domenica 13 ottobre 2013

Milosz Czeslaw e il Ketman — Parte II

Pubblichiamo a puntate un capitolo del libro «The Captive Mind» di Milosz Czeslaw sul ketman, tecnica di dissimulazione molto attuale.

Ketman
 
Poiché la serie di applicazioni del Ketman è praticamente illimitata, non si fa a tempo a coniare vocaboli in numero sufficiente per battezzare le gra­migne che nascono senza posa in un giardino cosí ricco di inattese specie di eresie. Ogni nuovo commento ai precetti della Nuova Fede proclamata dal Centro, moltiplica le segrete riserve di coloro che pubblicamente sembrano i più devoti. È impossibile enumerare tutte le forme di Ketman che si pos­sono scoprire in una democrazia popolare. Ma io cercherò di compiere un tentativo in questo senso, attenendomi in parte al sistema del naturalista che classifica in gruppi e famiglie.
Il Ketman nazionalista è molto diffuso fra le masse e nei vari paesi comunistizzati: non ne vanno esenti neppure i più alti sostenitori del Partito. Da quando Tito, come Sadra, ha proclamato la propria eresia di fronte a tutto il mondo, milioni di esseri umani abitanti oltre la Cortina di Ferro debbono far ricorso a ingegnosissimi sistemi per nascondere il proprio vero volto. Un istruttivo sfoggio delle condanne, inflitte a coloro che nelle capitali dei vari Stati satelliti di Mosca avreb­bero voluto seguire la via nazionalistica per giungere al socia­lismo, ha insegnato al pubblico quali siano le frasi e le azioni atte a provocare rimproveri e rappresaglie contro chi alberghi una sì fatale tendenza. La migliore salvaguardia è quella di manifestare ad alta voce la propria reverenza per i successi ottenuti dalla Russia in ogni campo, di girare con libri russi sotto il braccio, di canticchiare canzoni russe, di applaudire entusiasticamente attori e musicisti russi. Lo scrittore, che senza mai consacrare una riga ai più significativi personaggi politici russi o alla vita russa si limitasse a trattare temi nazionali, non potrebbe sentirsi al sicuro. La precipua caratteristica della gente che pratica il Ketman è un illimitato disprezzo per la Russia, da essi considerata alla stregua di una nazione barbara. Nei contadini e negli operai tale disprezzo ha spesso cause puramente emotive: si basa sull’osservazione del contegno tenuto dai soldati dell’esercito liberatore oppure (poiché, durante la guerra, molti vennero a trovarsi in regioni amministrate direttamente dai Russi) della condotta tenuta dai Russi nella vita quotidiana.
Sino ad ora, il livello di vita delle masse russe si è con­servato molto al di sotto di quello delle cosiddette democrazie popolari, e questo contribuisce a far si che il Ketman nazionalistico trovi abbondante nutrimento. Dargli il nome di nazionalismo sarebbe errato. Durante lunghi secoli, fra gli Slavi dell’Europa centrale e i Tedeschi l’odio è regnato sovrano; ma quel sentimento era temperato dal rispetto istintivo degli Slavi per il progresso materiale della Germania. Se invece dovesse esprimere il suo atteggiamento morale nei confronti della Russia, il cittadino dell’Europa centrale scrollerebbe sdegnosamente le spalle, conscio com’è della propria supe­riorità in numerosi campi, da quello organizzativo (bastano a provarlo la sua abilità nel trasporto e nell’impiego del mac­chinario di precisione) a quello delle abitudini di vita — il che, beninteso, non gli impedisce di tremare davanti alle innu­meri orde che traboccano dal continente euro-asiatico.
Ma il fascino di codesto Ketman non è solamente emo­tivo. In seno alla giovane intelligentsia di origine proletaria, l’opinione dominante potrebbe venir riassunta nelle parole: «Sí, al Socialismo — No, alla Russia», ed è questo il punto da cui sorgono i cavilli delle divergenze dottrinali. Secondo codesto ragionamento, le nazioni europee sono preparate a mettere in atto il socialismo molto più di quanto non sia mai stata la Russia. Le loro popolazioni sono più intelligenti, i loro terreni sono in massima parte coltivati, i loro sistemi di comunicazione e le loro industrie hanno raggiunto un mag­giore sviluppo. Nondimeno, «la via nazionale verso il socia­lismo», è stata stigmatizzata e si sono compiuti molteplici sforzi per dimostrare che chiunque ardisca opporsi a una pe­dissequa imitazione della Russia, o ad una totale resa alla dittatura russa, è un traditore, sul quale deve abbattersi la stessa sorte di Tito — in altre parole, sarà obbligato a schie­rarsi contro il Centro, indebolendo così il proprio potenziale bellico, che è la più necessaria premessa per una rivoluzione su scala mondiale. Controbattere questa tesi significherebbe rinnegare la Nuova Fede e introdurre in suo luogo una fede diversa, per esempio, una fede direttamente allacciata a Mane e Engels. Molti agiscono in questo modo. Altri, vedendo nell’alleanza fra Tito e gli Occidentali solo un esempio di fatalità storica e respingendo l’ipotesi che tale fatalità possa essere dovuta semplicemente alla condotta del Centro verso le na­zioni satelliti, si rinserrano in un Ketman che non ostacola gli atti esteriori del Potere Centrale. Il musulmano, anche se attaccatissimo al suo Ketman, non tenterà mai di danneggiare l’Islam in quelle regioni dove esso deve lottare per resistere agli attacchi degli infedeli. Codesta forma di Ketman si estrin­seca soltanto in mosse pratiche che, pur non alterando in nessun modo la lotta mondiale, salvaguardano per quanto è possibile gli interessi della nazione.
Il Ketman della purezza rivoluzionaria rappresenta una varietà assai rara, più comune nelle grandi città russe che non nelle democrazie popolari. Si basa sulla fede nel sacro fuoco dell’epoca rivoluzionaria di Lenin, che arde in artisti e poeti del tipo di Mayakowski. Nel 1930, il suicidio di questo poeta segnò la fine di un periodo contraddistinto dal fiorire della let­teratura, del teatro e della musica. Il «fuoco sacro» fu smor­zato, la collettivizzazione introdotta con decisione spietata e, mentre milioni di cittadini sovietici perivano nei campi di lavoro obbligatorio, si diede inizio ad una accanita politica d’ostilità verso le nazioni straniere. Sotto l’influenza delle teorie imposte, la letteratura russa divenne scialba e piatta; la pittura russa venne distrutta; il teatro russo — allora il più progredito del mondo — perse ogni libertà di esperimento, la scienza fu assoggettata alle direttive dei capi del Partito. L’uo­mo che veda le cose in questa luce dovrà rivolgere contro di Lui[1] tutto il suo odio, dovrà far risalire a Lui la responsa­bilità del terribile destino che opprime il popolo russo e dell’avversione che le genti russe ispirano alle altre nazioni.
Non è però del tutto sicuro se Egli sia o meno necessario. Forse in epoche eccezionali come la presente, la comparsa di un tiranno diviene auspicabile. Chi altri potrebbe adottare misure così drastiche come le epurazioni in massa che costarono la vita a tanti buoni comunisti, l’immiserimento del te­nore di vita di tutti i cittadini, l’avvilimento degli artisti e degli studiosi costretti ad un perenne assenso, l’esterminio di interi gruppi nazionali? Dopo tutto, la Russia seppe reggere con fermezza all’assalto di Hitler; la Rivoluzione infranse la tempestosa avanzata degli eserciti nemici. Considerati da que­sto punto di vista, i gesti del tiranno possono sembrare effi­caci e, persino, trovare una giustificazione nell’eccezionale situazione storica. Se nel 1937 Egli non avesse inaugurato un regime di terrore, forse qualche anno dopo il numero delle persone disposte ad aiutare i Tedeschi sarebbe stato più elevato. E non si può negare che la linea di condotta adottata al presente nell’arte e nella scienza, per quanto irragionevole possa apparire sotto certi rispetti, sollevi il morale russo di fronte all’incombente minaccia di una guerra. Quell’Uomo può sembrare un vergognoso, oltraggio alla luminosità della Nuova Fede, ma per ora non possiamo fare a meno di tolle­rarlo, anzi di dargli il nostro appoggio. Il «fuoco sacro» non si è spento; dopo la vittoria, divamperà di nuovo con l’antica forza, i vincoli da Lui imposti cadranno, fra le diverse na­zioni risorgeranno rapporti ispirati a nuovi e più intelligenti concetti. Tale varietà di Ketman era molto diffusa, se pure non regnava universale in Russia, durante la Seconda Guerra Mondiale, e la sua presente forma rappresenta la rinascita di una speranza già una volta delusa.
Il Ketman estetico sorge dalla disparità fra le aspirazioni dell’individuo e le soddisfazioni che la Nuova Fede gli offre. Nonostante applauda entusiasticamente i più recenti versi, scriva osannanti recensioni sulle moderne mostre d’arte, finga di avere una spiccata preferenza per i cupi edifici d’oggigiorno, un uomo di gusto non potrà mai approvare i risultati della pressione ufficiale nel campo culturale. Fra le pareti domestiche, egli cambierà radicalmente le sue opinioni. In casa sua (ammesso che appartenga al ceto degli intellettuali abbienti) si troveranno riproduzioni di opere d’arte ufficialmente condannate perché borghesi, dischi di musica moderna, e una ricca collezione di antichi autori in varie lingue. Il lusso di così splendido isolamento gli viene perdonato sin che il suo
lavoro creativo si mantenga entro i limiti di una effettiva propaganda. Per tutelare la propria posizione e il proprio appar­tamento (che gli sono stati concessi come favore personale dallo Stato), l’intellettuale è pronto a qualsiasi sacrificio e compromesso; poiché il valore della solitudine in una società che offre poche o punte possibilità di allontanarsi dalla folla, è maggiore di quanto possa far credere il vecchio detto «casa mia, casa mia…». Gli schermi televisivi trasmittenti e riceventi, da installarsi nelle case per controllare la condotta privata dei cittadini, appartengono ancora al futuro. In conseguenza, il nostro intellettuale può concedersi qualche minuto di riposo ascoltando le stazioni radio straniere, oppure leggendo qual­che libro; ma, beninteso, quando sia solo, giacché la comme­dia dovrà riprendere all’arrivo del primo visitatore.
Uno studio attento, in merito all’importanza per l’uomo delle esperienze che noi impropriamente chiamiamo estetiche, non è mai stato fatto. Solo un insignificante numero di indivi­dui associa tali esperienze alle opere d’arte. La maggioranza trova un piacere di natura estetica nel semplice fatto di esi­stere in seno alle correnti della vita. Nelle città, l’occhio ab­braccia variopinte vetrine, innumerevoli tipi umani, volti sui quali si può tentare di leggere tutta la storia di un passato. Il gioco della fantasia, in un uomo che attraversi la folla, ha sfumature quasi erotiche: le sue emozioni sono affini a sensa­zioni fisiologiche. Egli gode nell’osservare i vestiti, le persone, i giuochi di luce: chi, ad esempio, visiti i mercati di Parigi con i grandi cumuli di verdura e frutta, i pesci di ogni forma e tinta, i quarti di bue ricchi di tutte le gradazioni di rosso, le ceste di fiori variopinti, non avrà più bisogno di ricercare il colore nei quadri dei fiamminghi o degli impressionisti. Nelle vie si odono brani di melodie, ansimare di motori, cinguettio di uccelli, saluti, richiami, risate. Le narici sono assalite da mutevoli odori: caffè, benzina, arance, ozono, castagne arrosto, profumi.
Quelli che hanno cantato le grandi città hanno consacrato numerose pagine alla descrizione del tuffo gioioso nel serba­toio della vita umana. Il nuotatore che si affida alle onde, av­vertendo l’immensità dell’elemento da cui è circondato, prova un’emozione dello stesso genere. Alludo ai grandi cantori delle città, come Balzac, Baudelaire e Whitman. Sembra che il potere eccitante e rianimante di codesta partecipazione alla vita di massa, nasca da una sensazione di potenzialità, di costante imprevisto, di mistero, quale tutti andiamo eternamente inseguendo.
Persino la vita dei contadini per quanto avvilita dal duro lavoro materiale, concede un largo margine alla gioia estetica, espressa nel ritmo delle abitudini, nei riti delle chiese, nei quadri sacri, nei costumi popolari, nelle decorazioni di fiori di carta, nella scultura folcloristica, nella musica e nel ballo.


A cura della redazione (http://radiospada.org/).

[1] Stalin. Il libro fu scritto e pubblicato nel gennaio del 1953. (N.d.T.).