lunedì 15 giugno 2015

IL FONDO COMUNE (Estratto dall'opera di mons. Delassus "Il Problema dell'ora presente" Tomo II°)


Antoine Blanc de Saint-Bonnet

Il complesso delle ricchezze materiali, intellettuali e morali accumulate dal genere umano nel corso
dei secoli forma il tesoro attuale dell'umanità, tesoro immenso, acquistato da una quantità di lavoro
incommensurabile e con un numero infinito di atti di virtù.
A chi appartiene? E chi ha il diritto di usarne?
A questa domanda i socialisti, i democratici ed i conservatori danno risposte diverse se non
contraddittorie.
La soluzione vera non si può trovare che risalendo al primo principio della ragione umana: il
principio della causalità.
Ogni cosa appartiene a chi l'ha fatta.
È il principio che ci obbliga a riconoscere la suprema autorità di Dio su di noi, ad adorarlo, ad
obbedire a' suoi comandamenti. È il principio che legittima l'autorità dei genitori sui loro figliuoli. È
ancora il principio che mi rende padrone delle mie opere, fatta eccezione dei diritti di Dio, causa
prima di tutte le cose. "Il capitale - dice B. de Saint-Bonnet - ha un padre, figlio dell'uomo, il lavoro,
ed una madre, parimenti figlia dell'uomo, l'economia". I laboriosi lo creano, i virtuosi lo conservano
e gli intelligenti lo fanno valere. È giusto che appartenga a ciascuno nella misura che ciascuno ha
contribuito a formarlo.
Ora, se noi ricerchiamo quali sono stati i fattori della ricchezza totale che possiede attualmente
l'umanità, e, per conseguenza, quali devono essere i suoi padroni, troviamo che per una gran parte
bisogna lasciarlo al genere umano nel suo insieme; ma per le altre parti lo si può attribuire a tale o
tale nazione, a tale o tale famiglia, a tale o tale persona. Conformemente al principio suesposto, ogni
uomo che lavora ha diritto al frutto del suo lavoro, ogni famiglia che mette in serbo i prodotti dei
lavoro de' suoi membri, è legittima posseditrice del suo risparmio. Ogni nazione ha una patria che le
è propria, composta del territorio ch'essa ha fecondato coi sudori delle sue generazioni, delle
istituzioni che ha create e che ha perfezionate nel corso dei secoli. E, per conseguenza, le nazioni
hanno il diritto di resistere agli invasori; le famiglie - associazioni religiose o laiche quanto le
famiglie naturali - hanno il diritto di resistere agli spogliatori, ed i particolari al ladroneccio. Questo
dice la ragione non meno che la legge di Dio, la ragione appoggiata sul principio della causalità e
del dominio che la causa acquista sull'effetto che ha prodotto.
Ma se vi è nel capitale globale qualche cosa che appartiene agli individui, qualche cosa che
appartiene alle famiglie, qualche cosa che appartiene alle nazioni, vi si trova pure qualche cosa che
appartiene a tutto il genere umano, perché è il prodotto dell'attività della specie umana nella sua
totalità. Tutte le generazioni hanno contribuito a formare la terra vegetale, a costituire gli utensili, a
creare ed a sviluppare la civiltà; ogni membro della famiglia umana deve dunque godere del frutto
dei lavori dell'umanità. La legge di solidarietà che esiste per le famiglie e per le nazioni s'impone in
primo luogo al genere umano.
Vi deve dunque essere nel capitale attualmente esistente un fondo generale che appartiene a tutti, e
di cui tutti devono godere.
I socialisti s'appoggiano al giudizio alterato di questa verità per gridare contro la proprietà e
chiedere la divisione di tutti i beni. E per non sapere abbastanza distinguere quello che spetta
all'individuo, alla famiglia, alla nazione, all'umanità, molti democratici mettono nel cuore dei
proletari certe pretese che la giustizia punto non riconosce.
Pretendono che nelle nostre società, il capitale accumulato dalle successive generazioni non frutti se
non a quelli che lo posseggono, ai soli proprietari. Questa, dicono essi, è una ingiustizia che bisogna
fare sparire modificando, od anche distruggendo il presente stato sociale.
Senza dubbio, il nostro stato sociale non rappresenta la perfezione ideale, né alcuna società lo
raggiungerà giammai; l'imperfezione è il retaggio d'ogni uomo, d'ogni istituzione, d'ogni opera
umana. Ma non è esatto il dire che il capitale non frutta che ai proprietarii; frutta a tutti, tutti
(generalmente parlando ed ammettendo le eccezioni che sempre e dappertutto sono state e saranno
molteplici come inevitabili) godono de' suoi beneficii nella proporzione che ad essi appartiene. Il
lavoratore gode come individuo del peculio che ha guadagnato, come membro d'una famiglia del
patrimonio che essa ha accumulato; come cittadino, della civiltà che la nazione s'è formata; e come
uomo delle ricchezze acquistate dall'umanità. Di modo che, pel genere umano, per ogni popolo, per
ogni persona, alla misura della causalità, risponde la misura del diritto al godimento. È ciò che la
giustizia esige, è ciò che esiste, salvo le eccezioni, per quanto si vogliano numerose. Volerne di più
o altra cosa, è volere l'iniquità.
Senza riflettere, non si comprende tutto quello che si gode senza esserne proprietario. Bastiat, il
celebre comunista, l'ha dimostrato con un esempio eloquente.
"Affinché un uomo - egli dice - possa, alzandosi al mattino vestire un abito ..... fa mestieri che un
campo sia stato acquistato, chiuso da siepe, dissodato, asciugato, lavorato, seminato d'una certa
specie di vegetale: bisogna che delle greggie se ne sieno nutrite e che abbiano dato la loro lana; che
questa lana sia stata preparata, filata, tessuta, tinta e convertita in panno; che questo panno sia stato
tagliato, cucito e foggiato in vestito; che il tutto sia stato trasportato poi da diversi luoghi in altri,
poi messo in magazzino a portata di coloro che potessero averne bisogno o desiderio, un giorno o
l'altro".
Così, non prendendo alla mattina nient'altro che l'abito di cui si veste, ogni uomo gode i beneficii di
tutti i capitali che possiede la società ove si trova: campi, gregge, opificii d'ogni specie. Egli
approfitta di tutti gli utensili, delle miniere che hanno fornito il carbone necessario alle macchine
tessitrici, ai tini che hanno colorito il suo vestito, di quello di tutte le macchine per le quali la lana
ha dovuto passare per divenir panno, di quello delle masserie ove sono state allevate le greggie che
l'hanno prodotto. Egli profitta di tutti i mezzi di trasporto che hanno condotto queste diverse materie
e di tutti i magazzini che le hanno tenute a disposizione di quelli che ne avessero bisogno. Senza
questo, non avrebbe abito, o per averlo avrebbe dovuto compiere da se stesso questi innumerevoli
atti che sono concorsi alla sua confezione, dalle prime zappate date alla terra per ridurla a produrre
il nutrimento richiesto dal montone, fino agli ultimi punti d'ago che uniscono gli uni agli altri i pezzi
del vestito.
Così avviene di tutte le cose che noi usiamo pel mantenimento del nostro corpo, per lo sviluppo
della nostra intelligenza, per la santificazione della nostra anima. Io non ne sono proprietario che
d'un piccolo numero di queste cose, ma tutte vengono a servirmi. È giustizia, perché non havvene
alcuna in cui non entri per qualche cosa il lavoro di tanti secoli. Ad ogni momento, ciascuno di noi
profitta, senza pensarvi, di tutto ciò che l'umanità ha fatto, e di tutto ciò ch'essa ha conservato da
Adamo in poi, e questo godimento s'accresce ad ogni istante, perché in ogni istante il capitale
aumenta: ad eccezione di momenti di rivoluzione o del fine della civiltà, perché allora il capitale
perisce, od almeno in parte sparisce.
In nessun tempo, il capitale-utensile, s'è accresciuto come nel secolo XIX. L'invenzione del vapore
e dell'elettricità ha dato al meccanismo una potenza fino ad ora inaudita. La statistica dei pubblici
lavori rileva nel 1898 novantamilanovecento sessantanove macchine a vapore, che raggiungono una
forza di circa sette miliardi di cavalli-vapore,(1) e compiono il lavoro di trentanove miliardi
ottocentosessanta milioni di giornate di operai. Tutti approfittano, e della facilità che questa enorme
potenza porge al lavoro, e dell'aumento dei prodotti che fornisce, e del benessere che ne risulta.
L'operaio, generalmente parlando, è oggi meglio alloggiato, meglio nutrito, meglio vestito d'una
volta, precisamente per questo accrescimento del capitale.
Qual operaio, quale operaia vorrebbero vestire come vestivano il padre e la madre loro? Chi si
chiamerebbe soddisfatto del cibo onde si contentavano cinquant'anni fa molti contadini? Quali
comodità, quali soddisfazioni non godono oggi, del tutto sconosciute un mezzo secolo fa, o che non
erano allora che retaggio di pochi?
Non si dica dunque che il capitale non serve che ai ricchi, si cessi d'abusare del gran nome di san
Tommaso d'Aquino, per chiedere la sua testimonianza e giustificare anticipatamente non so qual
comunismo.
È un falsificare il suo pensiero ed anche il suo testo, dicendo, come dicono molti democratici
cristiani: "È una verità quasi assolutamente sconosciuta ai nostri giorni, che, in quanto all'uso, le
cose esteriori sieno comuni e non private, in modo da doverne far parte agli altri nelle loro
necessità".(2)
San Tommaso non dice (IIa-IIae, q. LXVI, a. 2) che, sotto il rapporto dell'uso, le cose esteriori sieno
comuni e non private, il che è la negazione assoluta del diritto di proprietà che egli stabilisce; ma
dice che il diritto di usare del bene proprio non è sì assoluto che non debba cedere davanti alla
necessità in cui il proprietario vede trovarsi il suo fratello. È questa la conseguenza del sovrano
dominio di Dio sopra tutte le cose e della parte che spetta ad ognuno in quanto è il prodotto
dell'attività del genere umano.
Non solamente il capitale nel suo assieme, è profittevole a tutti nel senso che tutti in certa misura ne
godono, ma è la condizione necessaria della attività di tutti.
"Ogni capitale è uno stromento di produzione" (J. B. Say). La ricchezza acquisita dalla società per
mezzo de' suoi lavori anteriori è la leva che serve ad aumentare l'energia, la potenza, la fecondità
del lavoro di ognun di noi.
Jaurès, il grande oratore del partito socialista, scrisse un giorno in un momento di buon senso e di
sincerità: "La legge capitalista è nell'ordine sociale l'equivalente della legge di gravità". Non si
poteva dir meglio per mettere in evidenza l'azione del capitale nelle società civili.
Senza la gravità, niente sarebbe possibile nell'universo; tutto riposa sopra il suo intervento, tutto
cammina per sua intromissione. I nostri atti più piccoli, non si compiono che in grazia sua, e se
venisse soppressa, tutto in noi e fuori di noi si arresterebbe. Lo stesso disastro se il socialismo
giungesse a sopprimere il capitale contro il quale egli grida tanto: noi saremmo ridotti nella
condizione dei popoli selvaggi, se non nella condizione di Adamo all'uscire dal paradiso terrestre.
Ma non è il capitale che il socialismo vuol sopprimere; è la proprietà. Esso vuole che il capitale
sussista, ma che sia non più diviso in modo che ciascuna delle sue parti possa e debba dire: "Io
appartengo a questo, ed io a quello", ma che divenga collettivo, appartenente a tutti, non essendo la
proprietà di nessuno.
I democratici che pensano di arrestarsi a mezzo cammino sulla stessa via, riconoscono la legittimità
della proprietà, ma fanno riposare questa legittimità sopra una giusta ripartizione del capitale: non è
necessario che questo abbia tutto e quell'altro niente; altro errore così distruttivo del capitale come il
primo.

Note:

(1) Il cavallo vapore è considerato come eguale a tre cavalli da tiro ed alla fatica di venti uomini.
(2) Ab. Naudet, Notre oeuvre sociale, p. 36.