lustro e che, fin dalla culla, potranno pretendere tutto.

II. Dei beni nazionali
I francesi vengono spaventati con la prospettiva della restituzione dei beni nazionali; si accusa il re di non aver osato toccare questo delicato argomento nella sua dichiarazione (7). A una gran parte della nazione si potrebbe dire; e a voi che importa? e non sarebbe probabilmente una cattiva risposta. Ma per non dare l'impressione di voler evitare le difficoltà, conviene osservare che, a proposito dei beni nazionali, l'evidente interesse della Francia, in generale, e anche ovviamente, in particolare, l'interesse dei possessori di questi beni, si accordano con il ristabilimento della monarchia. Anche gli animi meno sensibili sono indignati per le truffe compiute attorno a questi beni. Nessuno crede alla legittimità di tali acquisizioni; coloro stessi che declamano con più eloquenza su questo argomento, difendendo la legislazione attuale, si affrettano a rivendere per assicurarsi un guadagno, Non si ha il coraggio di godere pienamente di queste proprietà; e quanto più gli animi si raffredderanno, tanto meno si avrà il coraggio di investirvi denaro. Gli edifici andranno in rovina e a lungo non si oserà costruirne di nuovi; i prestiti saranno scarsi; il capitale della Francia deperirà notevolmente. In questo campo si è già fatto molto danno, e coloro che hanno potuto riflettere sugli abusi dei decreti avranno capito che cosa vuol dire un decreto scaraventato sopra quasi un terzo del più potente regno d'Europa.
In seno al corpo legislativo molto spesso è stato tracciato un quadro impressionante dello stato deplorevole di questi beni. Il male aumenterà continuamente, finché la coscienza pubblica non avrà più dubbi sull'inconsistenza di queste acquisizioni; ma chi può mai prevedere quando arriverà un tale momento?
A non considerare che i possessori, il pericolo principale per loro proviene dal governo. Non si facciano illusioni, per il governo non è indifferente prendere qua o là: perfino il più iniquo non chiederà di meglio che di riempire i propri forzieri facendosi meno nemici. Ora, è noto a quali condizioni i compratori hanno acquistato; è noto di quali infami manovre, di quale scandaloso aggio quei beni sono stati oggetto. Il vizio originario e permanente dell'acquisizione è indelebile agli occhi di tutti, cosi il governo francese non può ignorare che, torchiando questi acquirenti, avrà l'opinione pubblica dalla sua parte, e sarà ingiusto solo per loro; d'altronde, nei governi popolari, anche se legittimi, l'ingiustizia non ha pudore; si può ben immaginare quel che accadrà in Francia, dove il governo, variabile come le persone e privo di identità, non pensa mai di ritornare sul proprio operato annullando quel che è stato fatto.
Appena porrà, dunque, si getterà sui beni nazionali. Porte della coscienza e (quel che non va dimenticato) della gelosia di tutti coloro che non ne possiedono, tormenterà i proprietari, o con nuove vendite in qualche maniera modificate, o pretendendo un supplemento di prezzo, oppure con imposte straordinarie; in breve, non staranno mai tranquilli.
Tutto invece è stabile sotto un governo stabile; di modo che perfino i possessori dei beni nazionali, per essere certi del loro futuro, hanno interesse a che la monarchia sia restaurata. Del tutto a sproposito si è rimproverato il re di non aver parlato chiaro su questo punto nella sua dichiarazione: non poteva farlo senza commettere una grave imprudenza. Quando verrà il momento, non sarà probabilmente su questo problema che la legislazione mostrerà il suo maggior rigore.
Ma qui bisogna ricordare ciò che ho detto nel capitolo precedente; gli interessi di tale o tal altra classe di individui non arresteranno la controrivoluzione. Quel che voglio provare è che conviene al piccolo numero di uomini che può influire su questo grande avvenimento di non aspettare che gli abusi dell'anarchia, accumulandosi, lo rendano inevitabile e lo producano bruscamente; infatti, più il re sarà imposto dalla necessità, e più sarà dura la sorte di tutti coloro che hanno guadagnato dalla rivoluzione.

III. Delle vendette
Un altro spauracchio di cui ci sì serve per far temere ai francesi il ritorno del loro re, è quello delle vendette che dovrebbero accompagnarlo.
Questa obiezione, come le altre, viene avanzata soprattutto da alcuni uomini d'ingegno che non vi credono affatto; tuttavia sarà bene discuterla a profitto delle persone oneste che la ritengono fondata.
Molti scrittori realisti hanno respinto come un insulto questo desiderio di vendetta che si attribuisce al loro partito. Un solo esempio parlerà per tutti: lo cito per il mio piacere e per quello dei miei lettori. Non si potrà accusarmi di averlo scelto fra i realisti più frigidi.
"Sotto il giogo di un potere illegittimo, si devono temere le più orribili vendette; infatti, chi avrebbe mai il diritto di reprimerle? La vittima non può invocare in suo soccorso l'autorità di leggi che non esistono ne di un governo che è solo il frutto del crimine e dell'usurpazione.
"Tutt'altro accade con un governo che poggi sulle sue basi sacre, antiche, legittime. Esso ha il diritto di soffocare le più giuste vendette e di punire all'istante, con la spada delle leggi, chiunque si lasci andare all'impulso della natura più che al sentimento dei propri doveri.
"Solo un governo legittimo ha il diritto di proclamare l'amnistia e ha i mezzi per farla osservare.
"Ne consegue, quindi, che il più perfetto, il più puro dei realisti, il più gravemente oltraggiato nella sua famiglia e nelle sue proprietà, deve essere punito con la morte, sotto un governo legittimo, se osa vendicare da sé le ingiurie a lui rivolte, quando il re gliene ha comandato il perdono.
"È dunque sotto un governo fondato sulle nostre leggi che l'amnistia può essere accordata con sicurezza e che può essere rigorosamente rispettata.
"Ah! sarebbe certo facile discutere fino a che punto il diritto del re può estendere un'amnistia. Le eccezioni che il primo dei suoi doveri prescrive sono ben evidenti. Chiunque si sia bagnato del sangue di Luigi XVI non può sperare grazia se non da Dio, Ma chi oserebbe poi tracciare con mano sicura i limiti dove devono arrestarsi l'amnistia e la clemenza del re? Il mio cuore e la mia penna si rifiutano di farlo. Se mai qualcuno avrà il coraggio di scrivere su questo argomento, sarà senza dubbio quell'uomo raro e forse unico, se esiste, che non ha mai sbagliato nel corso di questa orribile rivoluzione, e il cui cuore, puro come la sua condotta, non ha avuto mai bisogno di perdono" (8).
La ragione e il sentimento non potrebbero trovare espressioni più nobili. Sarebbe da compiangere l'uomo che non riconoscesse, in questo brano, l'accento della convinzione.
Dieci mesi dopo la data di questo scritto, il re ha pronunciato, nella sua dichiarazione, quelle parole così note, e così degne di esserlo: Chi oserebbe vendicarsi quando il re perdona?
Egli ha escluso dall'amnistia solo coloro che votarono la morte di Luigi XVI, i collaboratori, gli strumenti diretti e immediati del suo supplizio, e i membri del tribunale rivoluzionario che mandò al patibolo la regina e madame Elisabetta. Cercando perfino di limitare l'anatema nei riguardi dei primi, tanto quanto la coscienza e l'onore glielo permettevano, non ha compreso fra i parricidi coloro dei quali è permesso credere che si mescolarono agli assassini di Luigi XVI solo con l'intenzione di salvarlo.
Perfino verso questi mostri che la. posterità non potrà nominare senza orrore, il re si è limitato a dire, con misura e con giustizia, che la Francia intera invoca sulle loro teste la spada della giustizia.
Con questa frase, egli non ha rinunciato al diritto di concedere la grazia in casi particolari: sta ora ai colpevoli decidere che cosa potrebbero mettere sul piatto della bilancia per equilibrare i loro misfatti. Monk si servi di Ingolsby per arrestare Lambert (9). Si può fare ancora meglio di Ingolsby.
Osserverò inoltre, senza pretendere di diminuire il sacrosanto orrore che è dovuto agli uccisori di Luigi XVI, che agli occhi della giustizia divina non tutti sono ugualmente colpevoli. Nella sfera morale, come in quella fisica, la forza della fermentazione è proporzionale alle masse che fermentano. I settanta giudici di Carlo I erano assai più padroni di se stessi che i giudici di Luigi XVI. Fra costoro vi furono certamente dei colpevoli ben risoluti, che non potranno mai essere detestati abbastanza; ma questi grandi colpevoli avevano avuto l'arte di suscitare un tale terrore, avevano prodotto sugli animi meno vigorosi una tale impressione, che molti deputati, non ne dubito, furono privati di una parte del loro libero arbitrio. È difficile farsi un'idea chiara del delirio indefinibile e sovrannaturale che si impadronì dell'assemblea all'epoca del processo di Luigi XVI, Sono convinto che molti dei colpevoli, quando ricordano quell'evento funesto, credano di avere fatto un cattivo sogno, e che riescano a spiegarlo a se stessi meno di quanto ce lo spieghiamo noi.
Questi colpevoli, afflitti e sorpresi di esserlo, dovrebbero cercare di guadagnarsi la tranquillità.
Del resto, questo non riguarda che loro; la nazione infatti sarebbe ben vile se considerasse la punizione di tali uomini come un inconveniente della controrivoluzione; ma pure per coloro che avessero questa debolezza, si può osservare che la Provvidenza ha già cominciato a punire i criminali. Più di sessanta regicidi, fra i più colpevoli, sono periti di morte violenta; senza dubbio, altri periranno, oppure lasceranno l'Europa prima che la Francia torni ad avere un re; pochissimi cadranno nelle mani della giustizia.
I francesi, perfettamente rassicurati sulle vendette giudiziarie, devono esserlo anche sulle vendette private. A questo riguardo dispongono degli impegni più solenni: hanno la parola del loro re, e non è loro permesso di avere paura.
Ma siccome bisogna parlare a tutti gli animi e prevenire tutte le obiezioni, e siccome bisogna rispondere perfino a coloro che non credono all'onore e alla fede, si deve provare che le vendette private non sono possibili.
Anche il sovrano più potente non ha che due braccia. Esso è forte solo grazie agli strumenti che impiega e che l'opinione gli affida. Ora, benché sia evidente che il re, dopo la supposta restaurazione, cercherà solo di perdonare, immaginiamo pure, nella peggiore delle ipotesi, l'eventualità contraria. Come potrebbe agire, se volesse esercitare delle vendette arbitrarie? L'esercito francese, cosi come lo conosciamo, sarebbe torse uno strumento duttile nelle sue mani? L'ignoranza e la malafede si compiacciono di rappresentare questo re futuro come un Luigi XIV, al quale, simile al Giove di Omero, basterebbe aggrottare il ciglio per sconvolgere la Francia. È appena il caso di dimostrare quanto questa supposizione sia falsa. II potere della sovranità e interamente morale. Essa comanda invano se quel potere non è dalla sua parte; e bisogna possederlo nella sua pienezza per poterne abusare. Il re di Francia che salirà sul trono dei suoi antenati non avrà certamente voglia di cominciare con degli abusi; e se pure l'avesse, essa sarebbe vana, perché egli non sarebbe abbastanza forte per soddisfarla. Il berretto rosso, toccando la fronte regale, ha fatto sparire le tracce dell'olio santo: l'incanto è spezzato, continue profanazioni hanno distrutto l'autorità divina dei pregiudizi nazionali, e a lungo ancora, intanto che la fredda ragione incurverà i corpi, gli spiriti resteranno in piedi. Si fa finta di temere che il nuovo re di Francia infierisca contro i suoi nemici: suvvia! riuscisse almeno a ricompensare i suoi amici (10).
I francesi possiedono dunque due garanzie infallibili contro le pretese vendette con cui vengono spaventati: l'interesse del re e la sua impotenza (11).
Anche il ritorno degli emigrati fornisce agli avversari della monarchia un inesauribile soggetto di timori immaginari. È importante dissolvere questa visione.
La prima cosa da notare è che vi sono affermazioni vere la cui verità vale solo in un determinato momento; eppure si ha l'abitudine di ripeterle a lungo dopo che il tempo le ha rese false e perfino ridicole, li partito legato alla rivoluzione poteva temere il ritorno degli emigrati subito dopo la legge che li proscrisse: non dico che avesse ragione; ma che importa? 'è una questione puramente oziosa, di cui sarebbe inutile occuparsi. Il problema è sapere se in questo momento il rientro degli emigrati ha qualcosa di pericoloso per la Francia.
La nobiltà mandò 284 deputati a quegli Stati generali di funesta memoria che hanno provocato tutto quello che poi si è visto. Attraverso una ricerca fatta su diverse circoscrizioni, non si sono mai trovati più di 80 elettori per ogni deputato. Non è certo impossibile che in alcune circoscrizioni il numero fosse maggiore; ma bisogna anche tenere conto degli individui che hanno votato in più di una circoscrizione.
Tutto considerato, si può calcolare a 25.000 il numero dei capi famiglia nobili che parteciparono all'elezione degli Stati generali; e moltiplicandoli per 5, numero dei componenti comunemente attribuito, come si sa, ad ogni famiglia, avremo 125.000 teste nobili. Diciamo 130.000, per spingere l'ipotesi all'estremo: togliendo le donne, ne restano 65.000. Sottraiamo da questo numero: 1) i nobili che non sono mai emigrati, 2) quelli che sono rientrati, 3) i vecchi, 4) i bambini, 5) i malati, 6) i preti, 7) tutti quelli che sono morti a causa della guerra, dei supplizi, o semplicemente per morte naturale; resterà un numero che non è facile determinare con esattezza, ma che, da tutti i possibili punti di vista, non potrebbe allarmare la Francia.
Un principe (Il principe di Condé), degno del proprio nome, è alla testa di 5 o 6.000 uomini al massimo; questo esercito, che non è neppure tutto composto di nobili, ha dato prova di grande valore combattendo sotto vessilli stranieri; ma, preso da solo, conta molto poco. Insomma, è evidente che, dal punto di vista militare, gli emigrati non sono niente e non possono niente.
Vi è poi un'altra considerazione che si collega più particolarmente allo spirito di questo scritto, e che merita di essere sviluppata.
Non esiste il caso nel mondo, e neppure, di conseguenza, esiste il disordine, poiché il disordine viene ordinato da una mano sovrana che lo piega alla regola e lo costringe a concorrere allo scopo.
Una rivoluzione non è che un movimento politico che deve produrre un certo effetto in un certo periodo. Questo movimento ha le sue leggi; e osservandole attentamente per un certo lasso di tempo, se ne possono ricavare delle previsioni abbastanza sicure per l'avvenire. Ora, una delle leggi della rivoluzione francese è che gli emigrati non possono attaccarla se non a loro scapito, e che essi sono totalmente esclusi da qualsiasi opera venga compiuta.
Dalle prime illusioni della controrivoluzione, fino alla sfortunata impresa di Quiberon, tutto quello che essi hanno tentato non è mai riuscito, e si è perfino rivolto contro di loro. Non solo non riescono, ma tutto ciò che intraprendono è talmente contrassegnato da impotenza e da nullità, che alla fine l'opinione si è assuefatta a considerarli come uomini che si ostinano a difendere un partito proscritto; e questo li pone in un discredito di cui si accorgono perfino i loro amici.
Un tale discredito non sorprenderà molto coloro che ritengono che la rivoluzione francese abbia per causa principale la degradazione morale della nobiltà.
Il signore di Saint-Pierre osserva da qualche parte, nei suoi Etudes de la Nature, che se si paragona la figura dei nobili francesi con quella dei loro antenati, dei quali la pittura e la scultura ci hanno tramandato la fisionomia, si vede con chiarezza che queste razze sono degenerate.
Si può prestargli fede su questo punto, più che sulle fusioni polari o sulla figura della terra.
Esiste in ogni stato un certo numero di famiglie che si potrebbero chiamare co-sovrane, anche nelle monarchie; la nobiltà, infatti, in questi governi, non è che un prolungamento della sovranità. Queste famiglie sono le depositarle del fuoco sacro; appena cessano di essere vergini, esso si estingue.
Si tratta di sapere se queste famiglie, una volta estinte, possono essere perfettamente sostituite. Per lo meno, non bisogna credere, se ci si vuole esprimere con esattezza, che i sovrani possano nobilitare. Vi sono famiglie nuove che si lanciano, per così dire, nell'amministrazione dello Stato, le quali emergono dall'eguaglianza in modo sorprendente, e si elevano fra le altre come vigorose querce in mezzo a una selva. I sovrani possono sanzionare queste nobilitazioni naturali; a ciò si limita il loro potere. Se essi si oppongono a un numero troppo grande di queste nobilitazioni, oppure se si permettono di farne troppe usando del loro pieno potere, finiscono per causare la distruzione dei propri stati. La falsa nobiltà era una delle grandi piaghe della Francia: altri imperi meno splendenti ne sono afflitti e disonorati, in attesa di altre sventure.
La filosofia moderna, che ama tanto parlare del caso, parla soprattutto della casualità della nascita; è uno dei suoi motivi favoriti. Ma non vi è in questo campo più casualità che in altri: esistono famiglie nobili cosi come esistono famiglie sovrane. Può l'uomo creare un sovrano? Tutt'al più può servire da strumento per deporre un sovrano e consegnare il suo potere ad un altro sovrano di origine principesca (13). Del resto, non è mai esistita una famiglia sovrana della quale si potesse indicare l'origine plebea: se un tale fenomeno si verificasse segnerebbe una nuova epoca del mondo (14).
Fatte salve le debite proporzioni, accade con la nobiltà quel che accade con la sovranità. Senza entrare in troppi dettagli, contentiamoci di osservare che, se la nobiltà abiura i dogmi nazionali, lo Stato è perduto (15).
Il ruolo che hanno giocato alcuni nobili nella rivoluzione francese è mille volte, non dico più orribile, ma più terribile di tutto quello che, durante questa rivoluzione, è stato dato di vedere.
Dell'agghiacciante sentenza emessa sulla monarchia francese, non c'è stato segno più spaventoso e più decisivo di questo.
Ci si chiederà forse che cosa queste colpe possano avere a che fare con gli emigrati che le aborriscono. Risponderò che gli individui che compongono le nazioni, le famiglie e perfino i corpi politici, sono solidali fra loro: è un fatto. Risponderò inoltre che le ragioni per cui soffre la nobiltà emigrata sono assai anteriori all'emigrazione stessa. Le differenze che possiamo osservare fra questo e quel nobile francese non sono, agli occhi di Dio, che differenze di longitudine e di latitudine: non perché sì è qui piuttosto che là, si è quali si deve essere; e tutti coloro che dicono: Signore! Signore! non entreranno nel regno dei cieli. Gli uomini giudicano solo dalle apparenze; ma quel nobile a Coblenza potrebbe avere più rimproveri da farsi di quell'altro nobile che stava seduto sul lato sinistro dell'assemblea detta costituente.
Insomma, la nobiltà francese non deve prendersela altro che con se stessa per tutte le sue disgrazie; e quando se ne sarà convinta, avrà fatto un gran passo avanti. Le eccezioni, più o meno numerose, sono degne dell'universale rispetto, ma se ne può parlare solo in termini generali. Oggi la nobiltà sofferente (la quale non può patire che una eclissi) deve piegare la testa e rassegnarsi.
Un giorno essa dovrà abbracciare di buona grazia dei figli che non ha portato nel proprio seno: nel frattempo, non deve più compiere azioni pubbliche; forse sarebbe perfino meglio che non la si fosse mai vista in un atteggiamento minaccioso. In ogni caso, l'emigrazione fu un errore, e non un torto: la maggior parte credeva di obbedite all'onore.
Numen abire jubet; prohibent discedere leges (16).
È il Dio che ha avuto la meglio.
Vi sarebbero molte altre riflessioni da fare su questo argomento; atteniamoci ai fatti, che sono evidenti. Gli emigrati non possono niente, si può perfino aggiungere che essi non sono niente; infatti ogni giorno il loro numero diminuisce, a dispetto del governo, grazie a quella legge invariabile della rivoluzione francese, che vuole che tutto si faccia nonostante gli uomini e contro tutte le probabilità.
Resi docili da lunghe sventure, ogni giorno gli emigrati si riavvicinano ai loro concittadini. L'acredine scompare: da una parte e dall'altra ci si comincia a ricordare di una patria comune, ci si tende la mano, e perfino sul campo di battaglia si riconoscono dei fratelli. Lo strano amalgama che vediamo da qualche tempo non ha alcuna causa visibile (infatti le leggi non sono cambiate), ma non per questo il fenomeno è meno reale. Dunque, gli emigrati non sono niente quanto al loro numero; non sono niente quanto alla loro forza, e presto non saranno più niente quanto al loro odio.
Per ciò che riguarda le più infervorate passioni di una piccola minoranza, si può fare a meno di occuparsene. Ma c'è ancora una riflessione importante che non devo passare sotto silenzio. Ci si basa su alcuni discorsi imprudenti, che giovani sconsiderati o inaspriti dalla sventura si sono lasciati sfuggire, per terrorizzare i francesi a proposito del ritorno di costoro. Ammettiamo pure, per concedere tutto il possibile all'ipotesi contraria alla mia, che questi discorsi annuncino realmente delle intenzioni ben risolute: credete che coloro che le nutrissero sarebbero in grado di metterle in atto dopo la restaurazione della monarchia? Vi ingannereste di molto. Non appena fosse ristabilito il governo legittimo, questi uomini avrebbero solo la forza per obbedire. L'anarchia rende necessaria la vendetta; l'ordine la esclude rigorosamente. L'uomo che in questo momento parla solo di punire, si troverà allora nel bel mezzo di circostanze che Io costringeranno a volere solo ciò che vuole la legge; e nel suo stesso interesse sarà un cittadino tranquillo, e lascerà la vendetta ai tribunali. Ci si fa ingannare sempre dal medesimo sofisma: un partito è stato crudele quando era al potere; dunque il partito contrario sarà crudele quando a sua volta sarà al potere. Nulla è più falso. In primo luogo, questo sofisma suppone che vi sia da una parte e dall'altra la stessa quantità di vizi; ciò che sicuramente non è vero. Senza insistere molto sulle virtù dei realisti, sono almeno certo di avere dalla mia la coscienza universale quando affermo semplicemente che ve ne sono meno dalla parte della repubblica. D'altronde, anche solo i pregiudizi, a prescindere dalle virtù, possono rassicurare la Francia che essa non avrà da soffrire, per mano dei realisti, niente di simile a quanto ha sofferto per mano dei loro nemici.
A questo riguardo, l'esperienza ha già offerto delle prove che devono tranquillizzare i francesi; essi hanno visto, in più di un'occasione, che il partito che aveva subito ogni genere di offese da parte dei suoi nemici, non ha saputo vendicarsi quando li ha avuti in suo potere. Un piccolo numero di vendette, che hanno fatto un cosi gran rumore, provano la stessa cosa; infatti si è visto che solo il più scandaloso rifiuto di esercitare la giustizia ha potuto produrre tali vendette, e che nessuno si sarebbe fatto giustizia da sé, se il governo avesse potuto o voluto farlo.
È inoltre del tutto evidente che il più vitale interesse del re sarà di impedire le vendette. Uscito appena dai mali dell'anarchia, non vorrà certo reintrodurla. L'idea stessa della violenza lo farà impallidire, e questo crimine sarà il solo che egli non si crederà in diritto di perdonare.
La Francia, d'altronde, è ben stanca di convulsioni e di orrori.
Essa non vuole più sangue; e dato che l'opinione già ora è abbastanza torte per tenere a freno il partito che ne vorrebbe ancora, si può ben prevedere quanto grande sarà la sua forza quando avrà anche il governo dalla propria parte. Dopo sventure cosi lunghe e cosi terribili, i francesi si riposeranno dolcemente in braccio alla monarchia. Qualsiasi attentato contro questa tranquillità sarebbe veramente un crimine di lesa-nazione, che i tribunali non avranno forse il tempo di punire.
Queste ragioni sono così convincenti che nessuno si può ingannare. Non bisogna, quindi, lasciarsi sedurre da quegli scritti in cui vediamo una ipocrita filantropia condannare gli orrori della rivoluzione, e appoggiarsi sui suoi eccessi per dimostrare la necessità di evitarne una seconda. In realtà, essi condannano questa rivoluzione solo per non tirarsi addosso l'universale esecrazione; ma essi la apprezzano, ne apprezzano gli autori e i risultali, e di tutti i crimini che ha prodotto, non condannano che quelli di cui poteva fare a meno. Non vi è uno solo di questi scritti che non contenga prove evidenti del fatto che gli autori appartengono, per inclinazione, al partito che per pudore condannano.
Cosi i francesi, sempre ingannati, lo sono più che mai in questa occasione. Hanno paura per sé, mentre non hanno nulla da temere; e sacrificano la loro felicità per contentare qualche miserabile. Se le teorie più evidenti non riescono a convincere i francesi, e se costoro ancora non si rendono conto che la Provvidenza è la custode dell'ordine, e che non è affatto la stessa cosa agire con o contro di essa, cerchiamo almeno di prevedere quel che essa farà da quel che ha fatto; e se i ragionamenti scivolano via sul nostro pensiero, diamo ascolto almeno alla storia, che è la politica sperimentale. L'Inghilterra ha offerto, nel secolo scorso, più o meno lo stesso spettacolo che la Francia ha offerto nel nostro. Il fanatismo della libertà, riscaldato con quello della religione, penetrò gli animi più profondamente di quanto non abbia fatto in Francia, dove il culto della libertà si fonda sul nulla. Che differenza, d'altronde, nel carattere delle due nazioni e in quello degli attori che hanno svolto un ruolo sulle due scene! Dove sono, non dico gli Hamden (17), ma i Cromwell della Francia? Eppure, malgrado il fanatismo ardente dei repubblicani, malgrado la risoluta fermezza del carattere nazionale, malgrado gli errori troppo interessati dei molti colpevoli e soprattutto dell'esercito, la restaurazione della monarchia ha forse provocato, in Inghilterra, delle violenze paragonabili a quelle che aveva prodotto una rivoluzione regicida? Che ci si mostrino, se si è in grado di farlo, le atroci vendette dei realisti. Alcuni regicidi perirono per autorità delle leggi; per il resto, non vi furono né combattimenti né vendette privare. Il ritorno del re non fu contrassegnato che da un grido di gioia che risuonò in tutta l'Inghilterra; tutti i nemici si abbracciarono. Il re, sorpreso di quel che vedeva, esclamò con tenerezza: Non è forse mia la colpa, se così a lungo sono stato respinto da un popolo tanto buono? L'illustre Clarendon (18), testimone e storico integerrimo di questi grandi avvenimenti, ci dice che non si sapeva più dove era quel popolo che aveva commesso tanti eccessi e privato cosi a lungo il re della felicità di regnare su sudditi eccellenti. Vale a dire che il popolo non riconosceva più il popolo. Non si potrebbe dire meglio.
Ma questo grande cambiamento da che dipendeva? Da niente, o per meglio dire, da niente di visibile: un anno prima, nessuno lo credeva possibile. Non si sa nemmeno se fu diretto da un realista, giacché è un problema insolubile sapere in quale momento Monk cominciò in buona fede a servire la monarchia.
Si dirà allora che i realisti si erano imposti sul partito avverso con la forza. Per nulla: Monk non aveva che seimila uomini; i repubblicani ne avevano cinque o sei volte di più: essi detenevano tutte le cariche e occupavano militarmente l'intero regno. Eppure Monk non dovette impegnare un solo combattimento; tutto si fece senza sforzo e come per incantesimo: m Francia accadrà lo stesso. Il ritorno all'ordine non può essere doloroso, poiché sarà naturale, e poiché sarà favorito da una forza segreta, la cui azione è tutta creatrice. Vedremo precisamente il contrario di quanto abbiamo visto finora. Al posto di queste emozioni violente, di queste dolorose lacerazioni, di queste oscillazioni continue e disperanti, una certa stabilità, un riposo indefinibile, un benessere universale annunceranno la presenza della sovranità. Non vi saranno scosse, non vi saranno violenze, non vi saranno nemmeno supplizi, salvo quelli che la nazione autentica approverà; pure il delitto e le usurpazioni saranno trattati con severità misurata, con quella giustizia serena che è propria solo del potere legittimo. Il re toccherà le piaghe dello Stato con mano timida e paterna. Insomma, è questa la grande verità di cui Ì francesi non potranno mai convincersi abbastanza: la restaurazione della monarchia, che viene chiamata controrivoluzione, non sarà una rivoluzione contraria ma il contrario della rivoluzione.

NOTE:

1 Allusione alla legge del 20 settembre 1792 che istituiva il divorzio.
2 "Costruisce, smantella, forma e trasforma" (Orazio, Epistole, I, 100; trad. di Enzo Mandruzzato).
3 Lettera del re al principe dì Condé, del 3 gennaio 1797, pubblicata su tutti i giornali [n.d.a].
4 La famosa legge che escludeva il Terzo Stato dal servizio militare non poteva essere eseguita: si trattava semplicemente di una goffaggine ministeriale, che la passione ha presentato come una legge fondamentale [n.d.a.].
5 Scimus, et hanc veniam petimusque damusque vicissim, / Sed non ut placidis coeant immitia, non ut / Serpentes avibus geminentur, tigribus agni [Lo sappiamo, anzi questa facoltà noi la domandiamo e la concediamo a vicenda; ma non fino al punto che con esseri mansueti si uniscano esseri feroci, non fino al punto che i serpenti si accoppino con gli uccelli, e gli agnelli con le tigri (trad. di Andrea Gustarelli) ]. È quanto di meglio possono dire certi governi all'Europa che li interroga [n.d.a.].
6 Giacomo II, re d'Inghilterra dal 1685 al 1688, fu detronizzato da Guglielmo d'Orange.
7 È sempre la Dichiarazione di Verona del 1795.
8 Observations sur la conduite des puissances coalisées, del conte d'Antraigues, 1795, Prefazione, pp, XXXIV e sgg. [n.d.a].
9 Il generale John Lambert, a lungo braccio destro di Cromwell, dopo la morte del Lord Protettore, fu sconfitto da Monk, il restauratore della monarchia inglese. Riuscito a fuggire, fu catturalo da Ingolsby, uno dei giudici di Carlo I.
10 È nota la battuta di Carlo II sul pleonasmo della formula inglese AMNISTIA E OBLIO: Intendo, disse, amnistia per i miei nemici e oblio per i miei amici [n.d.a.].
11 Gli avvenimenti hanno confermato tutte queste previsioni del buon senso. Dopo che questo scritto era già stato terminato, il governo francese ha pubblicato i documenti di due cospirazioni smascherate, e che vanno giudicate in maniera distinta: l'una giacobina, l'altra monarchica. Sulla bandiera del giacobinismo era scritto: morte a tutti i nostri nemici; su quella del realismo, invece; grazia a tutti coloro che non la rifiuteranno. Per impedire al popolo di trarre da sé le conseguenze, gli è stato detto che il parlamento annullerebbe l'amnistia reale; ma questa sciocchezza supera il maximum; sicuramente non avrà fortuna [n.d.a.].
13 La maniera stessa con cui il potere umano è impiegato in queste circostanze e sempre tale da umiliarlo. Qui soprattutto si possono rivolgere all'uomo queste parole di Rousscau: Mostrami la tua potenza, ti mostrerò la tua debolezza [n.d.a.].
14 Si sente dire abbastanza spesso che se Richard Cromwell avesse avuto il genio di suo padre, .avrebbe reso il protettorato ereditario nella sua famiglia. Molto ben detto! [n.d.a].
15 Un dotto italiano ha fatto una singolare considerazione. Dopo aver osservato che la nobiltà è la custode naturale, e come la depositarla della religione nazionale, e che questo carattere è più notevole man mano che si risale verso l'origine delle nazioni e delle cose, egli aggiunge: Talché dee esser'un gran segno, che vada a finire una nazione ove i nobili disprezzano la religione natta. Vico, Principi di una scienza nuova, Libro II, Napoli, 1754, p. 246. Quando il sacerdozio è membro politico dello Stato e le sue alte cariche sono occupate, in generale, dalla grande nobiltà, ne risulta la più forte e la più durevole di tutte le costituzioni possibili. Così il filosofismo, che è il dissolvente universale, ha compiuto il suo capolavoro con la monarchia francese [n.d.a.].
16 "Un dio ordina di partire; le leggi proibiscono di andarsene" (Ovidio, Metamorfosi, XV, 28).
17 Hume, tomo X. capitolo LXII, 1660 [n.d.a.].
18 Edward Hyde, conte di Clarendon, uomo di Stato e storico inglese (1608-1674), scrisse un celebre. libro sulla rivoluzione del 1648.