domenica 6 ottobre 2013

Il fine ultimo — Parte I


—Pubblichiamo alcuni estratti dalla raccolta «Temi di Apologetica» di don Ennio Innocenti (Biblioteca Edizioni Roma, 2004).—

Il fine ultimo: la beatitudine
 
Solitudine e beatitudine. La solitudine ci apre gli occhi sulle ampie dimensioni dello spazio materiale intorno a noi e queste ci suggeriscono l’idea di uno spazio illimitato, ossia dell’infinito. Ma, stranamente, l’idea dell’infinito non produce in tutti lo stesso effetto: in alcuni suscita un sentimento d’angoscia, in altri di gioia. Perché l’idea di uno spazio che supera ogni confine delimitante è solo un simbolo dell’infinito, del vero infinito. Lo spazio immaginato illimitato è un falso infinito perché la materia, come la quantità, è sempre determinata e in concreto è traducibile in un numero. Noi, forse, non sappiamo definirlo quel numero e lo indichiamo con un segno d’indefinito, ma in sé esso è una misura finita. Basterebbe pensare questo perché tutte le dimensioni dello spazio risultino come dominate dal nostro giudizio.
Quando, però, cadiamo nell’errore di pensare lo spazio come se esso fosse veramente infinito, è inevitabile avvertire un sentimento di angoscia, perché allora noi risultiamo non solo accolti, ma anche dominati dallo spazio, o dalla materia supposta infinita, e in questo confronto noi siamo frustrati e quasi annientati. Se consideriamo infinita la materia, noi siamo un granello in un vortice, siamo una componente del grande assurdo. Questa è la ragione profonda per cui molti non amano la solitudine e i grandi spazi deserti, come quelli del mare o delle montagne.
Tutto il contrario succede quando la vastità dello spazio è intesa come simbolo del vero infinito, ossia di Dio. Allora la solitudine diventa una beatitudine. O solitudine, sola beatitudine! Perché tale apprezzamento della solitudine? Perché essa apre la porta al dialogo più esaltante: il dialogo con Dio. Se il contatto con gli altri uomini ci rende felici perché ci permette il dialogo tra grandezze proporzionate ed immense, non è logico aspettarci la felicità da ciò che, eliminando le cause di distrazione, facilita la nostra concentrazione sull’essenziale, ossia su Dio?
L’uomo contento. Siamo contenti? Talvolta ci pare di sì, ma basta che una nube attraversi il nostro cielo e subito la nostra contentezza si scolora. Essa è molto fragile, superficiale, caduca perché è troppo legata ai sensi e ai piaceri dei sensi. E la nostra società è forse contenta? Questo è ancora meno sicuro. Della società si può dir tutto, perfino che è una società progredita, ma non che sia una società contenta. Diciamo pure che è una società godereccia, questo sì, ma, nonostante questo, o, forse, proprio per questo, essa non è contenta. Moltiplica i piaceri, ma non fa crescere la letizia; intensifica le sensazioni, ma non approfondisce la gioia; aumenta gli stimoli, ma appiattisce le reazioni; apprezza moltissimo ciò che è materiale, ma deprezza assai ciò che è spirituale. E così non è contenta.
E la cultura? Forse la cultura che ci viene insegnata produce frutti di contentezza? Meno che mai: i maestri e le guide culturali più celebrati son gente piuttosto triste, che insegnano cose per niente tranquillizzanti, pacificanti e allegre. Dicono, per esempio, che il padrone del mondo è il caso; o che tutto l’universo non ha significato; oppure che la storia umana è un groviglio di irredimibili assurdità; oppure che noi siamo irrimediabilmente schiavi della cecità del sesso e dell’inconscio; oppure che tutta la vita è guerra e odio e sopraffazione, oppure illusione, sogno e utopia ingannatrice… Eppure, esser contenti non sarebbe, molte volte, troppo difficile. Intanto ammettiamo che ci sono cose preziosissime alla portata di tutti. […]
Poi ammettiamo che ci sono dei motivi sostanziali per essere contenti, in nostro assoluto dominio: per esempio, agire solo e sempre per il bene, senza aspettarsi alcuna ricompensa all’infuori della buona coscienza. Questa è una rocca inespugnabile di contentezza. Possono capitare dispiaceri di ogni genere, ma se uno ha agito disinteressatamente per il bene, gli rimane sempre un buon margine di contentezza. Infine ammettiamo che per esser contenti – e pienamente contenti – basta ancora meno: basta la fede. La fede: che cosa dobbiamo credere? Prima di tutto che la nostra vera vita è immortale e oltre il tempo; poi che Dio esiste e, nonostante qualche apparenza in contrario, mi ama; infine che tutto quello che soffriamo è prezioso agli occhi di Dio. Basta credere veramente, seriamente a queste tre semplici verità per esser contenti.
Due scogli. Il cristiano deve evitare due scogli: la cattiva tristezza e la cattiva felicità. Parlo di quelle cattive perché ce ne sono anche di buone. Qual è la tristezza cattiva? E’ quella che scaturisce dall’ingratitudine e cioè da quella stolta cecità per cui non si riconosce il bene ricevuto, dalla insipiente sopravvalutazione di cose che hanno un valore molto modesto, dalla sciocca presunzione di se stessi, da false o distorte idee sui misteri della religione. Per esempio: un tale, in seguito ai peccati da lui commessi, è triste: perché? Perché s’intristisce sempre più? Vai a scavare e trovi che quel peccatore non vuole affidarsi alla misericordia di Dio! La sua è una cattiva tristezza. Cattiva sopratutto perché gli impedisce un vero pentimento, gli prepara una maliziosa giustificazione per il peccato, gli costruisce una trappola di malafede. La sua è veramente una tristezza cattiva, improduttiva e fallace.
E qual è la cattiva felicità? E’ quella che scaturisce dall’egoismo, dal dominio sensuale e violento, dalla maliziosa soddisfazione dell’inganno architettato e realizzato, dal compiaciuto appagamento delle voglie corporali, dall’orgoglio socialmente vezzeggiato e adulato, o anche da certe curiose distorsioni religiose per le quali la persona diventa adoratrice di se stessa, o forse di una certa immagine di se stessa, invece che di Dio. Per esempio: un tale pare molto osservante delle pratiche religiose e va e viene dalla Chiesa tutto soddisfatto. Ma poi scavi un po’ dentro questo superficiale godimento e trovi che tutta la religiosità di quel tale consiste nel confermarsi nella persuasione di essere migliore degli altri! Cattiva felicità è la sua, perché gli impedisce d’invocare Colui che è il medico e il redentore, gli chiude l’accesso alle virtù cristiane, rende sterili gli stessi atti di culto più efficaci.
Bisogna evitare lo scoglio della cattiva tristezza? Certo. Dice la Scrittura: Non siate tristi: il gaudio del Signore è la vostra forza. Bisogna evitare lo scoglio della cattiva felicità. Certo. Dice San Paolo: il regno di Dio non è mangiare e bere, ma è la giustizia e la pace e il gaudio nello Spirito Santo. E Gesù stesso dice: Non sono venuto affatto per quelli che sono soddisfatti di se stessi, ma per coloro che sanno di versare nel bisogno più grave di tutti, il bisogno di Dio. Non della cattiva tristezza il cristiano si alimenta, ma di quella buona, propria di chi sente una grande nostalgia della Verità, della Bontà, di Dio. Non della cattiva felicità il cristiano si alimenta, ma di quella buona propria di chi sa di essere amato infinitamente da Dio, di chi sa di stare sempre con Dio, di chi sa di poter rispondere a Dio: Tu sai, Signore, che io ti amo. È a costoro che Gesù proclama le beatitudini, è a costoro che Gesù garantisce: Nessuno potrà togliervi la vostra gioia. È per costoro il giubilo delle campane e la promessa del Vangelo.
Piacere e dolore. Il benessere, quando diventa una bandiera, è in cattivo sospetto. E non solo perché si presenta con un volto materialista, egoista e caduco; non solo perché s’indovina che esso può celare una frode per la maggioranza ed una temibile espropriazione di ciò che di più e di meglio ognuno di noi possiede; non solo perché esso non vale quanto l’amore (che ignora) e neppure quanto la felicità (che surroga), ma sopra tutto perché, identificandosi esso col piacere, ha la pretesa di sconfiggere ed espellere il dolore. Ci s’intenda bene. Non siamo nemici del piacere, anche se non gli diamo sempre credito. Sappiamo bene che il piacere è necessario al corpo e allo spirito, allo sviluppo della moralità e a quello della preghiera non meno che a quello della vita organica ed estetica. Ci ricordiamo bene il monito dei nostri maestri: un animo lieto è gradito al Signore. Ciò che ci sembra ingiusto è il disprezzo del dolore.
Il dolore non è solo la più preziosa sentinella del nostro corpo; è anche il più efficace corroborante della nostra anima. Chi è incapace di soffrire è assolutamente sottosviluppato, immaturo ed ottuso; di più: chi non è capace di dominare la sofferenza, può esser certo di non esser veramente libero; al contrario: chi è capace di soffrire è anche capace di guardare in alto e lontano, di trascendere la situazione, e perfino il mondo intero. Il dolore deriva da una privazione che ci tocca subire; ora il nostro spirito ha esigenze troppo più grandi del benessere: finché ne resta insoddisfatto esso geme in una dolorosa povertà; ma proprio tale disagio dimostra anche la nostra ricchezza spirituale, dimostra che siamo figli di re. Il piacere può aiutarci, ma non ci fa grandi; mentre il dolore, se sappiamo accettarlo o affrontarlo, ci fa simili a Cristo che ci ammonì: Quando sarò innalzato in croce, allora trarrò tutto a me.
Felici come Lui. Giovedì di Passione: lo sguardo si alza al Crocifisso, il pensiero si eleva all’ottava beatitudine: Beati i perseguitati. Dunque: dovremmo esser felici nell’affrontare la persecuzione? Sotto certi aspetti, effettivamente, sì. Prima di tutto perché soffrire è necessario per chi vuole davvero Dio al primo posto. Infatti questa volontà pura dev’essere provata e non c’è prova migliore di affermarla intera mentre ogni vantaggio terreno crolla. Ora non c’è crollo più amaro di quello della stima e della considerazione sociale. Sotto questo profilo la persecuzione è l’ambiente più adatto per affermare la fede in Dio e perciò è comprensibile che il perseguitato per la fede possa esserne felice, possa perfino desiderarla.
E difatti noi notiamo in Gesù e in non pochi martiri una specie di impazienza di affrontare la prova più dolorosa, adeguato suggello della loro audace predicazione. Non c’è dubbio: Gesù sfidò la persecuzione. Lo stesso si deve dire di vari altri martiri. Quando il vescovo Cipriano di Cartagine si accorse che il proconsole cercava una via d’uscita per non condannarlo, lo apostrofò così: “Avanti, obbedisci agli ordini ricevuti. Non    tergiversare”. Non era arroganza, la sua; era slancio nell’affrontare la prova che doveva assicurare lui e gli altri della sua fede. Molti nostri fratelli di fede sono ancor oggi perseguitati fino al sangue. […]
La nostra persecuzione è – spesso – l’indifferenza del prossimo, la sua invidia, spesso la sua rapacità. La persecuzione, talvolta, si veste di onorabili panni di professionalità, ma il suo fine è chiaro: emarginare l’onesto. Si fanno avanti, i persecutori, travestiti da agnelli, ma dentro sono lupi rapaci, insaziabili. Talvolta la nostra persecuzione è quella più amara di tutte perché viene dai propri familiari o addirittura dai propri correligionari, dai fratelli nella fede, dai membri della stessa Chiesa. Succede, infatti, che per gelosia, meschinità, bassezza, arrivismo, settarismo, interessi di cosca e mafia ecclesiastica, si attacchino, si condannino o volontariamente si ignorino con vergognoso ostracismo proprio coloro che meriterebbero appoggio e difesa: gli onesti.
Sì, succede anche nella Chiesa, in questa rete dove ci sono pesci buoni e cattivi, in questa sposa che talvolta rischia di diventare una meretrice. La persecuzione è, dunque, varia; né si deve scegliere; quella che verrà – qualcuna, infatti, di sicuro verrà – bisogna affrontarla intrepidi, senza presumere di essere  migliori del nostro Maestro: se lui è stato oggetto di odio, è normale che i suoi veri discepoli non sfuggano ad analoga sorte. Ma proprio in questa comunanza di destino i veri cristiani sono felici.

A cura di Marco Massignan (http://radiospada.org/)