domenica 6 ottobre 2013

Milosz Czeslaw e Il Ketman — Parte I


—Pubblichiamo, a puntate, un capitolo del libro «The Captive Mind» di Milosz Czeslaw sul ketman, tecnica di dissimulazione molto attuale.—

Ketman
 
 
Ufficialmente, i cervelli dei cittadini delle democrazie po­polari sono immuni da ogni contraddizione. Nessuno osa rivelare i propri dubbi. Cionnonostante, nella vita reale tutti deb­bono risolvere il problema di nasconderli, e gli intellettuali più degli altri sono consci delle difficoltà di una simile situa­zione. La loro soluzione consiste nel diventare attori. Recita­zione è il solo nome che si possa dare al tipo di rapporto pre­valente fra individuo e individuo nei paesi dell’Europa orien­tale: l’unica differenza con i veri attori è costituita dal fatto che non si recita sul palcoscenico, ma nelle vie, negli opifici, nelle sale d’assemblea, negli uffici e persino negli appartamenti privati. Codesta recitazione è una forma d’arte altamente raf­finata, che assicura un premio per la prontezza di spirito. Pri­ma di uscire dalle labbra, ogni parola deve essere soppesata sino alle sue estreme conseguenze: un sorriso che baleni in momento inopportuno, un’occhiata che non abbia il debito si­gnificato possono divenire causa di pericolosi sospetti e di accuse. Persino i gesti, il tono di voce, la preferenza per certi modelli di cravatte vengono interpretati come indizi delle tendenze politiche dell’individuo.
Al suo arrivo in Occidente, il visitatore che viene dall’Im­pero, rimane stupefatto. Nei suoi contatti con il prossimo, a cominciare dai portieri e dagli autisti di tassi — non incontra nessuna ostilità. La gente che incontra ha l’aria riposata. Dal suo volto non traspare quella concentrazione interiore, che si tradisce nell’atteggiamento della testa china o nel moto in­quieto degli occhi. Tutti pronunciano qualsiasi parola venga loro alle labbra e tutti ridono forte. Possibile che i rapporti umani arrivino a una cosí assoluta spontaneità?
Recitare nella vita corrente non è la stessa cosa come reci­tare in teatro, in quanto tutti recitano, l’un l’altro, e tutti se ne rendono perfettamente conto. Il fatto che una persona reciti, non va a suo discredito, né pregiudica la sua perfetta ortodossia. Ma bisogna recitare bene, poiché la capacità di rappresen­tare abilmente la propria parte prova che la caratterizzazione del personaggio ha basi adeguate. Pronunciando un appas­sionato discorso contro l’Occidente, egli dimostrerà di nutrire almeno il dieci per cento dell’odio che con tanta veemenza proclama. Ma, se condannasse tepidamente la cultura occiden­tale, darebbe sicuro indizio del suo segreto attaccamento ad essa. La condotta degli uomini è sempre un poco alterata dalla recitazione. L’uomo reagisce all’ambiente che lo circonda e ne subisce l’influenza persino nei gesti. Ma quella che trovia­mo nelle democrazie popolari, anziché una automatica imita­zione, è una cosciente recitazione di massa. Dopo un suffi­ciente alteramento, la recitazione cosciente sviluppa le carat­teristiche che gli attori usano maggiormente nei propri ruoli; proprio come l’atleta, divenuto corridore perché ha garretti solidi, li svilupperà ancor più durante l’allenamento. Dopo una lunga assuefazione alla parte, l’uomo vi si adatta cosi bene da non poter distinguere il vero sé stesso dall’altro, di modo che anche fra amici intimi si finisce con il parlare usando slogans di Partito. L’identificazione con il personaggio che si è obbligati a interpretare conforta e permette di allentare l’autovigilanza. I riflessi giusti al momento giusto divengono frutto di un perfetto automatismo.
Il fenomeno si verifica anche nel campo letterario. Il poeta che riesce a scrivere un’ode di propaganda non si limita ad un accostamento realistico: essendo convinto che la poesia dovrebbe essere adatta alla recitazione in coro durante le as­semblee, prima di abbandonarsi all’afflato lirico cerca di raggiungere l’apice dell’emozione collettiva. L’attore, per esem­pio, che recita la parte del Cid, diviene Cid sul palcoscenico. Ma non tutti gli attori, anche se giovani e prestanti, possono identificarsi con il Cid: occorre l’innata facoltà di aderire emozionalmente a quella parte. La poesia, come noi la conosciamo, può essere cosi definita: il temperamento individuale, quale riflesso dalla convenzione sociale. La poesia della Nuova Fede, al contrario, può definirsi come la convenzione sociale, quale riflessa dal temperamento dell’individuo. Ecco perché i poeti più adatti alla nuova situazione sono quelli dotati di ingegno drammatico. Dopo aver creato il personaggio di un rivo­luzionario ideale, il poeta scrive i suoi versi in forma di mono­logo di tal personaggio. Egli non parla per sé stesso, ma per il cittadino ideale. L’opera che ne risulta somiglia alle canzoni scritte per essere cantate durante le marce, ed ha lo stesso scopo — forgiare i ceppi della collettività per tenere uni­ta una colonna di soldati in moto. Il miglior esempio di codeste canzone-slogans è fornito da certi versi del poeta tedesco Berthold Brecht, versi che sono superiori alle produzioni di altri poeti dei paesi comunistizzati, perché l’autore conosce alla perfezione il processo istrionico da seguirsi in simili casi.
Sebbene l’identificazione del dramma scenico con il pen­siero individuale sia spinta all’eccesso, rimane sempre un resi­duo di concetti non assimilati che costringono l’individuo a stare in guardia. La perpetua, universale mascherata crea una atmosfera difficile a sopportarsi, e tuttavia offre ai recitanti qualche soddisfazione degna di nota. Annunciare che un og­getto è nero mentre lo si ritiene bianco, sorridere internamen­te mentre si fa sfoggio di austera solennità, odiare mentre si finge l’amore, sapere mentre si simula l’ignoranza, e cosí far passare per cretino il proprio avversario (anche se questi da parte sua fa lo stesso gioco), costituisce una sequela di azioni, che ispirano a chi le compie un legittimo orgoglio per la pro­pria astuzia. Il successo nel gioco diventa una sorgente di soddisfazione. Nello stesso tempo i segreti che nascondiamo agli occhi indagatori assumono un valore speciale in quanto, non essendo mai formulati in chiare parole, posseggono l’irra­zionale fascino delle cose puramente emotive. L’uomo finisce con il rifugiarsi in un santuario interiore, che gli è tanto più prezioso quanto maggiore è il prezzo pagato per impedirne l’accesso agli estranei.
Nella storia della razza umana, è difficile trovare altri esempi di recitazione applicata su cosí vasta scala. Ma, volen­do descrivere questi nuovi costumi, si potrà scoprire una analogia davvero sorprendente con la civiltà islamica del Medio Oriente. Non soltanto vi si conosceva alla perfezione tale giuoco, praticato in difesa dei propri pensieri e sentimenti, ma lo si era addirittura trasformato in una istituzione permanen­te, gratificata del nome di Ketman.
Che cosa fosse il Ketman, ce lo dice Gobineau nel suo libro «Religioni e filosofie dell’Asia Centrale». Gobineau trascorse molti anni in Persia (come segretario alla Legazione Francese dal 1855 al 1858, e come ministro francese dal 1861 al 1863) e non si può misconoscere la sua acuta capacità di osservazione, anche se non è necessario aderire sempre alle conclusioni di uno scrittore cosí arrischiato. Per altro, i punti di contatto fra il Ketman e le usanze adottate nei paesi oltre cortina sono tanto sorprendenti che mi permetterò di citare diversi brani tolti dal volume in questione.
Le genti dell’Oriente musulmano credono che: «Chi è in possesso del vero non deve esporre la sua persona, i suoi parenti e la sua reputazione alla cecità, alla follia, alla perver­sità di coloro che Dio si è compiaciuto di porre e mantenere nell’errore». In conseguenza, bisogna mantenere segrete le proprie vere convinzioni quanto più è possibile.
«Ciononostante», prosegue il Gobineau, «vi sono cir­costanze in cui il silenzio non è sufficiente, in quanto potrebbe venir interpretato come una confessione. In tal caso non si deve esitare: non soltanto bisogna negare risolutamen­te le proprie opinioni, ma è anche necessario usare ogni astu­zia per trarre in inganno l’avversario. È indispensabile formu­lare tutte le dichiarazioni di fede che potranno convincerlo, ostentare tutte le manifestazioni di fede che potranno com­piacerlo, compiere tutti i riti di cui pur si conosca l’assoluta inutilità, falsare il contenuto dei propri libri, impiegare, in­somma, ogni possibile sistema di simulazione. In tal modo, otterremo il risultato ed il merito di aver posto al riparo dal pericolo noi stessi e i nostri congiunti, di non aver esposto una venerabile fede all’orrido contatto dell’infedele e, final­mente, di aver ingannato quest’ultimo, riconfermandolo nel suo errore e imponendogli quella vergognosa miseria spiri­tuale che gli compete.
«II Ketman colma di orgoglio chi sa mettere in pratica i suoi principii. Grazie ad essi, il credente si eleva a un livello di costante superiorità sull’uomo da lui ingannato; sia pure egli un Ministro di Stato o un possente sovrano. Per colui che pratica il Ketman, l’avversario è un miserevole cieco, escluso da quel sentiero della verità la cui esistenza gli è ignota. Mentre tu, lacero e morente di fame, tremi fisicamente, prosternato ai piedi della forza adulata, eccoti camminare nella luce, con gli occhi risplendenti di fronte ai tuoi nemici. Ti diverti alle spalle di un essere inintelligente: strappi le armi a una bestia pericolosa. Che squisito piacere!».
Sino a qual punto si possa spingere l’applicazione del Ketman è dimostrato da Hadzhi-Sheikh-Ahmed, il fondatore della nota setta religiosa. «Sebbene egli abbia lasciato molti saggi di teologia, non ha esposto mai apertamente nei suoi libri, come ammettono anche i suoi più entusiasti discepoli, un qualsiasi concetto che potesse indirizzare il lettore sul sen­tiero delle idee a lui oggi attribuite. Ma tutti affermano che praticava il Ketman e che in privato era molto ardito e pre­ciso nel dare ordine alle dottrine oggi raccolte sotto il suo nome». Non v’è quindi da stupirsi se, come un persiano ammise un giorno, durante un colloquio con ìl Gobineau, «in tutta la Persia non esiste un sincero musulmano».
Ma non tutti erano prudenti come Hadzhi-Sheikh-Ah­med. Certuni praticavano il Ketman in un periodo preparato­rio, ma, appena si sentivano abbastanza forti, proclamavano pubblicamente la loro eresia. Ecco, ad esempio, la descrizione delle prediche itineranti di Sadra, il discepolo di Avicenna.
«Anch’egli aveva paura dei mullahs. Provocare i loro sospetti era purtroppo inevitabile; ma prestare il fianco e fornire solide basi alle loro accuse avrebbe significato esporsi a persecuzioni senza fine, mettendo a repentaglio nello stesso tempo il futuro della desiderata restaurazione filosofica. In conseguenza, egli si uniformò alle esigenze del suo tempo, ricorrendo al grande, magnifico espediente del Ketman. Ap­pena arrivato in una città, si faceva premura di presentarsi a tutti i dottori della regione. Seduto in un angolo delle loro sale, ascoltava in silenzio e parlava pochissimo, con grande modestia, approvando ogni parola che uscisse dalle loro vene­rande labbra. Quando lo interrogavano in merito alle sue co­noscenze, esprimeva soltanto idee prese in prestito dalla più ortodossa teologia sciita e non lasciava mai trapelare alcun indizio dell’interessamento che nutriva per la filosofia. Dopo alcuni giorni, vedendolo cosi sottomesso e umile, i dottori stessi lo incaricavano di fare lezione in pubblico. Egli si poneva subito al lavoro, sceglieva come tesi la dottrina sulle abluzioni, o qualche argomento consimile, e discuteva con straordinaria sottigliezza le prescrizioni e gli intimi dubbi dei più eruditi teorici. Questo contegno riusciva gradito ai mullahs, che lo innalzavano alle stelle e dimenticavano di sorve­gliarlo. Era anche loro desiderio esser guidati sulla via di problemi meno pacifici. Egli non ricusò. Dalla dottrina sulle abluzioni, passò a quella della preghiera; dalla preghiera alla rivelazione; dalla rivelazione alla divina unità. E, a questo punto, con prodigi di ingegnosità, di reticenti confidenze af­fidate ai discepoli più pronti, di autocontraddizioni, di do­mande ambigue, di sillogismi fallaci che soltanto gli iniziati potevano comprendere, abbellendo tutti i suoi astuti procedimenti con impeccabili professioni di fede, riuscì a diffondere l’avicennismo in tutta la classe colta. Solo in ultimo, quando ritenne di poter rivelare appieno il proprio pensiero, gettò da una parte ogni schermo, ripudiò l’Islam e si palesò per quel logico e metafisico che era in realtà».
Il Ketman islamico e il Ketman europeo del ventesimo secolo sembrano differire solo in quanto l’audacia, dimostrata allora da Sadra, lo condurrebbe subito a una infelice morte in Europa. Nondimeno, nelle democrazie popolari, il Ketman viene praticato su vasta scala, sin nelle sue più sottili e rigide applicazioni. Come nell’Islam, la sensazione di essere supe­riori a chi è indegno di raggiungere il vero costituisce una delle maggiori soddisfazioni concesse a persone la cui vita solitamente non abbonda di gioie. Quelle «deviazioni» che causano tanti fastidi ai governanti affannati a scoprirle, non sono illusioni. Talvolta si verifica il caso che il Ketman venga accidentalmente smascherato, e coloro che più si adoperano a identificare gli esempi di deviazionismo, sono sempre abilis­simi seguaci del metodo Ketman. Trovandosi in grado di ri­conoscere gli stessi trucchi da loro usati, quando sono altri acrobati a ricorrervi, non si lasciano mai sfuggire l’occasione di abbattere un avversario o un amico. In tal modo proteggono sé stessi: il massimo dell’abilità consiste nel prevenire almeno di un giorno la consimile accusa che potrebbe venire scagliata contro di essi dalla loro vittima.


A cura della redazione (http://radiospada.org/).