lunedì 21 aprile 2014

Cristiani crocifissi, teste come palloni da calcio, neonati impiccati: storie di ordinario martirio in Siria

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 traduzione a cura di Franciscus Pentagrammuli (http://radiospada.org/) dell'intervista pubblicata su fr.radiovaticana.va

La Siria, paese un tempo fra i più sicuri, è diventata una terra di combattimenti spietati nei quali i cristiani sono particolarmente vulnerabili. La città simbolo del martirio dei cristiani di Siria, Maaloula, recentemente riconquistata dalle truppe leali a Bashar El-Assad e strappata ai jihadisti, è stata ampiamente distrutta.
Suor Raghida, dottore in scienze dell’educazione, ha diretto la scuola del patriarcato greco-cattolico a Damasco. Oggi vive in Francia, e ha testimoniato del proprio percorso alla "notte dei testimoni", organizzata da ACS (Aiuto alla Chiesa che Soffre) alcuni giorni fa in varie chiese e cattedrali di Francia. Sua madre e i suoi sei fratelli e sorelle si trovano ancora in Siria, dove le loro vite sono quotidianamente in pericolo e subiscono numerose pressioni.
"Nelle città o nei villaggi occupati da elementi armati, i jihadisti e tutti i gruppi musulmani estremisti propongono ai cristiani o la chahada [professione di fede islamica, ndr] o la morte. A volte, si richiede un pagamento in denaro. Dunque, la scelta è fra la chahada, il prezzo, o la morte. E’ impossibile rinnegare la fede, quindi essi subiscono il martirio, e in un modo estremamente disumano, di un’estrema ed innominabile violenza. Se volete degli esempi, a Maaloula hanno crocifisso due giovani perché non hanno voluto pronunciare la chahada. Dicono: Allora, voi volete morire come il vostro Signore in cui credete. Potete scegliere: o dite la chahada, o siete crocifissi. Non c'è scampo: si sarà crocifissi. Ce n’è uno che è stato crocifisso davanti al babbo, anch’egli poi ucciso: ciò è avvenuto ad Abra, periferia industriale di Damasco. Mano a mano che entravano nella città, cominciavano ad ammazzare gli uomini, le donne, i bambini. E dopo il massacro, prendevano le teste e ci giocavano a calcio. Per quanto riguarda le donne, prendevano i loro bimbetti appena nati e li impiccavano agli alberi con i loro cordoni ombelicali. Grazie a Dio, la speranza e la vita sono più forti della morte: dopo la riconquista della città da parte dell’esercito regolare, si sono celebrate messe da requiem; si va avanti, e la preghiera si fa ancor più intensa".
Di fronte a queste atrocità, come fanno i cristiani a vivere nella quotidianità?
"Si dirigono verso zone più calme, lontane dai combattimenti, presso parenti o amici. Mancano le derrate alimentari: in certi posti, c’è qualche legume ma i prezzi sono esorbitanti poiché il costo della vita è aumentato del 500%, per non dire di più. Alcuni ricevono ancora un piccolo salario, certi funzionari ancora vanno al lavoro, a proprio rischio e pericolo. Non sanno, andando al lavoro, se ne torneranno vivi. E lo stesso è per i giovani che vanno a scuola o all’università, perché, per non lasciare nella gente la sensazione di stare ad aspettar la morte, alcune istituzioni continuano a lavorare con coloro che vi possono accedere. Si è formata una solidarietà fra le persone: quando manca il carburante, il gas, l’elettricità ed il pane stesso, i vicini se li prestano vicendevolmente. La maggior preoccupazione è per i bambini".
Come vivevano i cristiani prima di questa guerra?
"La Siria è un paese laico, nel pieno senso del termine. C’era una convivenza cordiale fra cristiani e musulmani. Essi si accettavano, vivevano nella semplicità. Disgraziatamente, sono arrivati gli eventi della guerra. Si vive tutto il tempo nella paura e nel timore. Prima di questi eventi, si viveva molto bene. Questo è il solo Paese in cui i Cristiani potevano praticare liberamente la loro fede, avere libertà di movimento. C’era una sicurezza introvabile nei Paesi limitrofi. Le Chiese si aiutavano fra di loro. A volte, si facevano delle processioni insieme, ortodossi e cattolici. I cristiani erano cristiani, non si badava alla confessione e al rito. C’era veramente un’intesa straordinaria.
Ora, purtroppo, è tutto diverso. Due terzi dei cristiani hanno abbandonato il Paese, e già non eravamo molti. Dopo le minacce ed il massacro di Maaloula, i cristiani hanno detto: Sta per arrivare il nostro turno, salviamo i bambini, malgrado gli appelli dei patriarchi e del nostro Papa che dicevano di non mollare, di rimanere, di testimoniare. Ma quelli che restano per davvero, sono persone che non hanno i mezzi per partire o che si son viste rifiutare i permessi per l'espatrio".
E per quel che riguarda la sua famiglia?
"Ho invitato due volte mia mamma a venire in Francia, ma per due volte il permesso le è stato rifiutato. I miei due fratelli, così come altri parenti, vicini o amici, hanno provato, ma anche a loro il visto è stato rifiutato. Come aiutare questi cristiani? Non li si protegge e si sentono abbandonati, ma non li si lascia partire. Quelli che rimangono sono veramente in pericolo".
Quali sono, nonostante tutto, i vostri motivi di speranza?
"Il Signore non ci abbandonerà. Ci saranno uomini di buona volontà, come ce ne sono ancora che lavorano ed operano per il ritorno della pace, per sostenere, per aiutare, per testimoniare la fratellanza nonostante la politica. I cristiani continuano a pregare e dicono: Nessuno muore prima che sia la sua ora. Ma il nostro paese si raddrizzerà, si ricostruirà, reagirà e tornerà ancora più forte di prima. La solidarietà è più forte di prima, il nostro attaccamento a Cristo e alla nostra fede sarà ancor più forte di prima".
Infine, vuole lanciare un appello?
"Mi appello ai protagonisti della politica, soprattutto ai francesi, perché la Francia ha un’influenza estremamente potente sugli altri. Chiedo a questi protagonisti di ripensare ai diritti dell’uomo e alla sua dignità. Ribadisco anche a tutti i miei compatrioti che vi sono persone che pensano a loro e che per loro pregano: dunque, che essi non disperino".