mercoledì 30 ottobre 2013

CLEMENTE SOLARO DELLA MARGARITA : UN UOMO POLITICO FEDELE ALLE "ANTICHE VERITÀ"




Clemente Solaro Della Margarita.
 Nato a Cuneo nel 1792, Clemente Solaro conte della Margarita si laureò in giurisprudenza a Torino nel 1812. Nello stesso anno, fondò una società che si proponeva lo studio e la diffusione della cultura italiana in funzione anti-francese.
Entrato nella diplomazia sabauda dopo la Restaurazione, nel 1816 fu nominato segretario di legazione e destinato a Napoli. Dal 1825 al 1834 fu incaricato di affari a Madrid. Nel 1835, Carlo Alberto lo chiamò a ricoprire la carica di "ministro e primo segretario di Stato per gli Affari Esteri". Sempre fedele alla Corona, in più di un'occasione manifestò la sua ostilità alla Francia ed alla "monarchia di luglio". Pur nel massimo rispetto dell'autorità legittimamente costituita, si fece sostenitore di una politica autonoma nei confronti dell'Austria, attirandosi così le antipatie del Cancelliere Metternich. Sollevato da ogni responsabilità di governo nel 1847, svolse un'intensa attività parlamentare dal 1854 al 1860. Morì a Torino nel 1869.
Una biografia di taglio apologetico è presente in: http://www.totustuus.biz/users/altrastoria/Solaro.htm
I brani che seguono, raccolti sotto il titolo "Un uomo politico fedele alle "antiche verità", sono tratti dalla seconda edizione (1852), del Memorandum storico-politico
(1851-2)..PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE

Non m'ingannai ponendo sotto l'usbergo della verità il mio Memorandum: l'accoglienza fattagli, i tanti inviti e il desiderio di questa ristampa ne sono la prova. Dunque nel paese nostro lo schietto linguaggio di chi non mentisce, non adula, non inganna è ancora gradito. La quotidiana maldicenza, la calunnia, gli improperii non hanno ancora corrotta quest'eletta parte d'Italia. Cinque anni d'invettive contro ogni più santa cosa, contro ogni più rispettabile persona, contro ogni principio di giustizia, non hanno soffocato il retto senso della gran maggioranza. Questo è vero conforto: il successo del libro in quanto appaga l'amor proprio, è troppo meschina soddisfazione: altri desiderii suggerisce l'affetto ai buoni principii e la carità di patria.
Il Memorandum fu pur censurato. Delle moderate osservazioni di quanti altrimenti sentono non m'adombro; chi professa diverse opinioni non può approvar le mie, ne la pretendo. Delle critiche appassionate, mendaci, assurde che da penne traviate o immonde uscirono, sono contento; non avrei creduto che il mio libro avesse alcun pregio se quel biasimo mi fosse mancato.
Fra le tante dicerie giunte al mio orecchio, talune meritano risposta. Si è mostrato sorpresa ch'io abbia in certa guisa, mentre diceva sprezzarla, invocato l'opinione pubblica, e qualche ira s'è palesata perché profittai della stampa. Si è gridato alla reazione quasi che gli avvenimenti di Parigi del 2 dicembre 1851 (si riferisce al colpo di Stato di Luigi Napoleone ed alla conseguente instaurazione della dittatura, N.d.C.) abbiano determinato questo libro.
L'opinione pubblica non invoco; mi basta il suffragio dei savj; esultino altri per le grida dissennate della moltitudine, e vi abbiano fede; quand'anco giustamente applauda, la verità non diviene più tersa, soltanto si riconosce che la sua luce ha rallegrate più menti; altro modo d'interpretar l'opinionE pubblica è questo, ne ha l'ombra di quello che prosieguo, scrivendo, a condannare.
Profittai della stampa con rammarico di chi forse, ne pretende il monopolio. E' bella davvero! L'usano largamente per distruggere, e trovano soverchio ardire in chi, credendo impedire le rovine, l'adopra. La parte loro piace di sagrificatori, a noi concedono quella di vittime; ma tali essere non vogliamo. L'arma ce l'hanno data essi in mano, quel gladio ancipite, che ben si appongono non porremmo mai nelle loro; e se tant'ira s'accende perché l'impugniamo, ci danno la miglior prova che alle loro non conviene concederlo mai. Però ne usiamo in altro modo, procurando di non deviare dalla giustizia mai, rispettando le leggi; ci piacciono o no, dal piacer nostro non misuriamo il dovere; altro sentimento l'ispira: è per noi sacrosanto.
Il Memorandum fu posto sotto i torchi nel 1851 e quand'anche mi vogliano supporre un ingegno che corra come il vapore, né tanta benignità a mio riguardo io credo, difficile è che mi giudichino capace di scriverlo in poche settimane, per grande sia stato l'impulso ricevuto dal genio di Luigi Napoleone. Meglio sarebbe considerare come questa pubblicazione concorra unisona collo spirito che si spiega in tutta Europa contrario ormai alle demagogiche sfrenatezze, ond'è già stanca la pazienza de' popoli.
A che cercar la reazione in queste pagine mentre essa fiorisce nell'opere di chi più la detesta e la teme?
Esservi può reazione in chi non eccita né spinge chi governa alla violazione dei diritti guarentiti dallo Statuto, alle spogliazioni di proprietà, alle inconsiderate riforme di benefiche instituzioni rispettate ed ammirate per tanti secoli dai nostri maggiori, ne inventa, ne consiglia improvvidi dispendii per cui si aggrava il popolo, e non si rimarginano le piaghe dell'erario?
E' forse reazione non aver amato que' sistemi di educazione per cui fin d'allora sarebbersi allarmati i padri e nato sarebbe il dubbio se nelle future generazioni sarà maggiore l'empietà o l'ignoranza?
Cercatela piuttosto e toglietene il seme, vi applaudiremo, nel ributtante disprezzo di ogni Autorità venerata, non escluso il Sommo Pastore; nel disprezzo di tutto l'onorando ceto ecclesiastico, nella maldicenza che svillaneggia la virtù ovunque sia, e porta la sua pestifera bava perfin nel santuario.
Serve la patria chi pacatamente descrive i fatti di una epoca, al dir d'ogni gente, per noi gloriosa, non adoperando ingiurie contro chi ne malmena i fasti, non attizzando gli odii, ma tentando preservar gli incauti dalle funeste aberrazioni di chi contamina il nome di libertà, ed è capital nemico di ogni forma di civil governo ( . . . multa legendo, atque audiendo ita comperi, omnia regna, civitates, nationes usque eo prosperum imperium habuisse dum apud eos vera consilia valuerunt, Sallustio, Oratio II, Ad Caesar, de Republ. ordinanda).
Tal modo di favellare dispiace a quanti giova non s'alzi il pomposo velo onde s'ammantano, e tanto più dispiace in quanto è compreso; sì, è compreso più assai ch'essi non credono: in questo popolo v'è ancor tale un affetto alla religione, alla morale, ai buoni principii, che non temiamo sì tosto lo perda.
Un paese che mostra gradire un libro che non ha altro merito che quello di presentare antiche verità, non è in decadimento. Però non ci illuda la lieta idea; conviene mantenere questo spirito, conviene confortarlo, non lasciar libero il campo alla perversa stampa. Generose menti esistono più capaci assai ch'io no! sia di compiere così nobile missione. Continuerò, già l'ho annunziato. Non mi lascino solo: prevarranno le buone massime; se le combattono i tristi, le protegge Iddio. Le acque del diluvio coprirono di feccioso limo la terra; appena irradiata dal sole tornò feconda.
Le teorie che dobbiamo seguire non sono d'invenzione umana, sono quelle che hanno mantenuto in fiore le nazioni, finché le seguirono: s'addicono alle Monarchie assolute, alle temperate da ordini rappresentativi, non men che alle repubbliche. Nessuna forma avversiamo, avversiamo soltanto ciò che è contrario alla giustizia, e in questa tutti si comprendono gli interessi dei popoli.
Adoperar dobbiamo ragioni, non turbar la pace mai, mostrare come essa fiorisce ovunque giustizia regna; combattiamo le opinioni contrarie, non le persone; possono queste essere perverse, ma sappiamo noi se non siano piuttosto illuse? Il diritto di giudicarle non è in noi; forse di alcuni la cattiva fede è palese, ma non cadremo mai negli stessi errori? Volgiamo su noi lo sguardo; chi ce ne accerta? Non gettiamo dunque mai l'ingiuria in faccia ai fratelli, pronti a stendere loro in ogni dì la mano; non importa che ci sdegnino, ci corrispondano con villanie; si abbia per le miserie dell'intelletto quella pietà che alle doglie non si nega della persona. La sentenza degli assennati non è dubbia; quella dei discoli ricadrà su loro e se ne avvederanno al fin della via.
[...]

CAPITOLO III

Conosciuta l'indole, il genio e le intenzioni del Re, formai il mio piano di condotta, per assecondarlo in quanto mirava alla sua gloria, al bene dello Stato, al trionfo della giustizia, e a temprar quelle tendenze che potevano esservi contrarie. Mi trovava senza alcuna fatica inclinato a seguire con tutto lo zelo le sue viste, affine di stabilire la perfetta nostra indipendenza dalle Corti straniere, qualunque fosse la loro preponderanza negli affari del mondo; nella misura però, che la nostra posizione e la nostra forza concedevano. Sarebbe follìa, che la Corte di Sardegna assumesse con le maggiori Potenze un linguaggio di iattanza, eccitamento a sdegno con grave nostro rischio; e colle eguali e minori sarebbe imprudenza: l'alterezza dei modi, anche senza immediato pericolo, disdice, disgusta, crea nemici; e gli Stati non devono meno dei privati, desiderare di non averne. Considerava però che non dall'estensione dei dominii si misurano i diritti; questi, nei rispettivi confini, sono eguali per tutti i Re, per tutte le Nazioni; l'autorità dei Sovrani, l'indipendenza degli Stati verso gli altri Stati è eguale nell'Imperator delle Russie, come nel minor Principe del mondo, sempre che questi non si avrà in condizione di tributario o di vassallo. Perciò il Re pienamente padrone nel suo regno, quanto nei loro imperii il Czar, o il Sovrano dell'Austria, e indipendente al par di loro, non aveva a dar conto ad alcuna Potenza della sua politica, né a subirne l'influenza, o assecondarne le vedute se non in quanto convenisse ai suoi proprii interessi. Questa giusta pretensione voleva io sostenere rispettando ad un tempo la stessa sovranità in tutti. Così tenendo, senza oltracotanza di modi, un'attitudine ferma negli stretti confini della giustizia, non vi era a temere mai, nei tempi ordinarii, per parte di alcun dei più forti, prepotenze; poiché tutte le Corti avrebbero approvato il nostro contegno e rispettata la nostra indipendenza, e avremmo sempre trovato in alcuna della medesime un'appoggio contro chi senza ragione volesse farci violenza, ed abusar del diritto del più forte. A suo luogo si vedrà, come siasi questo risultamento conseguito più d'una fiata, e come non siasi da tale sistema deviato mai, durante tutto il tempo del mio Ministero.
Se mi parea follia, o consiglio di male inteso orgoglio trattar coi Sovrani di gran lunga più possenti come se avessimo i mezzi di resistere, dopo averne cimentato lo sdegno, era giusta ambizione di un Ministro e dovuto affetto di patria, il cercare di elevare la nostra posizione a tutta quell'altezza di cui era lo Stato suscettibile, cosicché acquistasse quella considerazione cui aveva diritto di aspirare. Eccettuate le cinque grandi Potenze e la Spagna, a nessun'altra crederei dovesse andare la Sardegna seconda, e precederne molte per l'importanza politica, derivante dalla nostra situazione geografica, fra due poderosi Stati alle porte dell'Italia. Se la Casa di Savoia, quando era in più angusti confini ristretta, ebbe pur sempre parte e non umil parte nei grandi avvenimenti politici dell'Europa, dal dì che il trattato di Chàteau Cambrésis coronò gloriosamente le imprese del Duca Emmanuele Filiberto; tanto più era a mantenersi la sua importanza, dacché per la caduta di Napoleone risorse più forte, e più indipendente la Monarchia dalle sue rovine.
Tali idee le esprimeva al Re, perché mi stavano in cuore: gli piacquero; erano le sue. Ne aveva egli altre che non erano le mie; le combattei, non se ne adontò; e l'approvazione che dava alle prime, superando in Lui il fastidio di vedermi alle altre contrario, determinollo a confidarmi definitivamente il Portafoglio.
Sul fine del febbraio, io gli presentai un rapporto particolare, in cui spiegava qual era la mia politica, perché conoscesse se la via che intendeva seguire era conveniente al suo servizio. In quel rapporto non combatteva di fronte le idee del Re; ma gli indicava con quali temperamenti erano da moderarsi, onde non partorissero rovine ove si agognavano trionfi.
La storia della Casa di Savoia c'insegna, come essa andò crescendo i suoi domini con avvedutezza e prudenza, non impiegando arti o mezzi illeciti. Possedeva nel principio del secolo XI un bell'angolo di terra al di là dei monti, la sempre fedele e generosa Savoia: a poco a poco si estese al di qua dell'Alpi; spinse i suoi confini dal Po al Tanaro, alla Sesia, al Varo, al Ticino, ed oltre la Magra. Contratti di matrimonii, dedizioni spontanee, compensi per alleanze di guerra, trattati di pace furono i titoli, onde andò aumentando la Corona di ricche e floride Provincie. Desiderai sempre che si seguissero così nobili tracce accuratamente evitando di ferire i principii della giustizia, né inebbriandosi mai di fantastiche illusioni che terminerebbero in pianto.
Con trista compiacenza mi sovvengo di essere stato nel sovraccennato rapporto pur troppo profeta, ma almeno ho la coscienza paga di non aver fin dal 1835 taciuto, o adombrato il vero. Ne siano prova le seguenti parole:
"Il faut éviter de tomber dans les pièges des révolutionnaires, qui voudraient arborer la Croix de Savoie, mais la parer avec les couleurs du carbonarisme ..... C'est une opinion généralement partagée, que la Maison de Savoie n'aurait qu'à cèder a certaines prétentions de réforme, pour étendre avec facilité les limites de sa domination; mais suivre cette ligne, ce serait ne pas sortir de l'ornière des politiques modernes, qui ont substitué a la vraie science des affaires une routine de déceptions et de calculs présomptueux, qui manquent presque toujours leur but. Il y a une autre ligne plus noble et plus sùre; et c'est d'aller au méme resultat sans froisser les principes de la iustice en se mettant au dessus des idées banales qui maitrisent ce siècle, et périront avec lui" ("Bisogna evitare di cadere nelle trappole dei rivoluzionari, che vorrebbero inalberare la croce dei Savoia, bardandola però con i colori della carboneria... E' opinione generalmente condivisa che la dinastia di Savoia dovrebbe soltanto cedere a talune pretese di riforma, per ampliare facilmente i confini del proprio Regno; ma tenere questa condotta significherebbe non uscire dai binari della politica moderna, nella quale si è sostituita la scienza politica con una routine d'inganni e di calcoli presuntuosi, che falliscono quasi sempre lo scopo. Vi è un'altra condotta più nobile e sicura, ed è quella che ottiene i medesimi risultati senza offendere i principi della giustizia, mettendosi al di sopra delle idee volgari che predominano in quest'epoca e periranno con essa.", N.d.C.).
Queste frasi contenevano bensì un'adesione implicita ai suoi più caldi desideri, ma respingevano ogni partecipazione agli intrighi, alle congiure dei rivoluzionarii, ed ogni atto che ripugnasse a quel sentimento di giustizia che di per sé più onora una Corte, che tutti i vantaggi che arrecherebbe il rigettarlo. Se si vede raramente posta in pratica tal massima, la violazione della legge cresce, in chi vuol camminar diritto, l'obbligo dell'osservanza; e, tosto o tardi, chi costantemente la segue, ne ha il guiderdone. Pur troppo il predominio di un vagheggiato pensiero, e più ancora perfidi consigli che il mettevano d'accordo colla coscienza, fecero deviare Carlo Alberto da quelle massime; ma nel suo cuore ne sentiva la rettitudine e non esitava in approvarle; perciò il mio rapporto gli fu gradito, e aderì in quel giorno ampiamente al mio sistema.
[...]


CAPITOLO XVIII

Invalsa è l'opinione ch'io fossi nemico del progresso e non a torto, se di quello ora s'intende che devia dai principii di verità e di giustizia: ma questi non hanno progredito mai, e dureranno fino alla consumazione dei secoli immutabili come furono ispirati all'uomo fin dalla fondazione del mondo. Il moderno progresso nell'ordine morale devia dai quei principii, ed è in contraddizione al suo nome, un vero regresso. Io sono certamente nemico a tutte le teorie, che insegnando soltanto agli uomini i loro diritti, tendono a far che pongano in non cale i loro doveri; a quelle teorie, che scompigliano la società coi nomi di libertà, di eguaglianza, che tolgono alle autorità legittime, ai Sovrani specialmente il lustro, il prestigio e la forza, che creano nuovi desiderii e nuovi bisogni per rendere i popoli inquieti ed infelici. Sono nemico a quell'istruzione che ha per fine non di educare tutte le classi, e l'infima soprattutto, nelle severe massime della Religione, ma anzi di cancellarla sostituendovi quelle di una virtù umana senza radice, senza usbergo, senza alcun conforto che la mantenga. Sono nemico a certe istituzioni di beneficenza, vero insulto alla carità di cui perfino s'abborre il nome, le quali si fondano per salire in riputazione, ed hanno per iscopo non di migliorare la sorte del popolo ma di guadagnar sopra di lui influenza, per far che più non cerchi sollievo nel vero fonte inesauribile di quella carità che non ha mancato mai fra gli uomini nei diciotto secoli scorsi. Sono nemico a tali Istituzioni, poiché oltre al cattivo spirito che le informa, sono pure una solenne menzogna; asili infantili, alberghi di ricovero, incunabuli e simili invenzioni che potrebbero essere buone se un altro spirito vi presiedesse, non lo saranno mai se tendono a rompere i legami di famiglia, a soffocare la voce del sangue, onde fin da bambini si perda l'affetto ai parenti, e le madri non siano più sollecite della loro prole onde nell'adolescenza si prenda a disdegno l'umile condizione de' parenti, e tal disdegno aumenti negli anni giovanili e verifichi il detto nemo sua sorte contentus; mentre anzi dovrebbe farsi in modo che ognun trovasse nella condizione in cui nacque la sua propria felicità. Tali considerazioni devono rendere avverso al vantato odierno progresso morale chiunque tiene a cuore la felicità delle generazioni avvenire non che della nostra. Ma se per progresso s'intende profittare delle nuove invenzioni e scoperte a vantaggio delle nazioni e degli individui, a questo progresso non so d'essermi opposto mai. Strade ferrate, battelli a vapore, ritrovati d'industria, avranno essi il loro lato cattivo accanto al buono come n'ebbero la stampa, la polvere e tante altre cose; ma non perciò quando sono generalmente adottate, vorrei privarne il mio paese e lasciare che rimanesse solo a non profittarne.
A me non apparteneva introdurre tali miglioramenti; vi pensava il Re, lo secondavano con zelo e premura i Ministri, nelle cui attribuzioni avevano luogo; io aveva a sufficienza delle mie per farmene promotore a solo fine di acquistar fama.
E' vero che mentre mi teneva a parte in quelle faccende che non erano di mia spettanza, usciva sempre dalla mia riserva quando si trattava di cose che toccavano all'ordine morale tanto superiore negli Stati al materiale quanto lo è negli individui lo spirito sul corpo. Da questo contegno che altamente dichiaro essere stato il mio, derivò la reputazione di uomo ligio esclusivamente ai Monaci, ai Conventi, alla Santa Sede, alle idee antiche che mi sono procacciata, e di cui non mi dolgo. In ciò sta tutto quanto basta a costituire un retrogrado. Ai nostri tempi chi non si dedica al benessere materiale, non merita che di lui si parli, si manda con Pier Sederini al limbo dei bambini; ma chi poi da' uno sguardo alla Religione che è la prima gloria dello Stato è tenuto poco men che nemico dell'umana felicità. Per buona sorte la retta coscienza basta sola a dare il guiderdone, e sappiamo che la reputazione degli uomini non è fondata negli articoli dei giornali, ne formata dal voto di gente cui il secolo attuale applaude, e forse deriderà il futuro.
Se non ho avversate le strade ferrate, le macchine a vapore ed utili invenzioni, ho bensì procurato di influire presso al Re, perché non fosse così facile a permettere asili d'infanzia e scuole elementari nelle quali si educassero i figliuoli del popolo non a diventare col tempo buoni cristiani e buoni sudditi, ma a divenire indifferenti in religione, e intolleranti d'ogni autorità, preparati a dar mano a qualunque ribellione nel gran dì che fossero maturi i piani di chi quelle istituzioni promoveva. Ecco le idee oscuratrici, ecco il nemico dell'istruzione del popolo: sento queste voci e non le temo, poiché sono menzogne; e lo sanno ben essi che le pronunziano. Ne io, ne quanti meco consentono nelle teorie conservatrici dell'ordine sociale avversano l'istruzione; noi la vogliamo anzi e la promoveremo sempre. L'ignoranza è generatrice di brutture e di vizii. Larga istruzione si porga al popolo, s'educhino i poveri fanciulli, imparino ciò che devono imparare ciascheduno secondo la classe in cui è nato, o secondo la professione che si destina, ed oltre ancora se per naturale ingegno può aspirare a maggiore altezza di studii; ma fondamento di ogni scuola sia la Religione, non figuri sol nei programmi, non sia in pratica oggetto secondario e trascurato. S'insegni quindi ciò che giova sapere, non ciò che gonfia l'intelletto e lo travia. Siam tutti consapevoli del fine che hanno gli attuali patrocinatori del popolare insegnamento, perciò ripeto colle parole del dottore delle genti: Videte ne quis vos decipiat per philosophiam et inanem fallaciam, secundum traditionem hominum; secundum elementa mundi (Ad Coloss., II, 8). Parole poco apprezzate, linguaggio di sacrestia, ma parole vere, le quali dureranno più assai che i precetti dei moderni pseudo-sapienti. Carlo Alberto non era persuaso di tanta nequizia, nondimeno fu per gran tempo sua ferma volontà che gli asili fossero affidati a corporazioni religiose; ma la sua volontà si eludeva sotto mille pretesti, e si andò disponendo l'educazione laicale, vero avviamento alle riforme religiose e politiche.
Se per gli effetti morali fa compassione vedere i fanciulli del popolo esposti a tanti pericoli di un'educazione male informata, inspira certamente pietà l'inetto insegnamento che loro si porge, e darebbe luogo al sorriso se non vi fosse il seme di funeste conseguenze, poiché è dubbia assai l'istruzione che si acquista, non dubbio lo spirito di superbia e di inquietezza che vi si impara. Basta dare uno sguardo ai libri elementari di quelle scuole per formarsi un'idea del senno di chi ne fu l'inventore o le promuove. In uno di quei libri di lettura stampato in Genova, e così dicasi degli altri, s'insegna, alle giovanette ed ai ragazzi, che dagli occhi escono le lacrime, che con essi si distinguono i colori, che chi non vede è cieco. Ciechi voi che insegnate ciò che avete per scienza infusa conosciuto fra le braccia della nutrice. O forse è necessario tanto dispendio di maestri per imparare che l'orecchio è l'organo dell'udito, che le rose e le viole mandano odore, che introduciamo nella bocca i cibi, che le fragole e le mele hanno un sapore gradevole, che si mastica coi denti, che l'uomo sta ritto su due piedi, cammina, corre, salta; che per mettersi la camicia si fa passare il corpo per lo sparato del petto e le braccio per lo sparato delle maniche! Forse gli stessi istitutori sorridono nel dettar tali insulse lezioni, onde i nostri contadini hanno da concepire l'idea della loro dignità, né cedere in orgoglio di sapienza ai sublimi maestri; però sanno bene questi renderle profittevoli con altre che vengono alternando su materie di tutt'altra importanza. Segretamente seguaci del socialismo, sperano veder avverato ma su più grande scala, il sogno della legge agraria: ad ogni occasione imitano la sediziosa idea della plebe indomita di Roma, non però mai allora insegnata nelle scuole. Io non ho mai cessato di avvertire il Re sul pericolo di ciò tollerare, ne di svelargli il fine dei sedicenti amici del popolo. Temo, io gli diceva, temo quei protettori di scuole, di asili, di alberghi d'onde si vorrebbe escludere la Religione; temo l'ingerenza esclusiva dei laici nelle opere pie, che dicendosi filantropiche cessano di essere pie, rigettando l'autorità de' Vescovi. Carlo Alberto queste cose pacatamente udiva, ma pure si lasciava strascinare da consigli diversi e dal timore di disgustare coloro che si millantavano con quei modi assicurare il conseguimento dell'ambita Italica Corona.
Era mio pensiero di dettare in fin del libro un Capitolo di politici avvedimenti: accintomi all'opera m'avvidi non esser materia di poche pagine; li tralascio riservandomi di unirli in un volume a parte che andrò a mio agio preparando, per pubblicarlo poscia, se mi concederà Dio tempo, vita e volontà di condurlo a termine.
Nei precedenti Capitoli ho dato contezza di quanto accadde dal principio del Regno di Carlo Alberto fino al giorno delle riforme. Ho preso la difesa di quell'epoca perché il nostro silenzio non dia motivo di imbaldanzire a chi ci crede confusi, abbagliati dal nuovo sole, come se avessimo sempre vissuto nelle tenebre. Ben altra luce spandevano in quel tempo Religione fra i contrasti fiorente, politica esclusivamente Sarda e libera da ogni influenza straniera, attitudine d'indipendenza assoluta, fermezza nelle risoluzioni, considerazione mantenuta presso tutte le Corti. Getti, lo dico senza timore né ostentazione, il guanto di sfida chi ardisce il contrario asserire. Facile è negare ciò che è evidente, adoperando menzogne, calunnie e sarcasmi; ma nella tenzone delle prove sarà difficile sostenerlo. Pronunzierò una sentenza da giureconsulto: Non juriis, neque contumeliis, sed rationibus, et probationibus certandum est. So bene che in questa via non mi vorranno seguire coloro che hanno giurato guerra ad ogni principio di Religione, di vero onore, e di giustizia; coloro che vestono col nome di patrio amore l'amor di sé stessi; coloro che chiamano onesto ciò che è utile, giusto ciò che giova, santa la causa che favorisce la loro cupidigia e le smodate ambizioni. Non è per costoro che ho scritto; giudizio di tal gente non si teme, non si cerca, non si apprezza. Fortunatamente per ogni paese, questi son pochi; ma vi è un'altra classe assai più numerosa, classe d'illusi che amano la luce; se non che invece di volgersi a quella che sgorga pura e brillante dall'astro del giorno, preferiscono il funereo splendore delle faci notturne che un lieve soffio di vento ammorza. Costoro sono suscettibili, sempre che davvero il vogliano, di comprendere la verità; ne però sdegno che mi provochino a tenzone: ma scelgo le armi, e queste siano i fatti. Io mi darò per vinto, e confesserò che non era da magnificarsi la condotta politica nostra negli scorsi anni, ne tanta la felicità del paese, quando gli uomini nuovi in una sola circostanza supereranno il passato. Non v'è superbia in tale disfida, perché di me non trattasi; io non fui che minima parte, l'ultimo dei piloti i quali reggevano il timone della nave; trattasi del sistema che allor si seguiva, dei risultamenti che in tal via si ottennero. Siano i nuovi più belli, più grandi, più generalmente riconosciuti, e non mi dorrò che scemi la gloria dell'epoca scorsa, ma non potrà scemare altrimenti mai. Sia ciò una prova che alla tenacità ben dimostrata delle mie opinioni non aggiungo l'ostinatezza: amor di patria vi si oppone; non sarei mai quello che per ammirazione del passato sprezzerebbe il presente splendore. Piacesse a Dio che sorgesse! sorga, e non sarò l'ultimo ad applaudirlo. Se le mutazioni negli ordini avessero avuto luogo per forza di popolo ammutinato, considerandole come empie nella loro origine, non avrebbero la mia adesione mai. Furono operate dal Re, da Lui volute; per qual fine, all'essenza della cosa non importa. E' consentaneo ai miei principii piegare a quelle leggi che emanate dall'autorità legittima, sono legittime, e come tali rispettarle, non propter iram, sed propter conscientiam (Rom 13, 5). Sia ciò detto a scanso di sinistre interpretazioni su quanto finora ho scritto.
Gli amanti del bel paese dove il sì suona grideranno forse, che avverso alle sue sorti era il seguito sistema; alle loro grida faranno eco senza dubbio quanti accecati da falso entusiasmo scambiano un nobil sentimento in follia. Oh Italia! da molti secoli ne' canti dei tuoi poeti fai sentire il compianto di tua debolezza e di tue sventure: fa senno alfine. Non sarai mai felice, finché irrequieta aspiri a un meglio che afferrar non puoi, e logori i tanti beni, i tanti tesori di grandezza di dovizie e d'arti onde ti ha reso bella, invidiata da tutte le genti Colui che a te affidava il magistero del mondo, e centro ti faceva dell'orbe cristiano. A scuoterti un'altra volta, gli amatori tuoi col nome di libertà e d'indipendenza hanno evocato il magico grido per cui nel decimo secolo si slanciò l'Occidente sotto lo stendardo della Croce contro la Musulmana minacciosa possanza. Dio lo vuole, hanno detto invocando la santa divisa, coloro che ti spingevano a disperate imprese; ma non lo voleva Dio e fosti vinta. Chiudi l'orecchio alle voci de' veggenti tuoi; profetizzano il falso; ritorna al culto della verità e della giustizia. Italia mia, credi ai veri amici che te non vogliono serva, ma Regina, e i varii popoli tuoi in bel nodo di concordia uniti sotto l'usbergo dei Principi che ai loro destini prepose Iddio.