martedì 2 settembre 2014

Leggende e verità sui soldati del Litorale

fonte http://www.kuk-ir97.com/

Küstenländisch-Krainerisches Infanterie Regiment "Freiherr von Waldstätten" Nr. 97, partenza da Trieste 


Altra argomentazione usata dai soste­nitori della scarsa combattività dei soldati imperiali del Litorale, è l'inter­pretazione del motto popolare “soldà scampà xe bon per al­tra vol­ta”.

L'in­terpretazione letterale è ov­via; quella sto­rica, deve tenere conto del­l'abitudine au­stro-ungarica di risparmiare le truppe sot­toposte a bombardamenti o in posizioni poco difendibili, tecnica presso­ché sconosciuta nel Regio Esercito, dove qualsiasi tipo di ripiegamento era inconce­pibile.

La tecnica della ritirata tattica, possibilmente seguita da una veloce controffen­siva locale, era diffusa in Galizia (come te­stimoniato nelle cronache del Cap. Nebe­sar) ma anche sull'Isonzo, dove l'imperativo era certo di resistere a qualsiasi costo, ma non sicuramente di condannare a morte certa i sol­dati, i quali si ritiravano e si riparavano alla meno peggio durante i bombardamenti, per poi tornare ad occupare le postazioni precedenti in concomitanza dell'assalto all'arma bianca che seguiva il bombardamento ini­ziale.

Questo schema di attacchi e contrat­tacchi ebbe alcune eccezioni; accadde ad esempio che entrambi schieramenti simulassero solamente gli assalti, per attirare le truppe nemiche nelle trincee e ri­prendere il bombardamento colpendole di sorpresa.

Dopo le immani perdite nelle battaglie campali del 1914, l'esercito austro-ungari­co aveva imparato a rispar­miare gli uomi­ni.
Localmente, per rispon­dere agli assalti nemici, era pratica comune ritirarsi dalla trincea dirimpetto quella nemica, per effettuare dei contrattacchi di sorpresa anche not­turni, che riuscivano quasi sempre perché gli av­versari erano esausti e non avevano avuto il tem­po di consolidare le proprie posizioni.
Tra l'altro, le trincee erano sempre ri­volte al nemico e ed erano “aperte” nella direzione opposta.

Queste tat­tiche non erano possibili nel Regio Eserci­to, dove i bassi gradi di co­mando non ave­vano alcuna autonomia decisio­nale e ufficiali dovevano produrre un elevato numero di morti, per giustificare la propria "combattività" nei confronti del Comando Supremo (fonti varie, letteratura sulle battaglie dell'Isonzo).

Quindi, in­terpretando il motto “Sol­dà scampà...” in questo modo, si ottiene un altro indizio totalmente opposto a quello della codar­dia, ed anche lo spirito della parola “demoghèla”, potrebbe riferir­si all'abitudine della ritirata tattica, tecni­ca che i soldati non potevano non apprezza­re.

A proposito del ricordo, va segnalato che il Comune di Trieste non si è mai distinto, come quello di Monfalcone o altri delle vecchie provincie.
E' storia recente la distruzione delle lapidi nel cimitero di S. Anna, mentre è stato concesso di apporre solamente una piccola lapide a San Giusto, ma non nel “Parco della Rimembranza”, e solo in lingua italiana, riferita genericamente "ai nostri caduti".

Stranamente, è proprio a Trieste che la memoria dei cittadini in uniforme asbur­gica sembra essere più scomoda che altro­ve.
Senza dimenticare l'assunto storico per il quale centinaia di migliaia di persone prove­nienti da tutto l'Impero, morirono sull'I­sonzo per difendere gli obbiet­tivi dell'aggressione di Cadorna, nell'ordine: Trieste, Lubiana, Vienna.
Anche se le ambizioni iniziali si ridimensionarono e l'unico obbiettivo di tutta la guerra sull'Isonzo, rimase la città di Trieste.

La retorica patriottica non permette nemmeno un “grazie”, che storicamente sarebbe dovuto, perché non esiste alcun dubbio su chi fosse l'aggressore e sul fatto che la stragrande maggioranza dei triesti­ni (un paio di centinaia a fronte di circa 230.000 cittadini) non desiderasse essere “liberata”.